Il fungo cinese

In Cultura popolare, Gastronomia, Ma veramente è successo?, Speciale Halloween, Superstizioni e credenze di Silvio DellʼAcqua

fungo cinese

Qualcuno mi ha telefonato. Una persona che conoscevo molto tempo fa. In un altro posto. Allora accadde una cosa. Io feci una promessa. Tutti promettemmo che saremmo tornati se quella cosa fosse ricominciata. E mi sa che ci siamo.It, Stephen King
Vicenza, marzo 1993. Una donna riceve da un’amica un barattolo contenente una informe medusa che galleggia in un liquido torbido, insieme alla fotocopia di un testo dattiloscritto. Guarda il foglio, poi guarda di nuovo il barattolo: «Proprio come quarant’anni fa — pensa — mi sa che ci siamo.» Il fungo cinese era tornato.

Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo tornare in un passato lontano, nell’estate del 1954. Era l’anno di Tutte le mamme[1] a Sanremo, del governo Scelba, delle prime pubblicità di elettrodomestici; l’Italia stava uscendo dagli anni bui del dopoguerra per avviarsi verso il miracolo economico, un periodo di crescita e benessere senza precedenti nella storia recente. Il 3 gennaio erano iniziate le prime trasmissioni televisive RAI, rigorosamente in bianco e nero e su un’unico canale, mentre i primi costosissimi televisori iniziavano a troneggiare nei bar, nelle osterie, nei cinematografi e nei salotti dei pochi che se lo potevano permettere.



Pubblicità elettrodomestici FIAT del 1954

Pubblicità elettrodomestici FIAT (1954).

Al cinema per vedere

Italiani al cinema per vedere Lascia o Raddoppia su un televisore (1959).



Quell’anno si vendettero 170 mila apparecchi televisivi, ma non fu solo il “focolare elettronico” a entrare nelle case degli italiani: ben più rapida e capillare fu l’invasione del misterioso “fungo cinese”. Si presentava come una mite creatura tentacolare che viveva in grandi vasi di vetro sui mobili della cucina o del tinello, galleggiando in una infusione di tè zuccherato e mesmerizzando i padroni di casa affinché rimpinguassero il liquido quotidianamente. In cambio di tanta premura, il “fungo” o qualunque cosa fosse, avrebbe rilasciato chissà quali sostanze benefiche nella bevanda, che gli adepti consumavano ogni giorno con soddisfazione convinti delle sue virtù taumaturgiche. Quali fossero di preciso queste virtù non era chiaro a nessuno, dato che la maggior parte dei sostenitori si limitava a sostenere che «fa bene», ma al torbido beverone venivano attribuite varie proprietà che andavano dagli effetti ricostituente e dimagrante, ai benefici nella sfera sessuale per lui e per lei, alla cura di ogni malanno, che fosse influenza stagionale, eczemi, problemi intestinali, di fegato, di milza, artrite, cirrosi epatica, arteriosclerosi o cancro. Addirittura qualcuno riteneva fosse una valida alternativa al vaccino contro la polio[2] o gli attribuiva poteri magici tali da creare armonia e distensione nell’ambiente domestico.[3]

Milano, piazza S

Milano nel 1954: forse il fenomeno del “fungo cinese” iniziò qui.

Nessuno sapeva esattamente da dove venisse: la moda esplose a Milano nell’estate del ’54,[4] ma si diceva che fosse arrivato dal Perù attraverso la Spagna,[5] o forse dal Brasile,[6] forse portato nel capoluogo lombardo da una signora torinese «reduce dal Sud–America, che vuole serbare l’incognito».[4] È possibile che arrivasse dall’estremo oriente,[7] dalla Germania così come dagli orti piemontesi,[8] ma è probabile che l’aggettivo “cinese”, più che ad indicarne l’origine, stesse ad evocare un’antica saggezza e un luogo esotico e misterioso, non ancora associato ai prodotti a basso costo che avrebbero invaso il mercato solo molti anni più tardi: «lo chiamano cinese per quell’alone magico che lo circonda», scrive La Stampa.[9]

La Stampa, 5 dicembre 1954.

