langhe Barolo

Ogni tanto qualcuno mi chiede: c’è un vincitore in questa storia?Joe Bastianich
Nel ricco panorama dell’enologia italiana il vitigno nebbiolo è tra i più celebrati e amati. Anche se presente in Valle d’Aosta e in Valtellina,[1] il nebbiolo ha la sua dimora preferita in Piemonte fin dai tempi della conquista romana. Un documento recuperato dall’Associazione Meridiana di Rivoli (TO) ne attesta la vinificazione nel 1266: «De exitu vinearum de Nibiol hoc anno 1266 CCC sextarii» ossia la produzione dei vini di Nebbiolo quest’anno, 1266, è di 300 sestari.[2] Dopo le colline di Rivoli il Nebbiolo ha lasciato tracce storiche nel Monferrato, come risulta dal  Ruralium Commodorum Libri Duodecim di Pietro de’ Crescenzi del 1330. Le prime glorie per il nebbiolo arrivarono sul finire del Quattrocento grazie al giurista, nonché cancelliere dell’imperatore Carlo V e successivamente cardinale della Chiesa cattolica, Mercurio Arborio di Gattinara che portò fama europea al vino dell’Alto Piemonte prodotto a base di nebbiolo.
Tre secoli dopo il nebbiolo si legò per la prima volta a un nome destinato a lasciare il segno: nel 1751 infatti dei diplomatici piemontesi spedirono a Londra una partita di vino chiamata Barol, ottenendo un grande successo; nel 1797 Thomas Jefferson durante il suo soggiorno all’Hotel d’Angleterre a Torino l’assaggiò e lo definì «Quasi amabile come il morbido Madeira, secco al palato come il Bordeaux e vivace come lo Champagne». Un Barolo frizzante, non proprio quello che oggi noi conosciamo. La nascita del Barolo moderno si può attribuire a Juliette Colbert de Maulevrier, vedova del marchese di Barolo Carlo Tancredi Falletti e pronipote del noto ministro delle finanze di Luigi XIV,[3] e al rinomato enologo francese Louis Oudart. Oudart applicò le tecniche  acquisite dei grandi vini francesi ai vini prodotti dalla marchesa. La cosa destò la curiosità del re Carlo Alberto di Savoia e leggenda vuole che Juliette gli inviò 325 botti di Barolo, una per ogni giorno dell’anno eccetto per i quaranta giorni di quaresima, in modo che il vino non mancasse mai alla tavola del re: il Barolo era così diventato vinum regum, rex vinorum.[4]
Juliette Colbert marchesa di Barolo

Juliette Colbert (1785-1864), marchesa di Barolo (dal libro M. de Melun, La Marquise de Barol, sa vie et ses oeuvres, 1869).


Carlo Alberto di Savoia, colpito dal Barolo, acquistò terreni a Verduno e Pollenzo affidandole al generale Francesco Staglieno, enologo appassionato dei vini francesi. Sempre a proposito dei Savoia, Emanuele conte di Mirafiori[5] ottenne le proprietà dei cento ettari di Fontanafredda a Serralunga d’Alba che dedicò alla viticoltura. Infine un altro nobile piemontese contribuì al successo del Barolo: Camillo Benso conte di Cavour. Diventato sindaco di Grinzane, Cavour ingaggiò Oudart per la cura del suo vigneto dando vita allo stile secco del Barolo diverso da quello abboccato del generale Staglieno. Nel 1864 Juliette Colbert morì lasciando il patrimonio in eredità all’Opera pia di Barolo: i terreni furono pian piano ceduti a fattori e la proprietà venne frammentata, ancor oggi caratteristica delle Langhe. Sul finire del secolo Giuseppe Cappellano, farmacista e proprietario di una cantina, aggiunse delle spezie al Barolo creando così il Barolo Chinato, un vino aromatizzato, che indicava come rimedio per il raffreddore e la cattiva digestione.

barolo chinato 1907

1907, pubblicità del barolo chinato Fernet Branca sul quotidiano La Stampa (del  24/03/1907).

Nel 1910 Giovan Battista Burlotto acquistò la proprietà dei Savoia a Verduno e il suo vino diventò celebre anche oltre confine. Nel mezzo ci fu la fillossera,[6] che falcidiò i vigneti di tutto il continente, e successivamente le due guerre mondiali. Nel secondo dopoguerra l’industrializzazione portò a un netto calo del consumo e della produzione di vino, finché Renato Ratti negli anni ’60 diede nuova linfa e lustro al Barolo, contribuendo anche alla classificazione delle vigne e al legame enogastronomico col territorio. Il contesto produttivo però non era dei migliori: nelle Langhe era ancora molto diffusa la mezzadria,[7] le vigne erano coltivate ricorrendo ai buoi perché in pochi potevano permettersi un trattore, le cantine potevano essere usate anche come stalla, il vino era venduto sfuso nelle damigiane e solo il barolo veniva imbottigliato.

famiglia mezzadrile impegnata nella raccolta del'uva

Piemonte, famiglia mezzadrile impegnata nella raccolta del’uva (Museo dell’Agricoltura di Torino).

L’intera Italia del vino inoltre doveva ancora imbattersi nel suo più grande scandalo: il vino al metanolo, che nel marzo del 1986 uccise ventidue persone e ne ferì gravemente altre decine. Per molti produttori fu la scossa: bisognava rilanciare il vino di qualità, facendo capire ai consumatori che sotto certi prezzi non può essere vero vino. Fu questa l’occasione per Elio Altare, insieme ad altri giovani produttori delle Langhe, di salire agli onori del panorama enologico e di dare vita alla più famosa delle battaglie ideologiche del vino italiano: la “battaglia del Barolo”.
controlli carabinieri vino al metanolo, 1968

1986: i Carabinieri cercano tra gli scaffali dei supermercati le bottiglie delle aziende sotto inchiesta.


Elio Altare è cresciuto con l’idea del Barolo come lo produceva suo padre: un vino imbottigliato con ancora un tannino [8] molto forte e aspro e che impiegava anni ad addolcirsi. Sfiduciato dalla dura viticoltura nelle Langhe che all’epoca garantiva a malapena la sopravvivenza, scoprì sui libri la Borgogna, la regione francese famosa insieme a Bourdeaux per i suoi vini rossi, e il metodo di produzione che faceva ampio uso delle barrique, ovvero delle piccoli botti dalla capacità di circa 225 litri.[9] Nel 1976 Altare partì con la sua Fiat 500 alla volta della Borgogna e si imbatté per caso nella cantina di Renè Engel, lo stesso produttore che a Luigi Veronelli disse «Voi [italiani] avete uve d’oro e fate vini d’argento; noi uve d’argento e vini d’oro». Altare, che era arrivato con pochi soldi e dormiva in macchina, non poté non notare la Porsche parcheggiata: bussò e trovo Philippe Engel che, con due valigie in mano, gli spiegò che non poteva accoglierlo e fargli assaggiare i vini perché era diretto in Costa Azzurra a trascorrere il weekend sulla sua barca. Quella palese differenza tra la dura vita nelle Langhe e il benessere della Borgogna portò Altare a una riflessione sul Barolo e ne trasse la conclusione che era mal interpretato: nel 1983 iniziò a produrlo affinandolo in barrique. La barrique affina più velocemente il vino rispetto alle grandi botti,  nel caso del Barolo le grandi botti tradizionali hanno una capacità minimo di 2 000 litri, in quanto è maggiore il rapporto litri/superficie sia per quanto riguarda il contatto con l’ossigeno attraverso il legno sia per la quantità di tannini, più morbidi di quelli del vino, che il legno cede. Lo scontro con il padre fu violentissimo: Elio ricorse a una motosega per distruggere la decina di grandi botti che per suo padre erano un patrimonio da custodire. Il padre lo considerò pazzo e andò dal notaio per diseredarlo; morì due anni dopo. Era l’inizio di uno scontro tra idee di Barolo opposte destinato ad andare oltre quello tra padre e figlio. Insieme a Elio Altare si ritrovarono altri giovani produttori della Langhe (tra cui Chiara Boschis, Giorgio Rivetti, Enrico Scavino e Roberto Voerzio) volenterosi di battere nuove strade e con l’ambizione di puntare al vino di grande qualità: erano i “Barolo Boys”.[10] I Barolo Boys tentavano esperimenti e condividevano i loro risultati facendo in modo di crescere insieme e più rapidamente; questa collaborazione unita all’intraprendenza di Marco De Grazia li catapultò alla ribalta del mondo del vino in Italia e negli Stati Uniti. I Barolo Boys erano sulla cresta dell’onda ma il loro successo generò sentimenti contrastanti: se da una parte crescevano in fama e premi, e qualcuno scomodava addirittura il termine “rivoluzione”, dal’altra si accendeva la polemica con i tradizionalisti che li accusavano di stravolgere l’identità del vino e il suo legame col territorio. Alcuni ridimensionavano la “rivoluzione”, obiettando che in realtà avevano solo seguito le orme di altri “grandi” tra cui Angelo Gaja e il suo Barbaresco. Uno scontro ideologico che ad anni di distanza non si è ancora spento. Con la pubblicazione del documentario Barolo Boys – Storia di una rivoluzione di Paolo Casalis e Tiziano Gaia (2014) si è riacceso infatti il dibattito nel settore, tra chi celebra la novità che fu portata dal gruppo di Elio Altare, e chi rimarca che la loro sfida alla tradizione è stata solo una moda passeggera che è scivolata via, con molti di quei protagonisti che si sono ricreduti tornando sulla retta via della produzione tradizionale.

barriques in Borgogna

Barriques in Borgogna (foto di Laure Gregoire da Pixabay).

Le grandi botti di Barolo, con la loro capacità tra i 2 000 e i 10 000 litri, oppure le barrique  o anche le botti tonneaux (da 500 litri); macerazioni[11] corte o lunghe; la follatura[12] manuale o meccanizzata: oggi oltre a tradizionalisti e innovatori, diversi produttori hanno scelto una via “ibrida” tra le due correnti, in cui sono stati fusi a discrezione del produttore diversi aspetti dei due modi di produrre il Barolo.

annate storiche di vino barolo

Annate storiche di vino Barolo presso l’Enoteca Regionale del Barolo (A. Vecchi / Commons / CC-BY-SA 3.0).

C’è un vincitore in questa storia? Forse no, forse questa non è una storia di vincitori e vinti ma, più semplicemente, di arricchimento del panorama enologico italiano. Di sicuro questa storia ha contribuito a rendere la zona delle Langhe famosa a livello globale. Dal 2014 le Langhe sono state riconosciute come patrimonio mondiale da parte dell’UNESCO,[13] e ciò che più conta è preservarle affinché questo patrimonio non vada perduto. Su quale bottiglia degustare scelga il lettore come meglio crede e in base al proprio personale gusto. Da parte nostra quel che possiamo augurarci è che il Barolo, come anche tutti gli altri vini italiani, non smetta mai di puntare in alto. Prosit!

