chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. Matteo 24:17–19
Vi dice niente il nome Pryp’jat’?[1] È un fiume dell’Europa centrale, affluente del più noto Dnepr nel quale confluisce poco nord di Kiev, in Ucraina. Citato come “Pripet” nella Cronaca di Nestore del XI secolo, il più antico documento russo, il nome potrebbe derivare dallo slavo con il significato appunto di “affluente”,[2] oppure dalla parola dialettale locale pripec, “riva sabbiosa”[3][4] o ancora dal baltico occidentale con riferimento alle secche.[5][6]
Il bacino idrografico del Pryp’jat’ forma una vasta conca alluvionale tra Ucraina e le alture della Bielorussia nota come Polesia o Polessia, probabilmente dal prefisso pol–, comune a svariate lingue, che sembra indicare una palude o un prato boschivo (è presente infatti anche nel latino pollìcinum, “terra paludosa” da cui il toponimo italiano Polesine che indica le paludi di Rovigo e del Ferrarese[7]). È una regione di fitte foreste di pini, aceri e betulle, interrotte da corsi d’acqua più o meno grandi che si biforcano e si snodano in continui meandri, confondendosi con stagni e paludi. Culla primigenia della civiltà slava,[8] le paludi del Pryp’jat’ sono un luogo incantevole quanto impenetrabile: alla fine del XIX secolo non vi vivevano più di sette abitanti per chilometro quadrato,[9] concentrati nelle zone bonificate tra il 1870 ed il 1900 che non superavano un quarto della superficie totale.[10]
Attraversate da poche, impervie strade e per di più soggette a frequenti inondazioni, le immense “paludi del Pripet” erano considerate un’ostacolo insuperabile. L’Armata Rossa dovette dividersi in due ed aggirarle mentre, nel 1920, marciava su Varsavia per sferrare la controffensiva ai polacchi che avevano preso Kiev.[11] Erano però anche un ottimo nascondiglio, prima per le bande di predoni che razziavano villaggi (prendendosela in particolar modo con gli ebrei), poi per i partigiani che durante la seconda guerra mondiale combatterono aspramente contro i nazisti e infine, almeno fino al 1950, per le formazioni clandestine dei nazionalisti ucraini.[12] Poi di nuovo il silenzio finché, un giorno del 1970, i bulldozer sovietici si aprirono un varco tra queste paludi per fondare una città dal nulla, in un punto anonimo sulla riva destra del Pryp’jat’. In onore al fiume, o forse in mancanza di fantasia, alla nuova città fu dato il nome, in russo, di Pripjat’ (Припять).[1]
Secondo la mitologia greca, Prometeo sottrasse il fuoco agli dei per donarlo agli uomini come strumento di progresso e civiltà. Secondo la mitologia sovietica, Lenin avrebbe promesso agli uomini l’energia elettrica come strumento di vittoria ed affermazione dei princìpi del comunismo. Nel 1920, il presidente bolscevico dichiarava ad un corrispondente del quotidiano britannico Daily Express che il grande piano di elettrificazione di tutto il paese avrebbe creato le basi per «una vita civile senza sfruttatori, senza capitalisti, senza grandi proprietari fondiari, senza commercianti.»[14] All’Unione Sovietica le fonti di energia non mancavano: c’era abbastanza carbone, gas e petrolio da raggiungere l’autosufficienza ed esportare le rimanenze in cambio di valuta pregiata. Il 90% di queste risorse si trovava però ad est degli Urali, mentre il maggior fabbisogno di energia si concentrava ad ovest, nella parte europea, più popolosa ed industrializzata. Alle soglie degli anni’70, il costo eccessivo del trasporto attraverso la catena montuosa e la necessità strategica di mantenere l’indipendenza energetica dai paesi europei spinsero il Cremlino a rafforzare la produzione di energia elettronucleare nella regioni della Russia occidentale e dell’Ucraina.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.Giacomo Leopardi
La scelta del luogo per il primo di questi nuovi impianti sarebbe ricaduta sulle sponde del Pryp’jat’, nei pressi di un villaggio di cento anime chiamato Yanov: trovandosi sulla ferrovia Černigov–Ovruč, una dalle poche vie di comunicazione attraverso la Polesia, aveva già una piccola stazione che poteva essere usata come testa di ponte. Era giunto il momento di portare l’ordine socialista tra queste paludi reazionarie. Nel maggio del 1970 iniziarono gli scavi di fondazione di quello che sarebbe stato il primo rettore della centrale “V.I. Lenin”.[15] Siamo circa 18 km a nordest di un villaggio di origine medievale ormai semiabbandonato chiamato Čornobil’, che forse non vi dice nulla ma che in ucraino significa “nero stelo d’erba” e si riferisce probabilmente all’Artemisia vulgaris, pianta erbacea abbondante nella regione e molto simile all’assenzio.[16]
Quella di Černobyl’ non sfuggiva sicuramente a questa logica, visto che oltre a produrre energia elettrica vi si produceva plutonio per usi bellici, ma Pripjat’ non era una cittadella militare chiusa e segreta, come ne esistevano nella parte orientale del paese.[19] Pripjat’ era di un’altra generazione: era una atomograd (città dell’atomo), una città modello socialista da esibire con orgoglio.