Ad alimentare l’alone di mistero, il fungo non si trovava nei negozi. Si poteva solo ricevere in regalo da chi già lo possedeva e decideva di condividerlo secondo un rituale ben preciso: solitamente la massa, simile alla “madre” dell’aceto ma di colore grigio-marroncino — racconta il cantautore Francesco Guccini[10] — oppure a una “medusa” secondo altri,[5] veniva divisa in quattro parti o “figli”, una delle quali trattenuta dal donatore e le altre tre donate alle persone care. Insieme al fungo si passavano le istruzioni e le raccomandazioni, a voce o su un foglio solitamente ricopiato a mano o al massimo ciclostilato (le fotocopiatrici non erano ancora di uso comune[11]) con un meccanismo simile alla catena di S. Antonio o alla “torta dell’amicizia”. Quest’ultima infatti, nota anche come “torta di Padre Pio” sebbene nulla avesse a che vedere con il santo di Pietrelcina, è un dolce la cui preparazione prevede la condivisione dell’impasto con tre amici che lo utilizzeranno come ingrediente per fare a loro volta un’altra torta: si tratta in realtà della declinazione italica di una tradizione nordeuropea nota come “Herman the German” o semplicemente “Herman cake” o “friendship cake”, che a sua volta trae probabilmente origine da una tradizione Hamish.

…il « fungo cinese» segna ormai un’epoca, come lo hula-hop e gli abiti a palloncino.[12]Luca Goldoni

L’iniziale difficoltà di reperimento scatenò la “caccia al fungo” da parte degli italiani di ogni ceto, alla ricerca di qualcuno disposto a cederne un quarto. E non si poteva nemmeno comprare, perché scambiarlo per vile denaro avrebbe determinato il decadimento di ogni proprietà benefica. Ma il genio italico, specialista nell’arte di «gabbare il santo», trovò anche il modo di aggirare la superstizione per lucrare su una cosa che non si poteva vendere. Alcuni droghieri ad esempio lo regalavano ai clienti per aumentare lo smercio di tè e zucchero, necessari ad alimentare la coltura.[5] Siccome poi il fungo poteva essere essiccato e riportato in vita semplicemente reimmergendolo nel tè zuccherato, poteva essere tranquillamente chiuso in una busta e spedito per posta. Comparvero quindi annunci di disinteressati Dulcamara[13] disposti a cederlo gratuitamente per corrispondenza a chi ne facesse richiesta, al solo costo delle spese di spedizione: queste includevano ovviamente anche il prezzo del “disturbo”, ma in questo modo la gratuità era apparentemente immacolata e con essa le proprietà miracolose del fungo.

copertina de L'Europeo, dicembre 1954

L’attrice Mara Lane assaggia il fungo cinese, sulla copertina de L’Europeo del 5 dicembre 1954.

Domenica del Corriere, 19 dicembre 1954

Copertina della Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954.



«Chi beve l’infuso beve lieviti, fermenti e batteri vivi, vitamine» si legge sulla Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954, che al fungo cinese dedicò la famosa copertina illustrata da Walter Molino. L’orrendo inquilino divenne oggetto di conversazione quotidiana. Ci si scambiavano consigli per farlo crescere meglio e la domanda «come sta il fungo?»[4] divenne un comune convenevole. Il fenomeno fu talmente vasto e repentino che ne parlarono stampa e televisione: la febbre fu trasversale, conquistò dai proletari agli aristocratici, dalle casalinghe al jet set. A Milano lo chiamavano affettuosamente “fun-cin”; la copertina de L’Europeo del 5 dicembre 1954 mostrava una foto della ventiquattrenne attrice austro-britannica Mara Lane[14] mentre «assaggia il fungo cinese» che — conclude l’inchiesta condotta dalla rivista — «fa bene in molti casi». «Ha il sapore dei più fini champagne francesi», affermava il regista Luchino Visconti: gliel’aveva regalato Camilla Cederna, scrittrice e giornalista, e anche il maestro Arturo Toscanini gliene chiese un pezzo: «Non posso aspettare troppo, devo far di tutto per star bene», le disse alludendo alla Piccola Scala di Milano che avrebbe inaugurato in primavera col Fallstaff.[15] E per restare in tema di teatro Carlo Maria Pensa, giornalista e drammaturgo, ricordava di averlo ricevuto a Milano dal commediografo Cesare Giulio Viola, insieme ad una dedica scritta sopra un biglietto da una lira.[16]