Note

  1. [1]La Valtellina è una zona alpina della Lombardia.
  2. [2]Antica unità di misura, un sestario italico è pari a circa mezzo litro.
  3. [3]Fu anche mecenate e protettrice di Silvio Pellico.
  4. [4]“Vino del re, re dei vini”.
  5. [5]Era figlio morganatico di Vittorio Emanuele II e Rosa Vercellana e non aveva alcun diritto sui titoli e proprietà della casata dei Savoia.
  6. [6]Genere d’Insetti appartenenti ai Rincoti omotteri,  la fillossera della vite è nota come Phylloxera vastatrix.
  7. [7]L’istituto giuridico della mezzadria è gradualmente scomparso a partire dal 1964, quando la Legge 756 del 15/9/1964 vietò la stipula di nuovi contratti, fino al 1982, quando la Legge 203 del 3/5/1982 previde la conversione dei contratti ancora esistenti in contratti d’affitto a coltivatore diretto, dietro richiesta di anche solo una delle parti.
  8. [8]I tannini del vino sono polifenoli che determinano nella bocca la sensazione di ruvido, come quella per esempio di un frutto acerbo.
  9. [9]La barrique bordolese contiene 225 litri pari a 300 bottiglie di vino, in Borgogna usano maggiormente barrique da 228 litri.
  10. [10]Il termine Barolo Boys nascerà anni dopo, ad opera di un cliente durante un tour negli Stati Uniti.
  11. [11]La macerazione in enologia è la fase della vinificazione in cui il mosto resta a contatto con le vinacce per estrarre da esse sostanze come colore e tannini.
  12. [12]La follatura è la procedura con cui durante la fermentazione del mosto si rompe il “cappello” formato dalle vinacce in cima al contenitore, in modo da arieggiare il mosto e favorire la fermentazione alcolica. Cfr. “follatura” in Vocabolario, Treccani. Web.
  13. [13]Per la descrizione all’interno dell’elenco World Heritage si può visitare il seguente link .

Bibliografia e fonti

Foto in alto: edo lilli da Pixabay

fungo cinese

Qualcuno mi ha telefonato. Una persona che conoscevo molto tempo fa. In un altro posto. Allora accadde una cosa. Io feci una promessa. Tutti promettemmo che saremmo tornati se quella cosa fosse ricominciata. E mi sa che ci siamo.It, Stephen King
Vicenza, marzo 1993. Una donna riceve da un’amica un barattolo contenente una informe medusa che galleggia in un liquido torbido, insieme alla fotocopia di un testo dattiloscritto. Guarda il foglio, poi guarda di nuovo il barattolo: «Proprio come quarant’anni fa — pensa — mi sa che ci siamo.» Il fungo cinese era tornato.

Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo tornare in un passato lontano, nell’estate del 1954. Era l’anno di Tutte le mamme[1] a Sanremo, del governo Scelba, delle prime pubblicità di elettrodomestici; l’Italia stava uscendo dagli anni bui del dopoguerra per avviarsi verso il miracolo economico, un periodo di crescita e benessere senza precedenti nella storia recente. Il 3 gennaio erano iniziate le prime trasmissioni televisive RAI, rigorosamente in bianco e nero e su un’unico canale, mentre i primi costosissimi televisori iniziavano a troneggiare nei bar, nelle osterie, nei cinematografi e nei salotti dei pochi che se lo potevano permettere.



Pubblicità elettrodomestici FIAT del 1954

Pubblicità elettrodomestici FIAT (1954).

Al cinema per vedere

Italiani al cinema per vedere Lascia o Raddoppia su un televisore (1959).



Quell’anno si vendettero 170 mila apparecchi televisivi, ma non fu solo il “focolare elettronico” a entrare nelle case degli italiani: ben più rapida e capillare fu l’invasione del misterioso “fungo cinese”. Si presentava come una mite creatura tentacolare che viveva in grandi vasi di vetro sui mobili della cucina o del tinello, galleggiando in una infusione di tè zuccherato e mesmerizzando i padroni di casa affinché rimpinguassero il liquido quotidianamente. In cambio di tanta premura, il “fungo” o qualunque cosa fosse, avrebbe rilasciato chissà quali sostanze benefiche nella bevanda, che gli adepti consumavano ogni giorno con soddisfazione convinti delle sue virtù taumaturgiche. Quali fossero di preciso queste virtù non era chiaro a nessuno, dato che la maggior parte dei sostenitori si limitava a sostenere che «fa bene», ma al torbido beverone venivano attribuite varie proprietà che andavano dagli effetti ricostituente e dimagrante, ai benefici nella sfera sessuale per lui e per lei, alla cura di ogni malanno, che fosse influenza stagionale, eczemi, problemi intestinali, di fegato, di milza, artrite, cirrosi epatica, arteriosclerosi o cancro. Addirittura qualcuno riteneva fosse una valida alternativa al vaccino contro la polio[2] o gli attribuiva poteri magici tali da creare armonia e distensione nell’ambiente domestico.[3]

Milano, piazza S

Milano nel 1954: forse il fenomeno del “fungo cinese” iniziò qui.

Nessuno sapeva esattamente da dove venisse: la moda esplose a Milano nell’estate del ’54,[4] ma si diceva che fosse arrivato dal Perù attraverso la Spagna,[5] o forse dal Brasile,[6] forse portato nel capoluogo lombardo da una signora torinese «reduce dal Sud–America, che vuole serbare l’incognito».[4] È possibile che arrivasse dall’estremo oriente,[7] dalla Germania così come dagli orti piemontesi,[8] ma è probabile che l’aggettivo “cinese”, più che ad indicarne l’origine, stesse ad evocare un’antica saggezza e un luogo esotico e misterioso, non ancora associato ai prodotti a basso costo che avrebbero invaso il mercato solo molti anni più tardi: «lo chiamano cinese per quell’alone magico che lo circonda», scrive La Stampa.[9]

La Stampa, 5 dicembre 1954.

Ad alimentare l’alone di mistero, il fungo non si trovava nei negozi. Si poteva solo ricevere in regalo da chi già lo possedeva e decideva di condividerlo secondo un rituale ben preciso: solitamente la massa, simile alla “madre” dell’aceto ma di colore grigio-marroncino — racconta il cantautore Francesco Guccini[10] — oppure a una “medusa” secondo altri,[5] veniva divisa in quattro parti o “figli”, una delle quali trattenuta dal donatore e le altre tre donate alle persone care. Insieme al fungo si passavano le istruzioni e le raccomandazioni, a voce o su un foglio solitamente ricopiato a mano o al massimo ciclostilato (le fotocopiatrici non erano ancora di uso comune[11]) con un meccanismo simile alla catena di S. Antonio o alla “torta dell’amicizia”. Quest’ultima infatti, nota anche come “torta di Padre Pio” sebbene nulla avesse a che vedere con il santo di Pietrelcina, è un dolce la cui preparazione prevede la condivisione dell’impasto con tre amici che lo utilizzeranno come ingrediente per fare a loro volta un’altra torta: si tratta in realtà della declinazione italica di una tradizione nordeuropea nota come “Herman the German” o semplicemente “Herman cake” o “friendship cake”, che a sua volta trae probabilmente origine da una tradizione Hamish.

…il « fungo cinese» segna ormai un’epoca, come lo hula-hop e gli abiti a palloncino.[12]Luca Goldoni

L’iniziale difficoltà di reperimento scatenò la “caccia al fungo” da parte degli italiani di ogni ceto, alla ricerca di qualcuno disposto a cederne un quarto. E non si poteva nemmeno comprare, perché scambiarlo per vile denaro avrebbe determinato il decadimento di ogni proprietà benefica. Ma il genio italico, specialista nell’arte di «gabbare il santo», trovò anche il modo di aggirare la superstizione per lucrare su una cosa che non si poteva vendere. Alcuni droghieri ad esempio lo regalavano ai clienti per aumentare lo smercio di tè e zucchero, necessari ad alimentare la coltura.[5] Siccome poi il fungo poteva essere essiccato e riportato in vita semplicemente reimmergendolo nel tè zuccherato, poteva essere tranquillamente chiuso in una busta e spedito per posta. Comparvero quindi annunci di disinteressati Dulcamara[13] disposti a cederlo gratuitamente per corrispondenza a chi ne facesse richiesta, al solo costo delle spese di spedizione: queste includevano ovviamente anche il prezzo del “disturbo”, ma in questo modo la gratuità era apparentemente immacolata e con essa le proprietà miracolose del fungo.

copertina de L'Europeo, dicembre 1954

L’attrice Mara Lane assaggia il fungo cinese, sulla copertina de L’Europeo del 5 dicembre 1954.

Domenica del Corriere, 19 dicembre 1954

Copertina della Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954.



«Chi beve l’infuso beve lieviti, fermenti e batteri vivi, vitamine» si legge sulla Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954, che al fungo cinese dedicò la famosa copertina illustrata da Walter Molino. L’orrendo inquilino divenne oggetto di conversazione quotidiana. Ci si scambiavano consigli per farlo crescere meglio e la domanda «come sta il fungo?»[4] divenne un comune convenevole. Il fenomeno fu talmente vasto e repentino che ne parlarono stampa e televisione: la febbre fu trasversale, conquistò dai proletari agli aristocratici, dalle casalinghe al jet set. A Milano lo chiamavano affettuosamente “fun-cin”; la copertina de L’Europeo del 5 dicembre 1954 mostrava una foto della ventiquattrenne attrice austro-britannica Mara Lane[14] mentre «assaggia il fungo cinese» che — conclude l’inchiesta condotta dalla rivista — «fa bene in molti casi». «Ha il sapore dei più fini champagne francesi», affermava il regista Luchino Visconti: gliel’aveva regalato Camilla Cederna, scrittrice e giornalista, e anche il maestro Arturo Toscanini gliene chiese un pezzo: «Non posso aspettare troppo, devo far di tutto per star bene», le disse alludendo alla Piccola Scala di Milano che avrebbe inaugurato in primavera col Fallstaff.[15] E per restare in tema di teatro Carlo Maria Pensa, giornalista e drammaturgo, ricordava di averlo ricevuto a Milano dal commediografo Cesare Giulio Viola, insieme ad una dedica scritta sopra un biglietto da una lira.[16]

Il fattore di maggior efficacia nella cura con the del fungo miracoloso è la suggestione, la quale può operare quei miracoli che invano chiederemmo a medicamenti ben più efficaci di questo cattivo aceto. La Provincia di Cremona, 17 ottobre 1954

Non mancavano certo gli scettici, ma gli entusiasti erano decisamente la maggioranza[8][6] e anche molti esperti diedero il beneplacito: in fondo, male non fa o perlomeno «è certo che non uccide».[4] A dire il vero, però, almeno una morte causata dal fungo (forse) ci fu. Secondo quanto riporta il Corriere dell’Informazione il 22-23 gennaio 1955, la vittima aveva mangiato «chi dice crude, chi dice cotte a bagno-maria cinque di quelle muffe grigiastre e sfrangiate, quando avevano già raggiunto proporzioni considerevoli».[7] La voce non fu tuttavia sufficiente a scoraggiare i fedeli: d’altronde, mangiando il fungo — forse per non doverlo più vedere — l’eretico aveva infranto il protocollo rituale. La colpa era quindi sua, non certo del fungo.

La setta dei funghisti

Nel mistero esotico del fungo fece capolino la superstizione e il fenomeno assunse un inquietante carattere fideistico, quasi fanatico: i sostenitori più convinti, ironicamente soprannominati “funghisti”[4] si spendevano in proseliti in favore della disgustosa bevanda, vantandone i benefici e citando miracolosi quanto improbabili risultati ottenuti dai conoscenti. Qualcuno si inventò addirittura un fantomatico principio attivo, la “teomicina”,[17] ambigua parola che ricorda il nome di un antibiotico (la neomicina, scoperta proprio pochi anni prima), ma che al contempo si ispira al greco e vorrebbe significare “fungo di Dio” (da theós, divinità, e mikos, fungo).



La leggenda urbana si diffondeva e il meccanismo del passaparola arricchiva via via di nuovi dettagli le raccomandazioni per il suo mantenimento, fino a farne complesse regole rituali. Si beveva la mattina a digiuno, andava regalato rigorosamente di martedì[18] e né le donne durante il periodo mestruale, né gli “scettici” avrebbero dovuto maneggiarlo, altrimenti il permaloso fungo avrebbe incrociato le braccia (o i tentacoli?) e smesso di spandere i propri benefici influssi, forse sarebbe addirittura morto. E se non si ottenevano gli effetti sperati, naturalmente la colpa non era del sacro fungo, ma del paziente — o meglio, adepto — che era stato superficiale nell’osservare alla lettera il protocollo affidatogli. Nacquero anche sinistre leggende sulle pesanti maledizioni ricadute sugli apostati che avevano distrutto la creatura o i suoi figlioletti: il fungo, da fenomeno di costume quale era, si rivestiva via via degli elementi esoterici propri di un culto magico-superstizioso.