La città ideale
A Pripjat’ i progettisti ebbero la possibilità di uno spazio libero dove disegnare l’utopia della “città ideale” sovietica. L’impianto urbanistico fu disegnato dagli architetti di Kiev ispirandosi allo schema del “principio triangolare” dell’architetto moscovita Nikolaj Ostozhenko, già impiegato in altre città di fondazione sovietiche, basato su una combinazione di edifici a torre alti fino a 16 piani e di tradizionali chruščёvka,[20] casermoni popolari più lunghi che alti (fino a 5 piani), separati da ampi viali e spazi verdi. Gli edifici a torre consentivano di risparmiare spazio, che veniva impiegato per la viabilità ed il verde pubblico: in pratica era una rivisitazione socialista della ville radieuse di Le Corbusier. Almeno altre dieci città sarebbero state modellate su Pripjat’ ed alcuni gruppi di edifici furono replicati esattamente in altre due atomograd, Volgodonsk e Togliatti.
Questo aspetto stava particolarmente a cuore nientemeno che al segretario generale Leonìd Brèžnev, che si occupò personalmente di curare l’assetto urbanistico di Pripjat’ dispensando consigli agli architetti. In qualche modo l’obbiettivo fu centrato: se ci pensate, oggi il traffico non è di certo il problema principale di questa città.
Pripjat’ nacque ufficialmente il 14 aprile del 1972 per decreto del Praesidium del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica ma già dal 1970 (come ricorda l’insegna all’ingresso della città, «Припять 1970») esisteva un insediamento che comprendeva almeno un ostello, un refettorio, un ufficio amministrativo ed un villaggio temporaneo per gli operai chiamato “Lesnoj”.[21]
I nomi delle vie erano tipicamente sovietici, l’asse cittadino era prospekt Lenina (проспект Ленина) ossia “viale Lenin”. Quasi ogni città sovietica aveva una via principale intitolata a Lenin, come in Italia ogni comune aveva una “via Roma” per volere del partito fascista.
A Pripjat’ c’era perfino un club nautico dove era possibile praticare la navigazione da diporto e vari sport acquatici sul fiume, le cui rive erano méta anche di semplici bagnanti e pescatori. La stazione ferroviaria invece era quella del villaggio di Yanov, diventato ormai un “borgo” di Pripjat’, che si trovava appena fuori città e costituiva il principale scalo per passeggeri e merci.
Area di Pripjat’: la città, il porto, la stazione di Yanov, la centrale elettronucleare di Černobyl’.
Essendo realizzata con intervento unitario, Pripjat’ era una città modernista architettonicamente omogenea dal centro alla periferia. Il “centro” di Pripjat’ era la Ploshchad’ Lenina (foto 8), la grande “piazza Lenin” dove sorgeva il moderno Hotel “Polyssia” (foto 12, dal nome della regione, la Polessia) ed il palazzo della cultura “Energetik”. Il palazzo della cultura era una tipica istituzione sovietica: un edificio concepito come punto di ritrovo per i cittadini, i quali potevano svolgervi diverse attività culturali, sportive e naturalmente sorbirsi della sana propaganda. Qui si trovavano cinema, teatro, biblioteca, un centro sportivo con palestre e piscina. C’era anche una discoteca chiamata “Edison–2” (Эдисон–2), il tempio del divertimento dell’area di Čornobil’ i cui disc–jockey erano celebrità locali. Si ballava naturalmente disco music ma anche del rock’n’roll occidentale, dal rockabilly degli anni ’50 ai Beatles. Per gli amanti della musica dal vivo, non mancava la rock band autoctona, i Pulsar.