Il fattore di maggior efficacia nella cura con the del fungo miracoloso è la suggestione, la quale può operare quei miracoli che invano chiederemmo a medicamenti ben più efficaci di questo cattivo aceto. La Provincia di Cremona, 17 ottobre 1954

Non mancavano certo gli scettici, ma gli entusiasti erano decisamente la maggioranza[8][6] e anche molti esperti diedero il beneplacito: in fondo, male non fa o perlomeno «è certo che non uccide».[4] A dire il vero, però, almeno una morte causata dal fungo (forse) ci fu. Secondo quanto riporta il Corriere dell’Informazione il 22-23 gennaio 1955, la vittima aveva mangiato «chi dice crude, chi dice cotte a bagno-maria cinque di quelle muffe grigiastre e sfrangiate, quando avevano già raggiunto proporzioni considerevoli».[7] La voce non fu tuttavia sufficiente a scoraggiare i fedeli: d’altronde, mangiando il fungo — forse per non doverlo più vedere — l’eretico aveva infranto il protocollo rituale. La colpa era quindi sua, non certo del fungo.

La setta dei funghisti

Nel mistero esotico del fungo fece capolino la superstizione e il fenomeno assunse un inquietante carattere fideistico, quasi fanatico: i sostenitori più convinti, ironicamente soprannominati “funghisti”[4] si spendevano in proseliti in favore della disgustosa bevanda, vantandone i benefici e citando miracolosi quanto improbabili risultati ottenuti dai conoscenti. Qualcuno si inventò addirittura un fantomatico principio attivo, la “teomicina”,[17] ambigua parola che ricorda il nome di un antibiotico (la neomicina, scoperta proprio pochi anni prima), ma che al contempo si ispira al greco e vorrebbe significare “fungo di Dio” (da theós, divinità, e mikos, fungo).



La leggenda urbana si diffondeva e il meccanismo del passaparola arricchiva via via di nuovi dettagli le raccomandazioni per il suo mantenimento, fino a farne complesse regole rituali. Si beveva la mattina a digiuno, andava regalato rigorosamente di martedì[18] e né le donne durante il periodo mestruale, né gli “scettici” avrebbero dovuto maneggiarlo, altrimenti il permaloso fungo avrebbe incrociato le braccia (o i tentacoli?) e smesso di spandere i propri benefici influssi, forse sarebbe addirittura morto. E se non si ottenevano gli effetti sperati, naturalmente la colpa non era del sacro fungo, ma del paziente — o meglio, adepto — che era stato superficiale nell’osservare alla lettera il protocollo affidatogli. Nacquero anche sinistre leggende sulle pesanti maledizioni ricadute sugli apostati che avevano distrutto la creatura o i suoi figlioletti: il fungo, da fenomeno di costume quale era, si rivestiva via via degli elementi esoterici propri di un culto magico-superstizioso.

D’altronde, negli anni ’50 l’Italia era ancora un paese legato all’agricoltura, che assorbiva il 41% della popolazione attiva,[6] e la cui memoria collettiva era ancora legata a riti scaramantici e rimedi “della nonna”. La superstizione era un sentimento ancora ben radicato anche tra i “trapiantati” in città e il desiderio umano di sentirsi parte di un gruppo — che fosse quello dei tifosi di una squadra di calcio o dei bevitori di mucillagine poco importa — fece il resto. Non fu infatti il primo «toccasana di lunga vita» del dopoguerra: qualche anno prima fu la “maglia bulgara” (storpiatura del francese maya bulgare), uno yogurt del quale si vantavano le proprietà terapeutiche; poi nel 1952 c’era stato il boom del lievito di birra e nel 1953 l’attenzione degli italiani era per certe “uova trifoniche” che non ci è dato sapere cosa fossero esattamente ma che di fatto erano uova marce.[4] Ma nessuno di questi rimedi raggiunse la popolarità del fungo cinese.

il yoghourt – latte coagulato blugaro preparato con la

Opuscolo della prima metà ‘900 sulla “maya bulgara”, uno yogurt.