D’altronde, negli anni ’50 l’Italia era ancora un paese legato all’agricoltura, che assorbiva il 41% della popolazione attiva,[6] e la cui memoria collettiva era ancora legata a riti scaramantici e rimedi “della nonna”. La superstizione era un sentimento ancora ben radicato anche tra i “trapiantati” in città e il desiderio umano di sentirsi parte di un gruppo — che fosse quello dei tifosi di una squadra di calcio o dei bevitori di mucillagine poco importa — fece il resto. Non fu infatti il primo «toccasana di lunga vita» del dopoguerra: qualche anno prima fu la “maglia bulgara” (storpiatura del francese maya bulgare), uno yogurt del quale si vantavano le proprietà terapeutiche; poi nel 1952 c’era stato il boom del lievito di birra e nel 1953 l’attenzione degli italiani era per certe “uova trifoniche” che non ci è dato sapere cosa fossero esattamente ma che di fatto erano uova marce.[4] Ma nessuno di questi rimedi raggiunse la popolarità del fungo cinese.

il yoghourt – latte coagulato blugaro preparato con la

Opuscolo della prima metà ‘900 sulla “maya bulgara”, uno yogurt.




Il crepuscolo dei miceti

Il “sacro blob” aveva però due nemici: la matematica, come tutte le catene a progressione geometrica, e la volubilità del popolo italiano. La velocità alla quale si rigenerava obbligava ben presto il possessore a trovare nuovi malcapitati cui rifilarlo. Il fungo si diffondeva quindi rapidamente nei tinelli, anche perché riceverlo equivaleva ad essere tra le “persone care” del donatore e rifiutare la particola era considerato quantomeno inopportuno. Questo portò ben presto all’esubero, come rilevò La Stampa già il 29 dicembre del 1954:[9]

In principio, un anno fa, era molto ricercato: c’era gente disposta a spendere somme non piccole per averlo. Poi, per la sua rapidità nel riprodursi, fu regalato a parenti e amici. Ora, fin dall’autunno scorso, e specialmente a Natale, si pregano i conoscenti di accettarlo in omaggio, perché il mercato ne è saturo.

Del resto i conti sono presto fatti: se si regalano tre parti (ricordiamoci che la quarta resta al “donatore”), e ognuna di esse ne produrrà altre tre nell’arco di — ipotizziamo — un mese,[19] nel giro di 12 mesi i tinelli presidiati saranno 312, ossia oltre 530 mila partendo da un singolo vaso. Ancora un mese a saranno un milione e mezzo; altri due mesi e si supererà di una volta e mezza il numero delle case esistenti in Italia che, secondo l’ISTAT, nel 1951 erano poco più di dieci milioni.[20]

vasi di kombucha

Hexatekin/CC-BY-SA-4.0

È evidente che, con questi numeri, trovare qualcuno disposto ad accettare altra mucillagine diventava sempre più difficile, finanche impossibile; ma d’altra parte il fungo non si poteva buttare pena gravissime disgrazie su tutta la famiglia e generazioni a venire. Così i vasi e recipienti occupati dall’ingombrante ospite si moltiplicavano su credenze e comò, fino a quando, già con l’anno nuovo, gli italiani iniziarono a scocciarsi di tanto daffare. Non tutti poi, ne erano così entusiasti: molti lo avevano accettato solo per cortesia o perché era la moda del momento e non avevano quindi particolari remore a disfarsene. Così, rapidamente come era sorto, l’amore per il fungo iniziò a scemare e con esso il timore delle maledizioni: in fondo, ad impossibilia nemo tenetur. Rivelandosi pragmatici almeno quanto erano superstiziosi, gli italiani se ne liberarono negli scarichi del wc, oppure gettandolo nell’orto come concime. A parte qualche irriducibile sostenitore, entro gli inizi del 1955 il fungo scomparve dalle case con la stessa rapidità con la quale vi era entrato. Di lui resterà solo l’imbarazzo di una sbornia collettiva e una ironica canzone del napoletano Renato Carosone: Stu Fungo Cinese!

‘Stu fungo cresce, cresce, dinto ‘o vaso / e chianu, chianu fa… ‘nu figlio ‘o mese! Stu Fungo Cinese!, Renato Carosone

Che cos’era, in realtà, «’stu fungo cinese?»

Innanzitutto non era un fungo: si trattava in realtà di uno SCOBY (Symbiotic Colony of Bacteria and Yeast), come la madre dell’aceto o i grani di kefir. Era una coltura di Acetobacterium xylinum (uno schizomicete molto diffuso) in simbiosi con alcuni saccaromiceti, come rilevò già nel 1954 — in piena “febbre” — il professor Carlo Cappelletti, direttore dell’istituto botanico dell’Università di Padova che ne trattò in articolo su Oggi. La consistenza era data dalla cellulosa prodotta dagli stessi batteri e la forma, solitamente circolare, era data dal recipiente nel quale era tenuta.

vaso con kombuca

La composizione variava a seconda del tè e dell’ambiente, la microflora cambiava da coltura a coltura, da contenitore a contenitore; il che rendeva impossibile tracciarne la provenienza o determinarne le proprietà terapeutiche. Infine, contrariamente a quanto ritenuto, non era il tè a nutrire l’essere ma la coltura batterica ad acidificarlo e farlo fermentare trasformandolo in una bevanda probiotica fermentata, potenzialmente benefica per la flora intestinale quanto uno yogurt o un kefir. In pratica era qualcosa di molto simile alla kombucha, una bevanda a base di tè fermentato di cui si ha notizia in Cina, dove era chiamato chájūn, sin dal 250 a.C. L’etimologia del nome kombucha non è certa, ma vi si riconosce la parola cha che significa (dal cantonese chàh) in molte lingue asiatiche, indiane e in portoghese: il resto potrebbe derivare da kombu, nome giapponese di un’alga molto utilizza in cucina e che veniva forse aggiunta all’intruglio. Dalla Cina la kombucha si diffuse in tutto il sud est asiatico e, insieme al tè attraverso le “vie della seta”, anche in India e medio oriente; senza però penetrare l’Europa dove gli ingredienti base (tè e zucchero) erano ancora troppo rari e costosi.

“Coltura e preparazione del tè”, 1847. Da The History of China & India, Pictorial & Descriptive, p. 158..

Tra il XIX e gli inizi del XX secolo si affermò anche in Asia settentrionale ed Europa dell’Est, dove il tè nero era molto popolare e la fermentazione era già nota come metodo di conservazione: già si consumavano alimenti e bevande preparate in questo modo, come i classici crauti o una una bevanda fermentata di pane o cereali, poco alcolica, detta kvas (Квас) o “birra di pane”. Nota come čajnyj grib, “fungo del tè” o teekvas, “kvas di tè”, per analogia con la sopraccitata bevanda, già agli inizi del ‘900 la kombucha divenne di gran moda in Russia come rimedio per svariati malanni quali anoressia, malattie gastrointestinali, mal di gola e ipertensione.


“Vendita di kvas”, dipinto di Kalistov (Kallekstov) Vasily Efimovich, 1862

Furono probabilmente i prigionieri russi catturati dai tedeschi durante la prima guerra mondiale a portare in Germania il teekvas, ma stante la quasi totale mancanza di tè dovettero arrangiarsi con le infusioni di foglie di rovo, infiorescenze di tiglio o quello che si trovava: ottennero così l’Ersatzteekwas, che significa “surrogato del teekvas”. Nonostante la sostituzione, la bevanda non sembrava perdere le mirabolanti proprietà terapeutiche — essendo queste legate alla suggestione più che ad una reale efficacia fitoterapica — e conquistò anche i tedeschi i quali, ritenendo venisse dal Giappone, lo chiamarono “Fungo-Japòn”. Un noto microbiologo, Wilhelm Hennberg, ne scrisse una ricetta di preparazione nel suo trattato Handbuch der Garüngsbakteriologie del 1926, dalla cui traduzione furono tratte proprio le “istruzioni” che avrebbero circolato con il “fungo cinese” negli anni ’50. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, in Europa andò perdendosi l’abitudine di preparare il teekvas ma questo fece in tempo ad arrivare nel nord Italia con le truppe tedesche. Fu una comparsa fugace: con la ritirata del 1945 la coltivazione del teekvas scomparve quasi del tutto insieme a coloro che lo avevano portato. Continuò ad essere coltivato nelle zone rurali,[8] forse da qualcuno che lo aveva ricevuto in dono dai tedeschi[21] e non se ne era sbarazzato, ma la diffusione rimase limitata a qualche vicino di casa.

Villa Italia a Cascais

Villa Italia a Cascais, residenza di re Umberto II in esilio.

Ci voleva ben altro per innescare il fenomeno pop, ci voleva il “bel mondo” con le sue bizzarrie modaiole. Sul caso indagò la giornalista Clara Grifoni de La Stampa, la quale scoprì che il “paziente zero” poteva essere una anonima «contessa torinese» che nel 1947 sarebbe tornata con il fungo da Cascais, in Portogallo, dove si era recata a far visita all’ex re d’Italia Umberto II di Savoia esiliato dopo la nascita della Repubblica Italiana. Non si sa se lo ricevette dalla famiglia reale o da qualcuno del luogo, né se fosse coltivato localmente, arrivato dall’Italia o da chissà dove, ma sembra che là lo chiamassero “fungo peruviano”:[21] da ciò si sparse la voce secondo la quale a portarlo in Italia sarebbe stata una «signora torinese reduce dal Sud-America».[4] La nobildonna fece grande propaganda del micello, introducendolo così negli ambienti aristocratici e borghesi del nord Italia presso i quali avrebbe covato la moda che nel ’54 — raggiunta forse la necessaria “massa critica” — sarebbe poi esplosa diventando nazionalpopolare.

Dal fungo cinese all’alga egiziana

Negli anni successivi il fenomeno svanì ma il fungo non scomparve mai del tutto. Ancora negli anni ’60 alcuni continuavano a coltivarlo in casa; sopravvissero anche le credenze rispetto alle sue proprietà taumaturgiche e, dimenticato il “divieto” di venderlo pena la perdita dei poteri curativi, si poteva anche comprare in erboristeria come medicamento.[22] Ci furono anche sporadiche ricomparse negli anni ’70 e ’80 in forma di “catena di S.Antonio”, ma fu nei primi ’90 che ebbe il suo più importante revival: ricomparve a Vicenza nel 1993 sotto le mentite spoglie di “fungo del kefir”,[23] (in realtà il “kefir” è una bevanda di latte fermentato originaria del Caucaso che nulla vi ha a che vedere); mentre dal gennaio 1994 più estesamente nel nord Italia[24] si fece chiamare “fungo egiziano”,[25] “alga egiziana”[26] o “alga del Nilo”.[24]
copertina L'Europe 15 giugno 1994

«Arriva l’alga dei miracoli» annuncia la copertina de L’Europeo del 15 giugno 1994.


Ancora accompagnato dalle istruzioni (questa volta fotocopiate), prometteva di diffondere imprecisate “energie cosmiche” e addirittura di esaudire tre desideri.[27] Ben presto si diffuse a tutta la penisola e nel ragusano si segnalarono addirittura manifestazioni sincretiche tra religiosità popolare e superstizione,[28] con i fedeli che rubavano l’acqua santa in chiesa per alimentare («in modo blasfemo», commentò il parroco di Scicli) la cosiddetta alga.[24] Nonostante il fenomeno avesse assunto dimensioni consistenti, tali da interessare la stampa scandalistica (guadagnandosi di nuovo, come nel ’54, la copertina de L’Europeo), l’alga rimase un mix di new age e provincialismo ben lontano dalla massiccia popolarità raggiunta nel dopoguerra. E anche questa volta durò poco, risolvendosi nell’arco dello stesso anno con litri di tè fermentato negli scarichi dei wc.