Sulla piazza centrale si trovava anche il supermarket Pripyat’ con ristorante, ma era possibile fare acquisti anche in un grande negozio di generi alimentari chiamato Voschod (“alba”) e due “centri servizi”, in pratica quelli che oggi chiameremmo centri commerciali, più periferici: ad est il “centro servizi 80” (che comprendeva tra l’altro una farmacia, parrucchiere, un atelier, uno spedizioniere) e a ovest il Yubileynyy (con barbiere, fotografo e lavasecco).
Questa città delle meraviglie non poteva che attirare nuovi abitanti da tutti i territori della sterminata Unione Sovietica, non tanto per la qualità della vita ma anche e soprattutto «per avvicinare almeno di un giorno l’ambito e radioso futuro socialista» (P. Nică [23]). La popolazione aumentò così molto rapidamente, circa 1 500 persone all’anno, fino a raggiungere verso la metà degli anni ottanta i 50 mila abitanti appartenenti ad almeno 25 gruppi etnici: Pripjat’ non era un villaggio Potëmkin costruito a soli fini di propaganda ma una vera città, moderna, multiculturale e con un grande potenziale scientifico.
Nel 1977 entrò in servizio il primo reattore della centrale, che da allora sarebbe sempre stata in continuo ampliamento (un secondo reattore l’anno successivo, poi un terzo, un quarto: ne erano previsti sei), ma per garantire un lavoro a tutta questa gente furono impiantati anche quattro stabilimenti tradizionali, tra i quali la famosa fabbrica di radio “Jupiter”. A spostarsi in cerca di futuro erano soprattutto i giovani e questo faceva di Pripjat’ una città di giovani: l’età media della popolazione era intorno ai 26 anni e quasi per un terzo era costituita da bambini, per i quali erano disponibili numerosi asili e scuole;[24] un istituto professionale ed una scuola di musica. Nuovi progetti sarebbero stati realizzati nella Babele atomica in continua crescita: una nuova stazione ferroviaria, nuove scuole e cliniche, negozi e grandi magazzini, il palazzo dei Pionieri[25] e quello delle arti, un nuovo hotel chiamato “Ottobre” (Октябрь) ed una torre della televisione alta 52 metri, tipico simbolo tecno–fallico delle città sovietiche.
Pripjat’ non era un villaggio Potëmkin costruito a soli fini di propaganda ma una vera città, moderna, multiculturale e con un grande potenziale scientifico.
«Non era un incendio come gli altri, piuttosto una strana iridescenza» ricorda Nadežda Petrovna Vygovskaya, che abitava all’ottavo piano di uno degli edifici a torre e vedeva la scena da casa sua. [27] Sopra la centrale l’aria era infatti luminescente per l’effetto Čerenkov. Alcuni, svegliati dai boati delle esplosioni, salirono sui tetti degli edifici a vedere quell’insolito spettacolo dell’aurora boreale atomica; altri si recarono sul ponte sopra la ferrovia per avere un posto in prima fila come se stessero assistendo ad uno spettacolo pirotecnico, non sapendo di esporsi così a dosi letali di radiazioni. I pescatori che avevano passato la notte lungo il fiume tornarono inspiegabilmente abbronzati.
Il giorno dopo
Un filmato del cineamatore Michail Nazarenko testimonia quelle ore drammatiche: alcuni automezzi lavavano le strade con un liquido bianco, nel giro di poche ore intere autocolonne di mezzi militari iniziarono a convergere sulla città. C’erano anche i carri armati, come se ci si stesse preparando a fronteggiare un’invasione. Paradossalmente, in tempi di guerra fredda, nelle scuole ci si addestrava ad un eventuale attacco americano mentre l’ipotesi di un guasto alla centrale che si trovava a soli quattro chilometri sembra non fosse nemmeno stato preso in considerazione. Questo “fuoco amico” spiazzò le autorità che, nel dubbio sul da farsi, fecero finta di nulla. Così passò un’altra notte normale, con quel bagliore sinistro e gli alberi della pineta che erano diventati rosso mattone, quasi luminescenti (la famosa “foresta rossa”). Il giorno dopo, domenica 27, i primi pompieri di Pripyat’ che erano intervenuti per spegnere l’incendio iniziavano a morire e molte persone erano già ricoverate in condizioni drammatiche. Finalmente la commissione federale d’inchiesta, giunta da Mosca la sera prima, decise per l’evacuazione.