Il crepuscolo dei miceti

Il “sacro blob” aveva però due nemici: la matematica, come tutte le catene a progressione geometrica, e la volubilità del popolo italiano. La velocità alla quale si rigenerava obbligava ben presto il possessore a trovare nuovi malcapitati cui rifilarlo. Il fungo si diffondeva quindi rapidamente nei tinelli, anche perché riceverlo equivaleva ad essere tra le “persone care” del donatore e rifiutare la particola era considerato quantomeno inopportuno. Questo portò ben presto all’esubero, come rilevò La Stampa già il 29 dicembre del 1954:[9]

In principio, un anno fa, era molto ricercato: c’era gente disposta a spendere somme non piccole per averlo. Poi, per la sua rapidità nel riprodursi, fu regalato a parenti e amici. Ora, fin dall’autunno scorso, e specialmente a Natale, si pregano i conoscenti di accettarlo in omaggio, perché il mercato ne è saturo.

Del resto i conti sono presto fatti: se si regalano tre parti (ricordiamoci che la quarta resta al “donatore”), e ognuna di esse ne produrrà altre tre nell’arco di — ipotizziamo — un mese,[19] nel giro di 12 mesi i tinelli presidiati saranno 312, ossia oltre 530 mila partendo da un singolo vaso. Ancora un mese a saranno un milione e mezzo; altri due mesi e si supererà di una volta e mezza il numero delle case esistenti in Italia che, secondo l’ISTAT, nel 1951 erano poco più di dieci milioni.[20]

vasi di kombucha

Hexatekin/CC-BY-SA-4.0

È evidente che, con questi numeri, trovare qualcuno disposto ad accettare altra mucillagine diventava sempre più difficile, finanche impossibile; ma d’altra parte il fungo non si poteva buttare pena gravissime disgrazie su tutta la famiglia e generazioni a venire. Così i vasi e recipienti occupati dall’ingombrante ospite si moltiplicavano su credenze e comò, fino a quando, già con l’anno nuovo, gli italiani iniziarono a scocciarsi di tanto daffare. Non tutti poi, ne erano così entusiasti: molti lo avevano accettato solo per cortesia o perché era la moda del momento e non avevano quindi particolari remore a disfarsene. Così, rapidamente come era sorto, l’amore per il fungo iniziò a scemare e con esso il timore delle maledizioni: in fondo, ad impossibilia nemo tenetur. Rivelandosi pragmatici almeno quanto erano superstiziosi, gli italiani se ne liberarono negli scarichi del wc, oppure gettandolo nell’orto come concime. A parte qualche irriducibile sostenitore, entro gli inizi del 1955 il fungo scomparve dalle case con la stessa rapidità con la quale vi era entrato. Di lui resterà solo l’imbarazzo di una sbornia collettiva e una ironica canzone del napoletano Renato Carosone: Stu Fungo Cinese!

‘Stu fungo cresce, cresce, dinto ‘o vaso / e chianu, chianu fa… ‘nu figlio ‘o mese! Stu Fungo Cinese!, Renato Carosone

Che cos’era, in realtà, «’stu fungo cinese?»