La kombucha

Nel frattempo ebbe invece successo il suo alter–ego, il tè di kombucha che, spogliato di ogni approccio mistico e superstizioso, entrava nel mercato occidentale alla luce del sole. Diffusosi dapprima negli Stati Uniti tra gli anni ’80[29] e ’90[30] come bevanda probiotica, è in seguito sbarcato in Europa e quindi anche in Italia. Oggi è un fenomeno hipster: è possibile consumarlo nei “kombucha bar” specializzati, oppure acquistare lo SCOBY (la coltura) su Amazon, fresco o essiccato, e cimentarsi nella produzione domestica. Non senza rischi: se la colonia è di dubbia provenienza, ad esempio, potrebbe essere contaminata da agenti patogeni che finiranno inevitabilmente nella bevanda.

Tè di kombucha in bottiglia

Tè di kombucha “moderno”.

La scienza riconosce effettivamente alla bevanda alcune proprietà benefiche, in particolare antiossidante, antibatterica e antifungina; proprietà in generale condivise con altri alimenti fermentati come lo yogurt o il kefir. Nessuna panacea o elisir di lunga vita quindi, anche se l’immaginario collettivo continua ad attribuire al tè di kombucha proprietà tipiche dei cosiddetti superfood, ossia cibi e bevande considerati talmente salutari da sconfiggere ogni malattia nonostante l’assenza di evidenze scientifiche in tal senso. In pratica, il fungo cinese è tornato di nuovo: ha solo capito che per avere successo nel XXI secolo bisogna avere un appeal “moderno” e rivestire la magia di pseudoscienza.

Opera tutelata dal plagio su Patamu.com con numero di deposito 113620.

Note

  1. [1]Cantata di Gino Latilla e Giorgio Consolini, fu la canzone vincitrice del Festival di quell’anno.
  2. [2]Luzzi, Saverio. Salute e sanità nell’Italia repubblicana. Roma: Donzelli, 2004. Pag. 46.
  3. [3]occhio malocchio, prezzemolo e finocchio & o’ fungo cinese” in Il Chichingiolo degli Asmarini. Febbraio 2009. Web.
  4. [4]La Stampa, 5 dicembre 1954 (op. cit.)
  5. [5]La Stampa, 20 agosto 1954 (op. cit.)
  6. [6]Schena — Ravera (op. cit.)
  7. [7]Query (op. cit.)
  8. [8]G.F Venè. (op. cit.)
  9. [9]La Stampa, 29 dicembre 1954 (op. cit.)
  10. [10]Guccini (op. cit.)
  11. [11]La prima copiatrice xerografica completamente automatica è del 1959, prodotta dalla Xerox (→xerocopia).
  12. [12]Goldoni, Luca Italia veniale: viaggio fra i peccati nazionali. Oscar Mondadori, 1969. Pag. 23
  13. [13]Il dottore Dulcamara era un ciarlatano che vendeva un «mirabile liquore» in grado di guarire ogni malanno, personaggio dell’opera lirica L’elisir d’amore di Donizzetti (1832).
  14. [14]Mara Lane, vero nome Dorothy Bolton, nata il 1º agosto 1930. Quell’anno recitava la parte di Marilyn nella commedia americana Susanna ha dormito qui (Susan slept here).
  15. [15]Cederna, Camilla Il mio Novecento. BUR/Rizzoli, 2011. pag. 147.
  16. [16]Carlo Maria Pensa in Il Dramma, mensile, anno 34 – nº 266. Pag. 43 PDF
  17. [21]Grifoni in Stampa Sera (op. cit.) Grifoni in Stampa Sera (op. cit.)
  18. [18]Fagnani, pag. 90 (op. cit.)
  19. [19]Prendendo per buona la canzone di Renato Carosone, secondo la quale il fungo produceva « ‘nu figlio ‘o mese».
  20. [20]Censimento generale della popolazione, 1951.
  21. [21]Improbabile che fosse davvero peruviano, visto che la kombucha si è diffusa nelle Americhe solo nella seconda metà del XX secolo.
  22. [22]Mengoni, (op. cit.)
  23. [23]Tutte Storie (op. cit.)
  24. [24]Arona (op.cit.)
  25. [25]Angeletti, Sergio. “Il ‘Fungo Cinese’ Torna Vestito Da Egiziano.” Corriere Della Sera, 17 Apr. 1994, Corriere Scienza.
  26. [26]Folklore Urbano, (op. cit.)
  27. [27]leggende metropolitane” in My Cross of World. Web.
  28. [28]Sui sincretismi tra religione e magia nel sud Italia si vedano Sud e Magia di E. De Martino e Sud Antico di E.Lelli.
  29. [29]In particolare il successo della kombucha in nordamerica fu legata alla paura dell’AIDS, la cui diffusione ha avuto inizio negli anni’80: si sperava infatti che il tè di kombucha potesse supportare il sistema immunitario. Cfr. Encyclopædia Britannica, (op. cit.)
  30. [30]Wired (op. cit.)

Bibliografia e fonti

insalata con le chiappe © Silvio Dell'Acqua 2017

…insalata cont i ciapp, che sono le uova dimezzate, e poste vicine e tremolanti sul piatto e fanno pensare a due glutei femminili.Gianni Brera, La pacciada (1973)
Linsalata cònt i ciapp in dialetto milanese o cui ciàp in quello pavese, è un tipico piatto povero lombardo per la stagione primaverile, in particolare del periodo di Pasqua: «questa è la nostra vera insalata pasquale», scrive nel 1840 il tipografo e letterato meneghino Francesco Cherubini.[1] Il curioso nome, come è intuibile anche ad un forestiero (un giargiàna, come li chiamano a “Milàn“), significa proprio “insalata con le chiappe” ed allude alle uova sode, dette appunto in ciapp[2] per la consistenza elastica, che tagliate in due metà e poste una accanto all’altra ricordano proprio un paio di bianche natiche sopra un letto di foglie.

«L’uovo custodisce la vita e l’essenza», affermò Paracelso nel suo Paragranum (1530): il guscio ermetico dalla forma perfetta e la sua capacità di generare la vita hanno sempre incuriosito l’uomo, che sin dai tempi antichi lo ha caricato di significati simbolici. In particolare, l’uovo è associato alla fecondità ed alla primavera in quanto stagione del risveglio della natura, del raccolto, della rinascita; con l’avvento del cristianesimo sarebbe confluito nella tradizione pasquale a simboleggiare la resurrezione di Gesù Cristo.[3] L’usanza di consumare uova di gallina sode a Pasqua ricalca forse la memoria di antichi riti primaverili,[4] ma certamente si sovrappone ad abitudini dettate da esigenze pratiche, tipiche del pragmatismo rurale: le uova si assodavano infatti per meglio conservarle durante l’inverno[5] e giunta la primavera le scorte potevano tranquillamente essere consumate. In questa stagione, inoltre, le uova di gallina tornavano ad essere disponibili fresche nei pollai; anche per questo la primavera in Lombardia veniva salutata con piatti come frittate, uova sode o alla coque, in camicia o in cereghin.[6] Talvolta dipinte a mano e portate in chiesa per la Messa, le “uova benedette”, di gallina ma anche di quaglia o di faraona, furono antesignane dell’uovo di cioccolato comparso tra Francia e Germania solo agli inizi dell’Ottocento.[7]

Uova di gallina decorate a mano per Pasqua

Uova di gallina decorate a mano per Pasqua

Il felice accostamento delle uova sode con l’insalata era già nota dal rinascimento: già nel 1570 il romano Bartolomeo Scappi, il cuoco del Papa, nella sua Opera (il più grande trattato di cucina del tempo) parla infatti di «…uova dure spaccate in insalata coperte da fiori di borragine».[8] Il calendario gastronomico padano era scandito dagli eventi della campagna: in primavera spuntavano le erbe di campo e le prime insalate dell’orto che, insieme al pollaio, rappresentava la maggiore fonte di approvvigionamento delle famiglie lombarde (non a caso anche un altro famoso piatto povero tradizionale della zona, la “zuppa alla pavese”, è basato sui prodotti dell’orto —il crescione— e del pollaio —uova e brodo di pollo[9]). Era quindi naturale che le uova sode venissero qui abbinate all’insalata primaverile per eccellenza, il primo lattughino dell’orto, come ricorda una poesia del pavese Ginio Inzaghi dedicata proprio all’insalata “con le chiappe”:
L’insalata cui ciàp, l’è tradission,
da mangiàla ‘l dì d’Pàsqua o ‘l dì ‘d Pasquèta
quand ch’d màrs o d’aprìl la prima arièta
la fà tirà un suspir, cavà ‘l majon …
quand che in dla prösa s’vèda ‘l latüghin
àlt tri dida, bèl tènar, verdësin …
L’insalata con le chiappe, è tradizione
mangiarla il giorno di Pasqua o di Pasquetta
quando di marzo o di aprile la prima arietta
fa tirare un sospiro, togliere il maglione …
quando dalla “prosa”[10] si vede il lattughino
alto tre dita, bello tenero, verdino …


da Ginio Inzaghi, L’insalàta cui ciàp, 1980.[11]

insalate primaverili lombarde: lattughino, radicchio, soncino e tarassaco

Insalate primaverili lombarde: Lattughino , cicorino o radicchio , soncino o valerianella , foglie di tarassaco .

L’olio si faceva con le noci, la linosa o il ravizzone

Ravizzone oleifero

Ravizzone oleifero (Brassica rapa oleifera), dai cui semi si ricava un olio alimentare.
[CC BY-SA]

A seconda della disponibilità locale o momentanea, il lattughino poteva essere sostituito in tutto o in parte con il cicorino[12] o con erbe di prato come il soncino (o valerianella[13]) e le foglie del taràssaco,[14] con cui in Piemonte si fa la salada dij prà (insalata dei prati).  Il tutto doveva essere condito con sale, un poco di aceto e abbondante olio; come recita un detto milanese l’insalata deve essere infatti «ben salatta, poch’asee e ben oliatta»[1] (ben salata, poco aceto e ben oliata). Anche perché qui l’olio non è che fosse molto saporito: anticamente si usava olio di noci, di linosa o di ravizzone (una pianta simile alla colza) poiché la produzione lombarda di oliva era ridottissima e limitata alla zona dei laghi. Solo dalla metà del Novecento inizia a diffondersi nelle campagne lombarde olio di oliva di bassa qualità in lattine o in bottiglie provenienti dalla Liguria. Un olio «inodoro e insaporo» come ricorda Gianni Brera nella Pacciada (1973), perché evidentemente gli «astuti Liguri della costa» tenevano per sé la produzione migliore inviando nell’entroterra la seconda scelta: ma tanto non è che «i lombardi vadano matti per la foglia»,[15] ossia per l’insalata.


Chi volesse poteva aggiungere magari anche una inciuda (o inciòda in milanese), l’acciuga conservata sotto sale, anch’essa di provenienza ligure e disponibile nell’entroterra grazie agli acciugai ambulanti.[16][17] Lo suggerisce di nuovo l’Inzaghi nella sopraccitata poesia, rimarcando ancora una volta l’importanza di abbondare con l’olio:


Par chi ‘gh piàs l’è un mangià propi güstus:
cun n’inciuda, tant’oli… delissius!![11]

Per chi gli piace è un piatto proprio gustoso:
con un’acciuga, tanto olio… delizioso!!

L’insalata cònt i ciapp era un piatto semplice e fatto di ingredienti estremamente poveri: lattughino, uova sode, olio (di bassa qualità), a volte un’acciuga —quando c’era. Un piatto impreziosito però dalla pragmatica ironia dell’uomo lombardo, lontano forse dalle considerazioni filosofiche sul significato simbolico dell’uovo, ma capace di coniugare in un piatto di insalata l’amore sacro con l’amor profano.