Potete dire quello che volete del regime sovietico […] ma dovete ammettere che quando si mettevano in testa di evacuare un posto, sapevano davvero come fare.[28]Andrew Blackwell, giornalista e scrittore
Cinquantamila persone che all’improvviso avevano perso tutto, la propria casa, gli amici, le abitudini, i luoghi dei propri ricordi: una comunità cancellata per sempre. Molti di loro avrebbero avuto gravi ripercussioni sulla salute, o perlomeno l’angoscia del dubbio li avrebbe accompagnati per generazioni. Entro metà agosto sarebbero stati evacuati altri 188 villaggi tra Bielorussia ed Ucraina, alcuni dei quali rasi al suolo e interrati, per un totale di circa 116 mila persone (poco meno degli abitanti di Bergamo[29]) che sarebbero diventate 220 mila nei mesi successivi.[30] Intanto, migliaia di “liquidatori” civili e militari arrivavano da tutta l’Unione Sovietica nel disperato tentativo di mettere in sicurezza il reattore e limitare la contaminazione. Le storie drammatiche dei sopravvissuti sono state raccolte dalla scrittrice Svetlana Aleksievič nel suo famoso, straziante libro Preghiera per Černobyl’. Nonostante la politica della Glasnost’ (trasparenza[31]) proclamata un mese prima dal nuovo segretario generale Gorbačëv, solo martedì 29 (ovvero 4 giorni dopo) l’agenzia di stampa del Cremlino annunciò in modo telegrafico che a Černobyl’ c’era stato un non meglio precisato “incidente”. Il resto è storia contemporanea.
con pozioni infernali funestammo questi monti e queste valli
assai più della peste Faust, W. Goethe (1808)
Questa seconda nube atomica fatta di televisori, passeggini, termosifoni e tavolette del cesso (sic) costrinse le autorità a prendere seri, ma sempre tardivi, provvedimenti per arginare il fenomeno. Ora l’area è recintata e sorvegliata da checkpoint militari; una apposita agenzia governativa e un corpo di polizia sono stati istituiti per il controllo della “zona di esclusione”. L’accesso è consentito solo al personale autorizzato per la rilevazione periodica delle radiazioni e alle visite guidate per piccoli gruppi di turisti dell’estremo, affascinati dalla fatalità dell’apocalisse tecnologica di questa Pompei dell’era atomica, dove con un po’ di fantasia si può immaginare la vita degli anni ’80 nella più ambita delle città sovietiche. Sembra tanto tempo fa, ma noi qui guardavamo Magnum P.I. e Hazzard mentre nel palazzo della cultura di Pripjat’ si celebrava il mito del trionfo socialista. Subito dopo il disastro fu costruita una nuova città 50 km più a est, Slavutyč, per accogliere gli evacuati della zona di esclusione: come Pripjat’, fu intitolata al fiume più vicino, il Dnepr, di cui Slavutyč era l’antico nome slavo.