Innanzitutto non era un fungo: si trattava in realtà di uno SCOBY (Symbiotic Colony of Bacteria and Yeast), come la madre dell’aceto o i grani di kefir. Era una coltura di Acetobacterium xylinum (uno schizomicete molto diffuso) in simbiosi con alcuni saccaromiceti, come rilevò già nel 1954 — in piena “febbre” — il professor Carlo Cappelletti, direttore dell’istituto botanico dell’Università di Padova che ne trattò in articolo su Oggi. La consistenza era data dalla cellulosa prodotta dagli stessi batteri e la forma, solitamente circolare, era data dal recipiente nel quale era tenuta.

vaso con kombuca

La composizione variava a seconda del tè e dell’ambiente, la microflora cambiava da coltura a coltura, da contenitore a contenitore; il che rendeva impossibile tracciarne la provenienza o determinarne le proprietà terapeutiche. Infine, contrariamente a quanto ritenuto, non era il tè a nutrire l’essere ma la coltura batterica ad acidificarlo e farlo fermentare trasformandolo in una bevanda probiotica fermentata, potenzialmente benefica per la flora intestinale quanto uno yogurt o un kefir. In pratica era qualcosa di molto simile alla kombucha, una bevanda a base di tè fermentato di cui si ha notizia in Cina, dove era chiamato chájūn, sin dal 250 a.C. L’etimologia del nome kombucha non è certa, ma vi si riconosce la parola cha che significa (dal cantonese chàh) in molte lingue asiatiche, indiane e in portoghese: il resto potrebbe derivare da kombu, nome giapponese di un’alga molto utilizza in cucina e che veniva forse aggiunta all’intruglio. Dalla Cina la kombucha si diffuse in tutto il sud est asiatico e, insieme al tè attraverso le “vie della seta”, anche in India e medio oriente; senza però penetrare l’Europa dove gli ingredienti base (tè e zucchero) erano ancora troppo rari e costosi.

“Coltura e preparazione del tè”, 1847. Da The History of China & India, Pictorial & Descriptive, p. 158..

Tra il XIX e gli inizi del XX secolo si affermò anche in Asia settentrionale ed Europa dell’Est, dove il tè nero era molto popolare e la fermentazione era già nota come metodo di conservazione: già si consumavano alimenti e bevande preparate in questo modo, come i classici crauti o una una bevanda fermentata di pane o cereali, poco alcolica, detta kvas (Квас) o “birra di pane”. Nota come čajnyj grib, “fungo del tè” o teekvas, “kvas di tè”, per analogia con la sopraccitata bevanda, già agli inizi del ‘900 la kombucha divenne di gran moda in Russia come rimedio per svariati malanni quali anoressia, malattie gastrointestinali, mal di gola e ipertensione.


“Vendita di kvas”, dipinto di Kalistov (Kallekstov) Vasily Efimovich, 1862

Furono probabilmente i prigionieri russi catturati dai tedeschi durante la prima guerra mondiale a portare in Germania il teekvas, ma stante la quasi totale mancanza di tè dovettero arrangiarsi con le infusioni di foglie di rovo, infiorescenze di tiglio o quello che si trovava: ottennero così l’Ersatzteekwas, che significa “surrogato del teekvas”. Nonostante la sostituzione, la bevanda non sembrava perdere le mirabolanti proprietà terapeutiche — essendo queste legate alla suggestione più che ad una reale efficacia fitoterapica — e conquistò anche i tedeschi i quali, ritenendo venisse dal Giappone, lo chiamarono “Fungo-Japòn”. Un noto microbiologo, Wilhelm Hennberg, ne scrisse una ricetta di preparazione nel suo trattato Handbuch der Garüngsbakteriologie del 1926, dalla cui traduzione furono tratte proprio le “istruzioni” che avrebbero circolato con il “fungo cinese” negli anni ’50. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, in Europa andò perdendosi l’abitudine di preparare il teekvas ma questo fece in tempo ad arrivare nel nord Italia con le truppe tedesche. Fu una comparsa fugace: con la ritirata del 1945 la coltivazione del teekvas scomparve quasi del tutto insieme a coloro che lo avevano portato. Continuò ad essere coltivato nelle zone rurali,[8] forse da qualcuno che lo aveva ricevuto in dono dai tedeschi[21] e non se ne era sbarazzato, ma la diffusione rimase limitata a qualche vicino di casa.

Villa Italia a Cascais

Villa Italia a Cascais, residenza di re Umberto II in esilio.