Le “chiappe” sono «…le uova dimezzate, e poste vicine e tremolanti sul piatto e fanno pensare a due glutei femminili» (Gianni Brera).

Preparazione


  • uova (una per persona);
  • insalata fresca primaverile, possibilmente lattughino;
  • olio di oliva ligure;
  • aceto di vino;
  • sale;
  • pepe (facoltativo);
  • una acciuga sotto sale (facoltativo).
Prima di tutto si preparano le uova in ciapp, ossia sode, immergendole una alla volta con un cucchiaio in acqua bollente salata e lasciandole per 6 minuti dal momento in cui l’acqua riprende a bollire; dopodiché si tolgono, si rinfrescano con acqua fredda e si sgusciano dopo averle sgocciolate. Pulita l’insalata, si condisce con sale, poco aceto e abbondante olio di oliva; eventualmente una acciuga sotto sale sminuzzata e/o pepe, a piacimento. Tagliare l’uovo sodo in due metà e disporre queste ultime affiancate su un letto di insalata così condita, servire e consumare subito.
A fà l’insalata ghe vœr:
ón sapient e ón avar a conscialla
ón matt a voltalla
e ón disperaa a mangialla.
[18]
Per fare l’insalata ci vuole:
un sapiente e un avaro a condirla (sale, olio e poco aceto),
un matto a voltarla (mescolare bene)
e un disperato a mangiarla (consumare subito).

Detto Milanese

Note

  1. [1]op. cit.
  2. [2]Brera—Veronelli, pag. 169 (op. cit.)
  3. [3]Sul rapporto tra l’uovo e la liturgia pasquale cristiana si veda: Bonato, Laura Tutti in festa: antropologia della cerimonialità (Franco Angeli, 2006. Pag. 92.) e Hani, Jean Il simbolismo del tempio cristiano (Arkeios, 2012. Pag. 187).
  4. [4]Già tra gli antichi persiani era uso scambiarsi uova di gallina all’arrivo della primavera.
  5. [5]Cardini, Franco Il libro delle feste: risacralizzazione del tempo. Ventimiglia: Philobiblon, 2003. Pag.
  6. [6]In cereghin: al tegamino. In dialetto il cereghin è il “chierichetto”, ossia un ragazzo che assiste all’altare durante le funzioni liturgiche.
  7. [7]Carnazzi, Stefano. “L’uovo di Pasqua, una storia di cioccolato.” in Lifegate, 25 Marzo 2016. Web.
  8. [8] cfr. Scappi, Opera, 1570. L’uso alimentare della borragine (Borago officinalis, L.) allo stato crudo è oggi sconsigliato per la presenza, in alcune fasi vitali della pianta, di composti pirrolizidinici epatotossici.
  9. [9]Molina, Mo, Casali La leggenda di una zuppa. Pavia: Edizioni Cardano, 2014.
  10. [10]La prosa in orticoltura è una striscia di terreno coltivata ad ortaglie (cfr. Dizionario della lingua italiana. Minerva 1829: vol. 5 pag. 975), in dialetto lombardo proeusa, «montagnola di terreno concimata e seminata e coltivata a verdure, uno stralcio di campagna miniaturizzata negli orti dietro casa che necessita delle medesime accortezze e cure dell’originale.» (Mirko Volpi in Oceano Padano. Laterza, 2015. Pag. 10).
  11. [11]Inzaghi, pag. 9 (op. cit.)
  12. [12]Radicchio giovane (Cichorium spp.)
  13. [13]Valerianella locusta (Linnaeus).
  14. [14]Taraxacum officinale (Weber ex F.H.Wigg. 1780), noto come “dente di leone” è quello che dà l’infruttescenza detta “soffione”.
  15. [15]Brera—Veronelli, pag 19. (op. cit.)
  16. [16]Cabrini, Luisa, Fabrizia Malerba. L’Italia delle conserve. Touring Club Italiano, 2004. Pag. 8.
  17. [17]La storia degli acciugai” in La fiera degli acciugai. Web.
  18. [18]Arrighi, op. cit.

Bibliografia e fonti

  • Brera, Gianni e Luigi Veronelli La pacciada – Mangiarebere in pianura padana. Milano: Book Time, 2014. 1ª ediz. 1973. Pag. 19, 32–32, 196–197. ISBN 978-8862182478
  • Inzaghi, Ginio. L’insalàta cui ciàp. Pavia: Tipografia Commerciale Pavese, 1980.
  • Cherubini, Francesco. Vocabolario Milanese–Italiano. Vol. 2. Milano: Imperiale Regia Stamperia, 1840. pag. 313.
  • Arrighi, Cletto. Dizionario milanese-italiano: col repertorio italiano-milanese. Milano: Hopeli, 1977. Pag. 346.

Opera tutelata dal plagio con Patamu, registrata al nº 59515.

Pink Saltwater Candy

Le taffy sono caramelle morbide di melassa originarie del New Jersey e risalenti al XIX secolo. Divenute popolari intorno al 1840,[1] sono la controparte nordamericana delle toffee britanniche, caramelle a base di melassa e burro, dalle quali si differenziano soprattutto per la consistenza più morbida ottenuta stirando la pasta e per l’aggiunta di coloranti ed aromi (solitamente alla vaniglia o alla frutta, esistono comunque le classiche unflavoured taffy, il cui gusto è dato solo dagli ingredienti).

2 – Le bambole di pezza Raggedy Andy e Raggedy Ann prepararano le taffy nelle illustrazioni di Johnny Gruelle (1880–1938) per il libro Raggedy Andy Stories del 1919: a sinistra la preparazione della melassa, a destra la stiratura “a mano”.

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3 – Gancio da muro per la stiratura della pasta, dal catologo Fletcher MNF’G. CO. del 1896.

La stiratura della pasta era fatta “a mano” attaccando ad un gancio la massa dopo la bollitura e tirandone un lungo cordone, che poi veniva ripiegato e tirato di nuovo finché non si fosse schiarito, segno che nell’impasto si erano formate sufficienti bolle d’aria perché la pasta fosse morbida e leggera. Quando le taffy erano fatte in casa, questa operazione era un’attività che coinvolgeva la famiglia, «un intrattenimento per grandi e piccini ed un passatempo per coppie di fidanzati».[1] Fu ad Atlantic City, negli anni ’80 del XIX secolo, che le casalinghe taffy divennero le esotiche salt water taffy.

Atlantic City

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4 – Atlantic City: Atlantic Avenue verso nord, 1900 circa.

Atlantic-city-nj-map

5 – Atlantic City, New Jersey.

Atlantic City si trova sulla costa occidentale degli Stati Uniti, nello stato del New Jersey e a circa 190 km da New York. Nel 1870 vi fu costruita la prima Boardwalk, una passerella lungo la spiaggia pavimentata con assi di legno;[2] una insolita promenade lungo la quale, nel decennio successivo, iniziarono ad affacciarsi numerose attività commerciali ed hotel: caratteristica che sarebbe diventata poi comune lungo la East Coast, ma che all’epoca dava alla città una aspetto insolito, diverso dalle solite città industriali e per questo in grado di attrarre turisti della middle class americana che potevano giungere comodamente da Camden e Philadelphia con la linea ferroviaria costruita proprio in quegli anni. Nel 1880 Atlantic City era già un affermato luogo di villeggiatura e la Boardwalk un centro commerciale a cielo aperto dove trovare prodotti di lusso ed attrazioni, limonata fresca (la moda del momento) e caramelle taffy. Queste ultime divennero molto popolari grazie anche alla trovata del pasticciere Joseph F. Fralinger (1847 – 1927), che le propose come souvenir in confezioni da una libbra.

Atlantic_City_boardwalk

6 – La Boardwalk di Atlantic City tra il 1913 ed il 1916, cartolina postale.

Secondo una leggenda (che ricorda quella del sigaro toscano), nell’agosto del 1884[3] ci fu una forte tempesta e la mareggiata si abbatté sulla città raggiungendo gli edifici lungo la costa. Il negozio di David Bradley sulla Boardwalk, vicino ai David Lindy Baths a St. James Place, fu allagato dall’acqua del mare, l’intera scorta di taffy fu inzuppata ed il commerciante le avrebbe scherzosamente proposte come “salt water taffy” (taffy all’acqua salata). In realtà però, sebbene la ricetta possa prevedere tanto l’acqua quanto il sale, non c’è mai stata acqua di mare nelle salt water taffy che in sostanza non affatto diverse dalle comuni taffy: il nome infatti alludeva semplicemente al fatto che venissero “fabbricate lungo il mare”. Secondo Fralinger, invece, nel 1883 il chiosco di David Bradley pubblicizzava delle semplici “taffy” e sarebbero stati i suoi clienti, con una certa fantasia, a chiamarle ocean wave taffy, sea foam taffy o ancora salt water taffy.[4] Udito ciò per caso, Fralinger ebbe il guizzo di genio che era mancato a Bradley e pensò di proporle nel proprio negozio come salt water taffy, nome che si sarebbe poi definitivamente affermato.

Proprio quando le taffy raggiunsero il picco di popolarità ad Atlantic City, nel 1923 tale John Ross Edmiston gettò scompiglio tra i concorrenti registrando il marchio “Salt Water Taffy” all’Ufficio Brevetti il 21 di agosto (nº 172 016) e pretendendo in forza di ciò il pagamento di una royalty a chiunque avesse venduto prodotti con quel nome. Enoch James, uno dei produttori storici di Atlantic City (attivo anch’egli dai primi anni ’80 del XIX secolo) fece ricorso e la faccenda finì in tribunale. Fu chiamata a testimoniare Margaret J. Kelly, sorella di David Bradley, secondo la quale le salt water taffy sarebbero nate nel negozio del fratello a seguito dell’inondazione della Boardwalk, come vorrebbe la leggenda:

La mattina dopo, quando [Bradley] è andato ad aprire il suo chiosco, tutto era bagnato e umido per questa alta marea. Aveva fatto una partita di caramelle e l’aveva rovinata e, naturalmente, era di pessimo umore.[5]

Secondo Mrs Kelly, ad un ragazzina entrata nel negozio per comprare caramelle la mattina dopo la tempesta, Bradley avrebbe chiesto sarcastico «You want saltwater taffy, sis?»: la madre della piccola cliente trovò il nome attraente e consigliò al negoziante di utilizzarlo.[4] Edmiston raccontò invece un’altra versione, cioè che il negozio allagato fosse il suo e che, assaggiate le caramelle impregnate di acqua salata e trovatele ottime, ebbe l’idea di venderle come salt water taffy.[6] Alla fine, nel 1925 il “Board of Examiners of Interference” concluse che il nome –chiunque l’avesse inventato– era ormai nell’uso comune e pertanto non poteva costituire un marchio registrato.

Taffy Being Made

7 – Massa per le salt water taffy.

Ad Atlantic City le taffy non ebbero solo un nuovo nome. Nel XX secolo Fralinger, noto come il “re delle taffy”, con le sue trovate di marketing e le sue dinamiche campagne pubblicitarie fu il principale promotore delle tradizionali caramelle di melassa: «aria di mare e luce del sole sono sigillate in ogni confezione» era un tipico slogan degli anni ’20. Il suo storico rivale, Enoch James introdusse invece innovazione nella ricetta, ottenendo una caramella meno appiccicosa, e nel procedimento, inventando finalmente la macchina per la stiratura della pasta.

Salt_Water_Taffy_Stretching_and_Wrapping_Machines

8 – Macchina per la stiratura della pasta per le “taffy”.

