portmanteu formato dall’unione di web (nel senso di rete, internet) ed ebete (idiota, ottuso) che indica lo scemo della rete, l’utente idiota dei social network che commenta o interviene nelle discussioni con poca o nessuna cognizione di causa, il “leone da tastiera” che insulta altri utenti, e/o contribuisce con le proprie condivisioni alla propagazione delle cosiddette “bufale”. Il termine nasce dal gergo telematico della fine degli anni 1990, come dimostra un glossario compilato tra il 1993 e il 1998 da Maurizio Codogno (basato in parte sul Jargon File v. 4.0.0 del 1997 e precedenti, a cura di Eric S. Raymond) e ora incluso nel suo sito internet dove viene attribuito a un certo “Ginzo”:
Stando alla definizione riportata, all’epoca il termine indicava però l’utente inesperto, che limitava la sua conoscenza della rete al “WWW” ovvero alla navigazione web: un incompetente, più che un idiota vero e proprio. Nel 2003 tale utente Mamo pubblica su un newsgroup un piccolo “glossario della Usenet italiana ” tale utente Mamo cita il termine –insieme ad altri simili come NETonto– con il significato di “scemo della rete”, attestando forse un cambiamento di significato già avvenuto. Le statistiche di Google Trends attestano ricerche sulla parola webete già dal 2005. Il neologismo è stato riproposto indipendentemente da Maurizio D’Alessio su Kataweb nel 2013 e da Stefano Spolverini nel 2014 sul suo blog. A rilanciare però il termine decretandone il successo sui media e sui social network è stato il giornalista Enrico Mentana in due celebri post il 27 e il 29 agosto sul suo profilo Facebook, in reazione all’ennesima ondata di commenti social–populisti seguiti al terremoto del Centro Italia:
Il giornalista ha preso le distanze dal presunto “succcesso” del termine celebrato dai media, sempre nel citato post del 29 agosto, con le seguenti parole: «…Per me è solo una parola ironica utilizzata in uno scambio che non è più su questa pagina: come il “grufola” che era alla riga precedente. Se è “la parola che twitter attendeva”, ecco un buon motivo in più per stare alla larga da quel social e dalle sue vestali. Voi fatene quel che volete: ma per me “webete” finisce qui».
Foto in alto: © Drobot Dean/Fotolia