Ci voleva ben altro per innescare il fenomeno pop, ci voleva il “bel mondo” con le sue bizzarrie modaiole. Sul caso indagò la giornalista Clara Grifoni de La Stampa, la quale scoprì che il “paziente zero” poteva essere una anonima «contessa torinese» che nel 1947 sarebbe tornata con il fungo da Cascais, in Portogallo, dove si era recata a far visita all’ex re d’Italia Umberto II di Savoia esiliato dopo la nascita della Repubblica Italiana. Non si sa se lo ricevette dalla famiglia reale o da qualcuno del luogo, né se fosse coltivato localmente, arrivato dall’Italia o da chissà dove, ma sembra che là lo chiamassero “fungo peruviano”:[21] da ciò si sparse la voce secondo la quale a portarlo in Italia sarebbe stata una «signora torinese reduce dal Sud-America».[4] La nobildonna fece grande propaganda del micello, introducendolo così negli ambienti aristocratici e borghesi del nord Italia presso i quali avrebbe covato la moda che nel ’54 — raggiunta forse la necessaria “massa critica” — sarebbe poi esplosa diventando nazionalpopolare.

Dal fungo cinese all’alga egiziana

Negli anni successivi il fenomeno svanì ma il fungo non scomparve mai del tutto. Ancora negli anni ’60 alcuni continuavano a coltivarlo in casa; sopravvissero anche le credenze rispetto alle sue proprietà taumaturgiche e, dimenticato il “divieto” di venderlo pena la perdita dei poteri curativi, si poteva anche comprare in erboristeria come medicamento.[22] Ci furono anche sporadiche ricomparse negli anni ’70 e ’80 in forma di “catena di S.Antonio”, ma fu nei primi ’90 che ebbe il suo più importante revival: ricomparve a Vicenza nel 1993 sotto le mentite spoglie di “fungo del kefir”,[23] (in realtà il “kefir” è una bevanda di latte fermentato originaria del Caucaso che nulla vi ha a che vedere); mentre dal gennaio 1994 più estesamente nel nord Italia[24] si fece chiamare “fungo egiziano”,[25] “alga egiziana”[26] o “alga del Nilo”.[24]
copertina L'Europe 15 giugno 1994

«Arriva l’alga dei miracoli» annuncia la copertina de L’Europeo del 15 giugno 1994.


Ancora accompagnato dalle istruzioni (questa volta fotocopiate), prometteva di diffondere imprecisate “energie cosmiche” e addirittura di esaudire tre desideri.[27] Ben presto si diffuse a tutta la penisola e nel ragusano si segnalarono addirittura manifestazioni sincretiche tra religiosità popolare e superstizione,[28] con i fedeli che rubavano l’acqua santa in chiesa per alimentare («in modo blasfemo», commentò il parroco di Scicli) la cosiddetta alga.[24] Nonostante il fenomeno avesse assunto dimensioni consistenti, tali da interessare la stampa scandalistica (guadagnandosi di nuovo, come nel ’54, la copertina de L’Europeo), l’alga rimase un mix di new age e provincialismo ben lontano dalla massiccia popolarità raggiunta nel dopoguerra. E anche questa volta durò poco, risolvendosi nell’arco dello stesso anno con litri di tè fermentato negli scarichi dei wc.

La kombucha

Nel frattempo ebbe invece successo il suo alter–ego, il tè di kombucha che, spogliato di ogni approccio mistico e superstizioso, entrava nel mercato occidentale alla luce del sole. Diffusosi dapprima negli Stati Uniti tra gli anni ’80[29] e ’90[30] come bevanda probiotica, è in seguito sbarcato in Europa e quindi anche in Italia. Oggi è un fenomeno hipster: è possibile consumarlo nei “kombucha bar” specializzati, oppure acquistare lo SCOBY (la coltura) su Amazon, fresco o essiccato, e cimentarsi nella produzione domestica. Non senza rischi: se la colonia è di dubbia provenienza, ad esempio, potrebbe essere contaminata da agenti patogeni che finiranno inevitabilmente nella bevanda.

Tè di kombucha in bottiglia

Tè di kombucha “moderno”.