La produzione delle salt water taffy di Atlantic City si diffuse a diverse località costiere del New Jersey (Fralinger aprì negozi a Cape May e Ocean City), quindi a tutta la costa orientale dalla Florida al Maine fino al Canada, quindi alla West Coast (San Francisco e Los Angeles, ad esempio) e persino a Salt Lake City nello Utah, dove il mare non c’è ma troviamo invece un grande lago salato, chiamato appunto Great Salt Lake. In mancanza di un negozio nelle vicinanze, si potevano anche ordinare sui popolari cataloghi di vendita per corrispondenza americani, oggi sostituiti dallo shopping online. La competizione si gioca anche sul ventaglio di gusti disponibili: se la Sweet Candy Company, quella di Salt Lake City, propone 43 gusti,[7] Franlinger e James di Atlantic City ne offrono 55[8] mentre Shriver’s di Ocean City addirittura 62. Accanto ai più classici gusti alla frutta troviamo quelli più fantasiosi come ad esempio la “mela aspra”, la “noce di macadamia”, la “zucca speziata”, la “birra di radice”,[9] “crema e biscotto”, le improbabili taffy “napoletane”,[10] fino al decisamente insolito gusto “popcorn al burro”.

taffy baskets

9 – Assortimento di salt water taffy in diversi gusti (Depositphotos)

I marchi storici, Fralinger e James, esistono ancora ma non sono più rivali: entrambe le aziende furono acquistate negli anni 1990 dalla famiglia Glaser, anch’essi dolciari da generazioni. Un negozio di Fralinger degli anni’20 fu meticolosamente ricostruito nel 2010 come set per le riprese della fiction per la HBO Boardwalk Empire – L’impero del crimine.

Ricette

Per chi volesse cimentarsi nella produzione casalinga, il ricettario per dolci Rigby’s Reliable Candy Teacher di Will O. Rigby del 1919 [19ª edizione] riporta la ricetta che, assicura l’autore, consente di ottenere la originale salt water taffy come «fabbricata e venduta sulla Boardwalk di Atlantic City»:

Genuine Atlantic City Salt Water Taffy

Mescolare 4 libbre [c.a 1,8 kg] di zucchero ed un cucchiaio da tavola [15 ml] di amido di mais, quindi metterle in un bollitore ed aggiungere:
4 libbre di sciroppo di amido di mais
¼ di libbra [≈113 g] di burro “Nucoa”[11]
1 pinta e ½ [c.a 0,7 l] di acqua

Cuocere a 256 °F. [≈124 °C.], quindi aggiungere un cucchiaio pieno di sale, versare su un piano e quando si è raffreddato abbastanza, stirare su un gancio per lungo tempo. Torcere in strisce come i bastoncini di zucchero,[12] tagliare in pezzi lunghi circa ¾ di pollice [≈2 cm]. Avvolgete ogni pezzo in carta cerata ed otterrete le salt water taffy come in origine, e come preparate e vendute sula boardwalk ad Atlantic City.[13]

In realtà ogni produttore aveva la propria esclusiva ricetta che probabilmente ha subito piccoli mutamenti nel corso degli anni. Lo stesso libro ne riporta anche una variante più “generica” (in questo caso alla vaniglia), intendendo forse sottolineare una certa differenza tra le taffy di Atlantic City e quelle prodotte in qualunque altro luogo:

Salt Water Taffy

4 libbre [c.a 1,8 kg] zucchero tipo “C”[14]
2 libbre [c.a 0,9 kg] di sciroppo di amido mais
½ libbra [c.a 227 g] di burro
1 pinta e ½  [c.a 0,7 l] di acqua

Cuocere a circa 260 °F. [≈127 °C.], aggiungere un cucchiaio da tavola di sale e 2 once [≈57 g] di glicerina. Versare su un piano quando freddo, tirare bene sul gancio aggiungendo vaniglia durante la stiratura. Ricavare strisce rotonde delle dimensioni di un bastoncino di zucchero,[12] tagliare in piccoli pezzi con le cesoie e avvolgere in carta cerata.[13]

Non è da escludere che, sulla scorta della leggenda, nella produzione “casalinga” qualcuno utilizzasse davvero l’acqua di mare in luogo di acqua e sale, come suggerisce questa ricetta del 1940 dal libro America Cooks: Favorite Recipes From 48 States[15] dei fratelli Brown:

Atlantic City Salt-Water Taffy

1 tazza [≈0,23 l] di zucchero
1 cucchiaio [15 ml] di amido di mais
2/3 di tazza [≈0,18 l] sciroppo di amido di mais
1 cucchiaio di burro
1/2 tazza [≈0,12 l] di acqua di mare
Aromi

Mescolare lo zucchero e l’amido di mais,mettere in una casseruola, aggiungere burro sciroppo ed acqua di mare, and sea water; scaldare fino al punto di ebollizione quindi bollire (a 254 °F)  finché forma una palla stabile se messo in acqua fredda, versare su una teglia unta o un piano di marmo. Quando abbastanza fredda da poterla maneggiare, stirare la massa finché si schiarisce aggiungendo l’aroma desiderato. Tirare un rotolo  dello spessore di un pollice [≈25 mm] e tagliare nella lunghezza desiderata. Avvolgere in carta cerata. Se non avete della genuina acqua dell’Oceano Atlantico potete aggiungere 1/4 cucchiaio [≈4 ml] di sale a qualunque altra acqua, anche se sarebbe considerato un reato nel New Jersey.

L’ultima –e chiaramente ironica– precisazione denota una certa sicurezza nell’affermare che nel New Jersey fosse tradizione aggiungere acqua di mare, cosa che non è invece menzionata in questa ricetta del 1970 riportata in Homemade Candy di Nell B. Nichols:[16]

Salt water taffy

2 tazze [≈0,43 l] di zucchero
1 tazza [≈0,23 l] di sciroppo di amido di mais
1 tazza e ½ [≈0,35 l] di acqua
1 cucchiaio e ½ [≈23 ml] di sale
2 cucchiai [≈30 ml] di glicerina
2 cucchiai di burro
2 cucchiai di vaniglia

Combinare zucchero, sciroppo, acqua, sale e glicerina in una casseruola pesante da 3 quarti [≈2,8 l]. Mettere a fuoco basso e mescolare finché lo zucchero si dissolve. Quindi cuocere senza mescolare a 260 °F. [≈127 °C]. Togliere dal fuoco ed aggiungere il burro.Quando il burro si è sciolto, mettere in una teglia imburrata (circa 13 x 9″). Quando abbastanza freddo da maneggiare, riunire in una palla e stirare finché diventa piuttosto soda. Aggiungere vaniglia mentre si stira. Ricavare una lunga corda e tagliare pezzi lunghi 1 o 2 pollici. Avvolgere ogni pezzo in carta cerata quando indurito, avvolgere su entrambi i lati. Questo impedirà alla caramella di diventare appiccicosa.

Note

  1. [1]Flexner, Stuart Berg. Listening to America: An Illustrated History of Words and Phrases from Our Lively and Splendid Past. New York: Simon and Schuster, 1982. P.138 (cit. in The Food Timeline, op. cit.)
  2. [2]La Boardwalk venne più volte ampliata nel corso degli anni: all’epoca era lunga un miglio e larga 9 piedi, oggi è lunga circa quattro miglia e larga 60 piedi. Cfr. Schnitzspahn, pag. 152 (op.cit.)
  3. [3]Snopes, (op. cit.)
  4. [4]Cook’s info (op.cit.)
  5. [5]Miller, Michael. “Story of Saltwater Tafffy No Stretch.” The Press of Atlantic City 29 maggio 2008. Cit. in Cook’s Info (op. cit.)
  6. [6]Smith, in Fast Food & Junk Food… (op. cit.)
  7. [7]Sito ufficiale, cons. 29-12-2014
  8. [8]Flavors guide“, James’ Web. 29/12-2014.
  9. [9]Birra di radice: bevanda popolare nel Nord America dalla gradazione alcolica molto bassa o analcolica (soft drink).
  10. [10]Napoletane: proposte sia da Shreever che da Sweet Candy, sono una combinazione di vaniglia, cioccolato e fragola, i gusti del cosiddetto “gelato napoletano” che ha origine in realtà negli Stati Uniti del XIX secolo.
  11. [11]Nucoa butter: margarina.
  12. [12]I bastoncini di zucchero sono un tipo di caramella a forma di bastone con una estremità ricurva, tradizionalmente costituiti da due fasce intrecciate di colore bianco e rosso.
  13. [13]Lynn, “History Notes: Candy” (op. cit.)
  14. [14]Indica il grado di raffinazione.
  15. [15]Brown, C., R. & B. America Cooks: Favorite Recipes Form 48 States. Garden City, N.Y.: Garden City, 1940. (p. 569-570). Cit. in Lynn, “History Notes: Candy” (op. cit.)
  16. [16]Nichols, Nell Beaubien. Homemade Candy. Garden City, N.Y: Doubleday, 1970. P. 154. Cit. in Lynn, “History Notes: Candy” (op. cit.)

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. © GunterNezhoda/Depositphotos, 31-1-2012.
  2. Johnny Gruelle, 1919: illustrazioni da Raggedy Andy Stories: Introducing the Little Rag Brother of Raggedy Ann. New York: Little Simon, 1919.
  3. Illustrazione da The Candy Maker’s Guide del 1896, ricettario/catalogo pubblicato dal produttore di macchine ed utensili per pasticceria Fletcher MNF’G. CO. (Project Gutenberg).
  4. Post Card Distributing Company, No. 1900 [PD] Commons.
  5. United States Census Bureau, 2000 [PD] Commons.
  6. [PD] “Chilton Company, Phila., Pa., U.S.A. 4”, Commons.
  7. © pk7comcastnet/Depositphotos, 9-7-2013.
  8. Visitor7, 29-3-2013 [CC-BY-SA 3.0Commons.
  9. © zenpix/Depositphotos, 11-2-2010.

Apple pie

1

Quando dici che una cosa è “americana quanto la torta di mele”, quello che stai realmente dicendo è che quella cosa è arrivata in questo paese da altrove e si è trasformata in una esperienza certamente americana.[1] John Lehndorff (American Pie Council), in As American as Apple Pie.

La apple pie o american pie è la tipica torta di mele nordamericana (soprattutto del Delaware), icona della cultura popolare quanto il baseball e l’hot-dog tanto che negli U.S.A, per dire che una cosa è davvero “americana”, si usa l’espressione «as american as an apple pie», quanto una torta di mele.[2][3] La apple pie è la tipica torta che, nei fumetti della Disney, viene preparata e messa a raffreddare sul davanzale dalla campagnola Nonna Papera (Grandma Duck, personaggio inventato dal grande fumettista Al Taliaferro nel 1943) dove diventa oggetto delle attenzioni del pigro ma goloso Ciccio (Gus Goose). La torta di mele è orgoglio nazionale e simbolo di prosperità:[4] «i popoli che non mangiano la torta di mele possono essere definitivamente sconfitti», sostiene un editoriale del New York Times del 3 maggio 1902, che mette in correlazione il declino dell’egemonia britannica con la scomparsa della torta di mele dalle razioni fornite ai soldati (sic).[4] Alla fine della seconda guerra mondiale si diffuse tra i militari di ritorno l’usanza di rispondere, a chi chiedesse loro di cosa avessero sentito di più la mancanza lontano da casa, «la mamma e la torta di mele». Da ciò l’espressione idiomatica «motherhood and apple pie» che riassume i valori fondamentali in cui ogni buon americano dovrebbe riconoscersi, ma che –ovviamente– sarebbe ben presto diventata anche un modo per dire “banale” e “stucchevole”: «is all motherhood and apple pie» equivale a dire «ovvio e scontato»[5] ed in politica è sinonimo di demagogia. Con la guerra fredda poi, la cultura popolare si pervase di propaganda e patriottismo: un brano folk del 1950,  The Fiery Bear (“l’orso di fuoco”) del duo Jack Holden – Frances Kay, contrapponeva alla minaccia del nemico sovietico, metaforicamente rappresentato dall’orso,[6] la rassicurante serenità della vita agreste americana fatta di baseball, torte di mele e fiere di contea:

We love our baseball and apple pie
We love our county fair
We’ll keep Old Glory waving high
There’s no place here for a bear
Noi amiamo il nostro baseball e la torta di mele
Noi amiamo la nostra fiera di contea
Noi terremo alta la Old Glory [la bandiera,[7] n.d.a.] Non c’è posto qui per un orso[6]


Nel 1974 un’altra canzonetta folk, scritta da Ed Labunski (il cantante e compositore di jingle per la pubblicità noto come il “Cowboy Polacco”) per un celebre spot televisivo[8] ripropose il tema degli stereotipi nazionali associandoli all’«auto preferita dagli americani»: era Baseball, hot dogs, apple pie and Chevrolet[9] della quale fu pubblicato anche un 45 giri promozionale.[10]

Era stato però il folksinger Don McLean nel 1972 il primo ad abbinare torta di mele e Chevrolet nel ritornello della sua canzone più famosa, oggi considerata una pietra miliare della musica leggera americana:

Bye, bye Miss American Pie
Drove my Chevy to the levee but the levee was dry
Ciao, ciao Miss “American Pie”
ho guidato la mia “Chevy” fino all’argine ma l’argine era secco


È American Pie, il brano che nel 1972 fu per quattro settimane il singolo più venduto[11] e più trasmesso negli USA,[12] nota anche per la più recente cover di Madonna,[13] canzone dalla melodia accattivante e dal testo misterioso con la quale Don McLean racconta la sua personale versione, fatta di metafore di non facile interpretazione, della storia del rock americano degli ultimi vent’anni, a partire cioè dal “giorno in cui la musica morì” (the day the music died): espressione con cui in nordamerica si fa riferimento al tragico incidente aereo del 3 febbraio 1959 in cui persero contemporaneamente la vita Buddy Holly, Ritchie Valens e J.P. Richardson, diretti a Fargo per un concerto. In realtà, scrive Ezio Guaitamacchi in Rockfiles, «American Pie è una dedica appassionata all’America stessa».[14] Un po’ come la torta di mele.

Storia

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2 – Ricetta della torta di mele inglese dall’edizione del 1791 del Forme of Cury, ricettario inglese del XIV secolo.

La torta americana è in realtà di origine europea, come del resto lo sono anche altre icone americane come l’hamburger (che come suggerisce il nome, è di Amburgo) e l’hot-dog, (che nasceva a Francoforte nel XVII secolo[15]). Viene infatti dall’Inghilterra, dove era nota sin dal XIV secolo: la prima testimonianza scritta è in un ricettario medievale risalente al 1390 circa ed accreditato al capo cuoco di Re Riccardo II. Quattro secoli dopo, nel 1791, l’antiquario di Chesterfield Samuel Pegge il Vecchio ne fece pubblicare la prima edizione a stampa cui diede il titolo Forme of Cury (“modi di cucinare”, cury deriva dal francese cuire) con cui oggi è noto. Una ricetta per una “torta di mele verdi” è riportata anche in un altro ricettario inglese, questa volta di epoca Tudor: A Proper New Booke of Cokerye, risalente al 1550 circa. La torta si diffuse in Europa sottoforma di diverse varianti, come la tarte tatin francese, le appelkruimeltaart e appeltaart germaniche e, in Svezia, la äppelkaka. Sarebbero stati proprio gli svedesi ad “esportare” la torta di mele in nordamerica, quando nel XVII secolo vi insediarono una delle prime colonie europee: la “Nuova Svezia” (Nya Sverige) lungo le rive del fiume Delaware, zona di origine della apple pie.  Viene infatti citata in un trattato del 1759 sulla storia della colonia di tale dottor Israel Acrelius, intitolato A History of New Sweden; or, The Settlements On The River Delaware:

«La torta di mele viene utilizzata tutto l’anno, e quando non si hanno più mele fresche vengono utilizzate quelle secche. È il pasto serale dei bambini. Torta casalinga, in luoghi di campagna, è composta di mele non pelate, né liberate dal torsolo, e la sua crosta non si rompe se la ruota di un carro vi passa sopra.»[16]

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3 – Il fiume Delaware in una mappa svedese del 1655

Il dolce si affermò ben presto nella nascente tradizione culinaria delle colonie, come testimonia il fatto che già nel 1796 la ricetta del dolce fosse inclusa in uno dei più antichi ricettari di “cucina americana”, il libro American Cookery di Amelia Simmons,[17] pubblicato ad Artford nel Connecticut. Quanto all’ingrediente principale, «il frutto americano» per eccellenza secondo il filosofo Ralph W. Emerson (1803 – 1882), in origine dovette essere anch’esso importato: le uniche mele native del Nuovo Mondo erano infatti le cosiddette crabapple dai pomi non commestibili (Malus spp). I primi coloni ordinarono quindi piante e sementi dall’Europa ed i frutteti inziarono a diffondersi dal XVII secolo a partire dalla regione del medio-atlantico,[18] quella definita «tipicamente americana» dallo storico Frederick Jackson Turner (1861 – 1932), noto soprattutto per la tesi sulla centralità della frontiera nella formazione del carattere e dei valori americani.[19] La coltivazione delle mele ebbe un rapido successo, soprattutto nelle zone dove il terreno rendeva difficoltosa la coltivazione dei cereali, come il New England[20] e la disponibilità di mele rese popolare sulla tavola degli americani due cose: il sidro, la cui produzione iniziò però a declinare agli inizi del XX secolo,[20] e la apple pie, la torta americana.

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4 – Raccolta delle mele in un orchard (frutteto) del centro-sud dello stato di Washington.

Ricetta

Una delle più antiche ricette della “vera” torta americana (escludendo quindi le versioni europee da cui ha avuto origine) è quella riportata da Amelia Simmons nel già citato ricettario American Cookery del 1796:

«bollire lentamente e versare le mele, per ogni tre pinte grattare la buccia di un limone fresco, aggiungere cannella, macis[21], acqua di rose[22] e zucchero a piacimento e cuocere nella pasta Nº 3.»[17]

La “pasta nº3” è un preparato comune a più ricette contenente lardo, la cui composizione è spiegata dall’autrice in appendice al testo:

«Nº3. Sei libbre di farina, 3 di zucchero, 2 libbre e mezza di grasso, (metà burro, metà lardo) 6 uova, 1 noce moscata, 1 oncia di cannella e 1 oncia di semi di coriandolo, 1 pinta di lievito di birra, 2 “gills”[23] di brandy, 1 pinta[24] di latte e 3 once di uva passa.»[17]

Nella ricetta moderna il burro ha sostituito il lardo ed alcuni aromi (come l’acqua di rose) hanno lasciato il posto ad altri. Quella di seguito è una ricetta “attuale”, riportata nel libro Americana: storie e culture dalla A alla Z (Il saggiatore, 2012).

Ingredienti

Per la pasta:

  • 400 grammi di farina;
  • 300 grammi di burro;
  • due cucchiai di zucchero;
  • un pizzico di sale;
  • due rossi d’uovo;
  • 5–6 cucchiai di acqua fredda.

Per il ripieno:

  • 1 chilo di mele, possibilmente varietà “Granny Smith”;[25]
  • 100 grammi di zucchero di canna;
  • 1 cucchiaio di maizena;[26]
  • ½ cucchiaino di polvere di cannella;
  • 20 grammi di burro;
  • 1 cucchiaio di acqua.

Preparazione

Si prepara la pasta mettendo in una ciotola la farina (tenetene un po’ per infarinare il piano di lavoro), lo zucchero e il sale, i rossi d’uovo ed il burro a pezzetti. Si mescola, aggiungendo qualche cucchiaio di acqua fredda, si impasta e si stende il composto su un piano infarinato; quindi si fa una palla e si ripete l’operazione una seconda volta. La pasta così ottenuta si mette in frigorifero a riposare per almeno un’ora, avvolta in un foglio di alluminio per alimenti (la cosiddetta “carta stagnola”). Nel frattempo, si prepara il ripieno: bisogna mettere in una ciotola le mele, sbucciate e tagliate a spicchi sottili, aggiungere zucchero, maizena e la cannella in polvere e mescolare bene. Quando la pasta è ben riposata, si toglie dal frigorifero e si stende fino a ricavare due dischi, uno del diametro della tortiera e uno un po’ più grande, abbastanza da coprire il fondo e i bordi della stessa; quest’ultimo si stende sul fondo del recipiente, rivoltando la pasta in eccesso verso l’esterno. Si versa il ripieno a strati, aggiungendo il burro in fiocchi, quindi si “chiude” la torta con il disco piccolo e si sigilla la torta girando all’interno il bordo del disco grande. Una volta spennellata con un cucchiaio d’acqua e cosparsa con un po’ di zucchero e si mette in forno a 180° per circa 40 minuti. Si mangia tiepida, dopo averla fatta raffreddare sul davanzale.[27]

Apple Pie

5 – Una apple pie pronta. Le fessure, che qui in formano il disegno di una felce (secondo una lunga tradizione familiare) servono a far fuoriuscire il vapore durante la  cottura prevenendo la rottura della crosta.

Altre versioni

La ricetta ha innumerevoli varianti, sia storiche che locali, tanto che probabilmente ne esiste una per ogni famiglia americana. Alcune di esse prevedono ad esempio la farina di tapioca invece della maizena, l’aggiunta di succo di limone, aceto di mele o aromi come noce moscata (nutmeg) ed estratto di fiori di Sicilia.

Con il formaggio

Soprattutto nel New England e nel Midwest,[28] la apple pie viene tipicamente accompagnata da una fetta di formaggio duro tipo cheddar (meglio se sharp, ovvero acido) originario del Somerset inglese. Questo abbinamento deriva dalla tradizione britannica, importata anch’essa dai coloni, di terminare il pasto serale con una fetta di formaggio.[1] Nello Yorkshire esiste l’analoga tradizione di servire la torta di mele (quella inglese però) accompagnata con formaggio Wensleydale.

À la mode

Negli Stati Uniti per torta à la mode (in francese, “alla moda”) si intende una fetta di apple pie servita con una palla di gelato (solitamente alla vaniglia). Questa versione sarebbe nata alla fine del XIX secolo al Cambridge Hotel, nell’omonima cittadina dello stato di New York: tale professor Charles Watson Townsend, che intorno al 1895 circa cenava regolarmente al ristorante dell’albergo, soleva ordinare una fetta di torta con il gelato. Una sera tal altra Mrs Berry Hall, commensale seduta vicina a lui, gli chiese il nome del dolce ed il professore inventò prontamente: «à la mode».

Apple Pie Slice © chas53 - Fotolia.com

6 – Torta di mele servita “à la mode” (Fotolia).

