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Blue Peacok: la bomba nucleare a galline

In Dal mondo, Storia di Silvio DellʼAcqua

 

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Nel tentativo di aggiudicarsi la supremazia militare nella corsa agli armamenti, durante guerra fredda le due superpotenze contrapposte — i paesi NATO e quelli del patto di Varsavia — non solo accumularono, com’è ben noto, decine di migliaia di armi nucleari strategiche, sufficienti a distruggere tutto il pianeta svariate volte, ma realizzarono anche un considerevole numero di armi nucleari tattiche, ordigni a basso potenziale concepiti non come deterrente ma per essere effettivamente impiegate sul campo di battaglia.

Tra gli anni sessanta-settanta entrambi gli schieramenti svilupparono (tra l’altro) “mine atomiche”, principalmente con l’idea di seppellirle lungo la cosiddetta “cortina di ferro”, il confine che divideva l’Europa e attraverso il quale entrambe le parti si aspettavano l’invasione con ansia millenaristica. La detonazione di tali ordigni avrebbe annientato qualunque mezzo corazzato, mentre gli enormi crateri e il fallout radioattivo avrebbero reso la zona circostante completamente inutilizzabile, creando una “zona di alienazione” tale da rendere estremamente difficoltosa una seconda ondata.

Una delle prime armi di questo tipo fu sviluppata però dai britannici già nel 1954 presso il centro ricerche della difesa a Fort Halstead, nel Kent: fu il progetto Blue Peacock, e nel caso la mina nucleare non fosse un’idea già folle di per sé, questa si collocava a pieno titolo nel vasto panoptikum delle armi più bizzarre concepite durante guerra fredda. L’idea di base era la stessa, ossia realizzare ordigni da seppellire in Germania occidentale, lungo il confine con la Repubblica Democratica Tedesca, per fermare una eventuale invasione sovietica via terra.

Il progetto aveva però diversi problemi, dagli evidenti rischi di un sistema difensivo del genere a quello di dover convincere gli alleati tedeschi a farsi seppellire centinaia di bombe atomiche in casa propria. Ma per i progettisti britannici queste erano quisquilie: il loro busillis era che — nel già non caldissimo inverno nordeuropeo — il freddo del terreno avrebbe congelato i detonatori, rendendo le armi inservibili. Mannaggia.

Ed ecco allora che nel 1957 arriva l’idea geniale: riempire l’involucro di galline. Il calore generato dai volatili sarebbe stato sufficiente a garantire quel minimo di temperatura necessaria affinché i detonatori potessero funzionare. Ogni ordigno, del peso di 7 tonnellate, aveva una potenza di “soli” 10 kiloton e avrebbe aperto un cratere di diametro stimato in 375 piedi (114 metri). Certo, appena un millesimo della potenza di una bomba termonucleare già disponibile all’epoca, ma quasi potente come la bomba da 16 kiloton sganciata su Hiroshima neanche dieci anni prima. Ovviamente, nel caso l’arma fosse stata detonata, le galline sarebbero state disintegrate ma, nel contesto di una terza guerra mondiale, sarebbe stata considerata una perdita irrilevante. Del resto, durante la seconda guerra mondiale, anche gli americani avevano tentato di utilizzare ignari pipistrelli per trasportare bombe incendiarie (le bat bombs, altra minchiata).

Tuttavia, gli ingegneri del Royal Armament Research and Development Establishment dovettero pensare anche a come farle sopravvivere fino al momento dell’estremo sacrificio, prevedendo un dispositivo di alimentazione automatica (simile a quelli utilizzati negli allevamenti) e opportune protezioni per impedire loro di beccare inconsapevolmente cablaggi mettendo fuori uso la bomba. In queste condizioni però la mina sarebbe rimasta operativa solo otto giorni, il tempo stimato di sopravvivenza delle galline nell’involucro, trascorsi i quali avrebbe potuto essere inservibile. Un po’ poco, per una cosa che doveva stare sottoterra.

L’idea era però di armare le mine solo quando ve ne sarebbe stato davvero bisogno. Un’invasione sovietica dell’Europa occidentale ai tempi della guerra fredda non avrebbe potuto certo essere un Blitzkrieg, ma sarebbe stata una operazione di proporzioni enormi: avrebbero insomma avuto tutto il tempo di preparare le mine, caricarle di galline, ritirarsi lasciando che i sovietici avanzassero e che vi stabilissero sopra le proprie retrovie. Entro gli otto giorni successivi, la mina sarebbe stata detonata da remoto, spazzando via accampamenti, depositi, rifornimenti, automezzi e facendo letteralmente “terra bruciata”. Ed erano progettate anche per esplodere immediatamente a qualunque tentativo di manomissione (rimozione, apertura, allagamento).

Furono costuiti due prototipi della bomba Blue Peacock prima che il think thank britannico realizzasse finalmente l’infattibilità del progetto. A convincerli definitivamente fu la valutazione delle conseguenze sull’uso di una simile arma: da una parte rischiava di essere inefficace, poiché non vi era nessuna certezza che entro otto giorni le retrovie nemiche si sarebbero trovate proprio sopra le bombe; dall’altra le conseguenze in termini di devastazione, di fallout radioattivo e di rischi per la popolazione civile, per di più in territorio alleato, erano inaccettabili anche nel delirio paranoico della guerra fredda. Il folle progetto fu quindi abbandonato e nessuna gallina dovette mai entrare in una mina nucleare.

Intanto dall’altra parte dell’Atlantico, l’11 marzo del 1958 una bomba nucleare Mk 6 sfuggì accidentalmente ad un B-47E-LM “Stratojet” e cadde su una fattoria nel North Carolina centrando e distruggendo un pollaio. La capsula fissile fortunatamente non era inserita, ma lo scoppio del detonatore ferì quattro persone e uccise un numero imprecisato di galline. Si vede che era destino.

L'autore

Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.


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