La scienza riconosce effettivamente alla bevanda alcune proprietà benefiche, in particolare antiossidante, antibatterica e antifungina; proprietà in generale condivise con altri alimenti fermentati come lo yogurt o il kefir. Nessuna panacea o elisir di lunga vita quindi, anche se l’immaginario collettivo continua ad attribuire al tè di kombucha proprietà tipiche dei cosiddetti superfood, ossia cibi e bevande considerati talmente salutari da sconfiggere ogni malattia nonostante l’assenza di evidenze scientifiche in tal senso. In pratica, il fungo cinese è tornato di nuovo: ha solo capito che per avere successo nel XXI secolo bisogna avere un appeal “moderno” e rivestire la magia di pseudoscienza.

Opera tutelata dal plagio su Patamu.com con numero di deposito 113620.

Note

  1. [1]Cantata di Gino Latilla e Giorgio Consolini, fu la canzone vincitrice del Festival di quell’anno.
  2. [2]Luzzi, Saverio. Salute e sanità nell’Italia repubblicana. Roma: Donzelli, 2004. Pag. 46.
  3. [3]occhio malocchio, prezzemolo e finocchio & o’ fungo cinese” in Il Chichingiolo degli Asmarini. Febbraio 2009. Web.
  4. [4]La Stampa, 5 dicembre 1954 (op. cit.)
  5. [5]La Stampa, 20 agosto 1954 (op. cit.)
  6. [6]Schena — Ravera (op. cit.)
  7. [7]Query (op. cit.)
  8. [8]G.F Venè. (op. cit.)
  9. [9]La Stampa, 29 dicembre 1954 (op. cit.)
  10. [10]Guccini (op. cit.)
  11. [11]La prima copiatrice xerografica completamente automatica è del 1959, prodotta dalla Xerox (→xerocopia).
  12. [12]Goldoni, Luca Italia veniale: viaggio fra i peccati nazionali. Oscar Mondadori, 1969. Pag. 23
  13. [13]Il dottore Dulcamara era un ciarlatano che vendeva un «mirabile liquore» in grado di guarire ogni malanno, personaggio dell’opera lirica L’elisir d’amore di Donizzetti (1832).
  14. [14]Mara Lane, vero nome Dorothy Bolton, nata il 1º agosto 1930. Quell’anno recitava la parte di Marilyn nella commedia americana Susanna ha dormito qui (Susan slept here).
  15. [15]Cederna, Camilla Il mio Novecento. BUR/Rizzoli, 2011. pag. 147.
  16. [16]Carlo Maria Pensa in Il Dramma, mensile, anno 34 – nº 266. Pag. 43 PDF
  17. [21]Grifoni in Stampa Sera (op. cit.) Grifoni in Stampa Sera (op. cit.)
  18. [18]Fagnani, pag. 90 (op. cit.)
  19. [19]Prendendo per buona la canzone di Renato Carosone, secondo la quale il fungo produceva « ‘nu figlio ‘o mese».
  20. [20]Censimento generale della popolazione, 1951.
  21. [21]Improbabile che fosse davvero peruviano, visto che la kombucha si è diffusa nelle Americhe solo nella seconda metà del XX secolo.
  22. [22]Mengoni, (op. cit.)
  23. [23]Tutte Storie (op. cit.)
  24. [24]Arona (op.cit.)
  25. [25]Angeletti, Sergio. “Il ‘Fungo Cinese’ Torna Vestito Da Egiziano.” Corriere Della Sera, 17 Apr. 1994, Corriere Scienza.
  26. [26]Folklore Urbano, (op. cit.)
  27. [27]leggende metropolitane” in My Cross of World. Web.
  28. [28]Sui sincretismi tra religione e magia nel sud Italia si vedano Sud e Magia di E. De Martino e Sud Antico di E.Lelli.
  29. [29]In particolare il successo della kombucha in nordamerica fu legata alla paura dell’AIDS, la cui diffusione ha avuto inizio negli anni’80: si sperava infatti che il tè di kombucha potesse supportare il sistema immunitario. Cfr. Encyclopædia Britannica, (op. cit.)
  30. [30]Wired (op. cit.)

Bibliografia e fonti

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Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.