Oggi Pripjat’ è una città fantasma post–apocalittica. I battelli giacciono semiaffondati nel porto, tra le architetture moderne ed omogenee da città pianificata regna un silenzio spettrale. Per le strade deserte la vegetazione spontanea ha preso a crescere rigogliosa, attraverso le crepe dell’asfalto, non più disturbata dalla presenza dell’uomo. Si stima che ci vorranno cinque, forse sei secoli prima che i livelli di radioattività tornino alla normalità, almeno in superficie. Intanto, la zona di esclusione è diventata un’oasi di tranquillità per la fauna della Polessia: lupi, cinghiali selvatici, caprioli, cervi, alci e castori hanno ripreso a proliferare indisturbati. Non si può dire che sia “incontaminata”, ma è pur sempre natura. ∎
Note
- [1]In ucraino Прип’ять (Pryp’jat’), in russo Припять, (Pripjat’); spesso scritto “Pripyat” dalla traslitterazione anglosassone. In questo articolo si userà la traslitterazione dall’ucraino, Pryp’jat’, per il fiume e dal russo, Pripjat’, per la città (essendo nome ufficiale).↩
- [2]Secondo Russisches etymologisches Wörterbuch, 1950-58 del linguista tedesco Max Vasmer (1886 – 1962).↩
- [3]Room, Adrian. Placenames of the World: Origins and Meanings of the Names… Jefferson, NC: McFarland, 1997.↩
- [4]Cataluccio, pag. 12 (op. cit.)↩
- [5]Andresen, Julie Tetel, and Phillip M. Carter. Languages in the World: How History, Culture, and Politics Shape Language. John Wiley & Sons, 2015. Pag. 210↩
- [6]“Pripyat River Explained” Everything Explained.↩
- [7]Cfr: Beretta, C., E.Anati, L. L. Cavalli-Sforza e C. R. Guglielmino. I Nomi Dei Fiumi, Dei Monti, Dei Siti: Strutture Linguistiche Preistoriche. Capo Di Ponte: Centro Camuno Di Studi Preistorici, 2007. Pag. 50↩
- [8]cfr. Borzyskowski, Andrzej “The Slavic Ethnogenesis: Identifying the Slavic Stock and Origins of the Slavs” andrzejb.net, 2003. Web, 26-01-2015.↩
- [9]Nuova Antologia Di Scienze, Lettere Ed Arti. Vol. 94. Roma: Direzione Della Nuova Antologia, 1887. Pag. 231.↩
- [10]L’estensione va dagli 80.000 km² c.a, secondo Treccani (cfr. “Polesia“), fino a 270.000 km² secondo Encyclopædia Britannica (cfr. “Pripet Marshes“).↩
- [11]Guerra sovietico–polacca, 1919–1921.↩
- [12]L’ala militare dei nazionalisti Ucraini, guidata dal generale antisemita Roman Shukhevich, cfr. Cataluccio pag. 87 (op. cit.)↩
- [13]Così era chiamata l’Ucraina all’epoca dell’Impero Russo.↩
- [14]Daily Express, n°6198, 23 febbraio 1920.↩
- [15]detta anche ChAES, ovvero “Čornobyl’skaja Atomnaya Elektronstancija“.↩
- [16]L’assenzio (Artemisia absinthium) e l’artemisia comune (Artemisia vulgaris) appartengono allo stesso genere, Artemisia.↩
- [17]Ora distretto (raion) di Ivankiv.↩
- [18]Nică, pag. 30 (op. cit.)↩
- [19]Le cosiddette ZATO, Zakrytye Administrativno–Territorial’nye obrazovanija, “Formazioni amministrativo-territoriali chiuse”.↩
- [20]Il cosiddetto chruščёvka (хрущёвка in russo) o “tipo Chruščёv”, era un modello architettonico a basso costo sviluppato durante gli anni ’60 durante il governo di Nikita Chruščëv (da cui il nome).↩
- [21]Forse dal nome della “città chiusa” di Lesnoj, ex “Sverdlovsk-45”, dove si assemblavano le testate nucleari; oppure perché un nome molto comune: in Russia esistono oltre 130 insediamenti così chiamati (cfr.).↩
- [22]Erano chiamati “Racketa” (Ракета) tutti gli aliscafi fluviali, dal nome del primo modello degli anni ’50. Un po’ come gli italiani continuano a chiamare “littorina” tutte le automotrici ferroviarie (cfr. Abrams, “Streamlined Soviet Passenger Hydrofoils“, Dark Roasted Blend. Web.↩
- [23]Nică, pag. 32 (op. cit.)↩
- [24]Almeno 22 asili, 15 scuole primarie e 5 secondarie.↩
- [25]Come il palazzo della Cultura, ma destinato a bambini e ragazzi.↩
- [26]Ribella, pag. 36 (op. cit.)↩
- [27]Cataluccio, pag. 96 (op. cit.)↩
- [28]Blackwell, Andrew Benvenuti a Chernobyl e altre avventure nei luoghi più inquinati del mondo (Laterza, 2013).↩
- [29]121 mila abitanti, ISTAT 2014.↩
- [30]Annex J: Exposures and effects of the Chernobyl accident (PDF), UNSCEAR, 2000. P. 453, sez. 2.↩
- [31]Letteralmente “pubblicità” nel senso di “dominio pubblico”.↩
Bibliografia e fonti
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