Note

  1. [1]Food Timeline (op. cit.)
  2. [2]Popik, Barry. “As American as apple pie.” The Big Apple. N.p., 19-1-2009. Web. 17-10-2014.
  3. [3]As american as an apple pie” – Cambridge Dictionaries Online.
  4. [4]PIE.The New York Times 3 maggio 1902: 1. The New York Times. Web. 24-9-2014.
  5. [5]Motherhood and apple pie“, Reverso Context dizionario contestuale. 24-9-2014
  6. [6]L’orso è tradizionalmente simbolo della Russia, in senso denigratorio. Il primo ad associare la Russia zarista all’immagine dell’orso fu il vignettista francese Honoré Daumier (1808 – 1879) che attaccò l’assolutismo dello Zar Nicola I definendolo il «più sgradito fra tutti gli orsi conosciuti». Cfr. Rabbow, Arnold. “Orso russo” in Dizionario dei simboli politici. Milano: Sugar, 1973. Pag. 238.
  7. [7]Old Glory (‘vecchia gloria’): sarebbe il soprannome della bandiera degli Stati Uniti nella versione a 24 stelle adottata dal 1822 al 1836, ma per estensione è spesso applicato a qualunque bandiera a stelle e strisce.
  8. [8]Given, Kyle. “10 Best Car Commercials – 10Best Cars.” Car and Driver. Hearst Communications, Gen. 2005. Web. 26-9-2014.
  9. [9]Un’altra versione diceva «Braaivleis, rugby, sunny skies and Chevrolet». Braaivleis è un altro nome del barbecue.
  10. [10]La versione pubblicata su disco 45 giri era diversa: è possibile ascoltarla su YouTube.
  11. [11]Secondo la classifica “Billboard Hot 100” della rivista Billboard.
  12. [12]secondo la classifica “Hot Adult Contemporary Tracks”, sempre di Billboard, basata sui dati di airplay radiofonico rilevati dalla Nielsen Broadcast Data Systems.
  13. [13]Reinterpretata nel 2000 per la colonna sonora del film The Next Best Thing (Sai che c’è di nuovo?) diretto da John Schlesinger, poi inclusa nell’album Music (Int’l) del 2009.
  14. [14]Guaitamacchi, Ezio. “American Pie: il destino del rock.” Rockfiles. 500 storie che hanno fatto storia. Roma: Arcana, 2012. Pag. 215-216.
  15. [15]Hot Dog History.” Hot-Dog.org. National Hot Dog and Sausage Council, n.d. Web. 23-9-2014.
  16. [16]Acrelius, Dr. Israel A History of New Sweden; or, The Settlements On The River Delaware, cit. in Stradley (op. cit.)
  17. [17]Simmons, Amelia. American cookery: or, The art of dressing viands, fish, poultry & vegetables, and the best modes of making pastes, puffs, pies, tarts, puddings, custards & preserves and all kinds of cakes from the imperial plumb to plain cake, adapted to this country & all grades of life. Hartford: Hudson & Goodwing, 1796. Il libro è disponibile gratuitamente su Project Gutemberg.
  18. [18]Medio atlantico: regione correntemente identificata con gli attuali stati del New Jersey, New York, Pennsylvania, Maryland, Delaware e Virginia. Solo i primi tre però sono definiti “Mid-Atlantic” secondo la suddivisione ufficiale del United States Census Bureau.
  19. [19]Esposta nel saggio The significance of the frontier in American history. Cfr. Turner, Frederick Jackson in Enciclopedie on line. Treccani. Web 13-10-2014.
  20. [20]Lehault, Chris. “The Cider Press: A Brief Cider History.” Serious Eats: Drinks. 2 Feb. 2011. Web. 13 Oct. 2014.
  21. [21]Macis: (chiamato anche “mace” o “fiore della noce moscata”) è una spezia culinaria, originaria delle isole Molucche: si tratta della parte interna del frutto che riveste la “noce moscata”, ovvero il seme del frutto dell’albero sempreverde Myristica fragrans Gronov.
  22. [22]Acqua di rose (rose–water): è una soluzione acquosa a base di estratto di petali di rosa.»
  23. [23]Il gill corrisponde a 4 once fluide (fl. oz.), quindi 118,28 ml.
  24. [24]La pinta americana corrisponde a circa 0,47 litri.
  25. [25]Granny Smith (“nonna Smith”): è una varietà di mela originaria dell’Australia, dove fu scoperta da Maria Ann Ramsey Sherwood Smith (1799-1870) alla quale deve il nome. Si tratta di un ibrido nato in natura del melo selvatico col melo, propagato poi dalla Smith. Arrivò negli USA solo nel 1972, quindi se volete riprodurre la ricetta “antica” non è questa la varietà da usare.
  26. [26]Maizena: amido di mais.
  27. [27]Il raffreddamento sul davanzale è molto iconico, ma in realtà non cambia nulla.
  28. [28]Ho, Emily. “An Apple Pie Without the Cheese…” The Kitchn. Apartment Therapy, 26 Ott. 2009. Web. 16-10-2014.

Bibliografia e fonti

americana-storie

Immagini

  1. Scott Bauer [PD] U.S. Department of Agriculture – Agricultural Research Centre/Commons;
  2. da Forme of Cury [PD] Commons;
  3. Peter Lindstrom, Royal Swedish Engineer: the Swenska River (now Delaware River) in India Occidentalis 1654-55 [PD] Commons;
  4. Scott Bauer, Washington 9-11-2012 [PD] U.S. Department of Agriculture – Natural Resources Conservation Service/Commons;
  5. Jonathunder [GNU FDL] Commons;
  6. © chas53 – Fotolia.com.

© alexsalcedo/Depositphotos

 

Regno degli Ostrogoti tra il 476 ed il 526 d.C.

Regno degli Ostrogoti tra il 476 ed il 526 d.C.

Secondo la leggenda gli ostrogoti, tribù di origine germanica che tra il V e VI secolo regnavo sopra una vasta area che comprendeva la penisola italiana e si estendeva sino alla Pannonia, avevano la “barbara” -appunto- abitudine di divorare il cervello dei nemici uccisi: dalla memoria storica di questa usanza deriverebbe il tradizionale cervello di manzo fritto, piatto tipico della cucina toscana ed in particolare del fiorentino. In realtà però non vi è alcuna certezza di tale macabra usanza; lo storico bizantino Procopio di Cesarea (490 – 565), nella Istoria delle guerre gottiche[1] racconta sì di atti di cannibalismo in quell’epoca in Italia, ma da parte delle popolazioni ridotte alla fame, tanto quelle delle città assediate dagli ostrogoti, come Piacenza nel 546, quanto quelle espoliate fiscalmente dai bizantini,[2] come nel Piceno nel 538.[3] Del resto, episodi simili si sarebbero sono verificati anche, ben più recentemente, durante le due guerre mondiali del XX secolo. È più probabile che il cervello di bovino fosse invece il “sottoprodotto”, se così si può definire, della lavorazione di un altro piatto tipico della cucina fiorentina: la celebre bistecca.[4] I macellai toscani avevano infatti l’esigenza di non sprecare nessuna delle parti commestibili degli animali da cui ricavavano la lombata per le braciole, e si trovò quindi un modo per cucinare anche il cervello.

Il piatto viene preparato utilizzando il cervello di bovino adulto o di vitello,[5] che va sbollentato[6] per due o tre minuti in sola acqua salata e quindi spellato della membrana che lo ricopre. Si immerge poi in acqua fredda (per fermare la cottura) e succo di limone per circa mezz’ora, dopodiché va ben sgocciolato e tagliato a fette alte circa mezzo centimetro che si lasciano poi ad insaporire per circa un’ora in una marinata composta di olio extravergine di oliva, succo di limone, prezzemolo tritato, cipolla tagliata a fettine, sale e pepe. Le fettine di cervello vanno poi sgocciolate di nuovo e panate passandole nella farina, nelle uova sbattute (un uovo ogni 200 gr. di cervello) ed infine nel pangrattato. Si frigge in olio caldo e si serve con spicchi di limone, che tipicamente accompagnano i secondi piatti fritti,  e un pizzico di sale. Può essere accompagnato ad un fritto misto di carne e verdure e vino Chianti.

Il cervello alla fiorentina è anche uno dei piatti preferiti di Hannibal Lecter,[7] il serial killer con la passione per l’arte e la cucina protagonista dei libri di Thomas Harris che nel terzo romanzo della saga (Hannibal, 1999) per sfuggire all’FBI si rifugia appunto a Firenze, dove ottiene l’incarico di curatore di una biblioteca.

Note

  1. [1]III/16.
  2. [2]Frediani, Andrea. Gli assedi di Roma. Roma: Newton & Compton, 1997. Pag. 84.
  3. [3]Pagani, Giovanni. “Da Marco Aurelio a Giustignano.” Terre Marsicane. Comune di Avezzano, n.d. Web. 2-9-2014.
  4. [4]«Bistecca alla fiorentina. Da beef-steak, parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella» Da Artusi, Pellegrino La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. (1891)
  5. [5]Tra i due, «quello di vitello è assai più delicato», scrive Obersoler nel libro Il tesoretto della cucina italiana (Hoepli, 1989 a pag. 170)
  6. [6]Sbollentare: cuocere brevemente in acqua bollente, generalmente salata. Cfr. Onesti, E. “Sbollentare – Sbianchire” in Mondocibo, 2 apr. 2007. Web. 3-9-2014.
  7. [7]Lanuzza, Stefano. Firenze degli scrittori del Novecento. Napoli: A. Guida, 2001.

Bibliografia e fonti

La pulénda de Citanò (in dialetto maceratese) o pulénda co’ lu “O” (polenta con la “O”) è un piatto povero tipico della tradizione di Civitanova Marche, nella provincia di Macerata. Si tratta di una comune polenta “gialla”, cioè di farina di granoturco, cotta in un paiolo e, una volta pronta, versata sulla spianatóra, l’apposita asse di legno. Tradizionalmente si condisce con appena un filo d’olio di oliva lasciato cadere dal beccuccio dell’ascéllu (utello,[1] oliera) a disegnare una “O” con tanto di ricciolo, come imponevano un tempo le regole della buona calligrafia, da cui il nome scherzoso di pulénda co’ lu “O”. Prima di servire si “sfascia”, ovvero si spande, l’olio sulla polenta con una forchetta e si divide: operazione in genere causa di discordie tra i bambini, che cercavano di accaparrarsi le porzioni con più condimento.

Civitanova Marche

Civitanova Alta e Porto Civitanova

giù-la-piazzaLa “polenta con l’O” è descritta nel romanzo autobiografico Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato (1980)[2] in cui narra della propria infanzia vissuta nelle Marche. Intitolato alla polenta di Civitanova è anche un sonetto popolare che scherza invece sulla rivalità tra gli abitanti di Civitanova Alta e i pesciaroli, ovvero gli abitanti di Civitanova Porto, prendendo a pretesto la notabile differenza tra le rispettive parlate: l’usuale desinenza dei vocaboli in “U” dell’entroterra, a Civitanova porto diventa infatti in “O”. Tanto che, dice il sonetto, con quella “O” giù al porto ci condiscono perfino la polenta!

La pulénda de Citanò

Quilli de jó lu Pòrtu, a Ccitanò,
le parole le vutta sinza “U”:
Figurate, le stéca co’ lu “O”[3]!
No, no ghe parla probbjo come nnu’:

Issi dice “margutto”[4], “perninzó”[5];
dice “frico”,[6] “ciammòtto”,[7] penza tu!
Fa li paini, e sgrizza la mbizió[8];
ma rmane pesciaroli o pescatù,

rmane jente che ccóme se presènta
sindi puzza de péscio e dde micragna;
jènde che ppéna e ttira, scì, la cénda!

E per ciurla o per mette su zzizzagna[9],
se dice: Jo a lu Pórtu, la pulénda,
co’ lu “O” la cunnisce e sse la magna!

Civitanova Alta -E. Pighetti/Flickr CC-BY 2.0

2 – Civitanova Alta (E. Pighetti/Flickr)

Porto Civitanova - E. Garbuglia/Flickr CC-BY 2.0

3 – Porto Civitanova (E. Garbuglia/Flickr)

Note

  1. [1]contenitore con beccuccio per versare l’olio di oliva o l’aceto, in terracotta invetriata o, più recentemente, in latta: oliera. V. →utello.
  2. [2]a pagg. 114-116 nell’edizione Einuadi del 1980.
  3. [3]le stéca co’ lu “O”: la pronuncia con la “o”. Stéca da téca, “baccello”, quindi “sbaccellare”, “sgusciare”: in modo figurato (come d’uso nel dialetto) vuole indicare la parlata (da Cavalieri, op. cit.)
  4. [4]margutto: anziché murguttu, “grullo”, “sciocco”.
  5. [5]perninzó: invece di pernizù, “verso l’alto”.
  6. [6]frico: anziché fricu, “bambino”
  7. [7]ciammòtto invece di ciammòttu, “rospo”, in senso figurato “imbecillotto”
  8. [8]sgrizza la mbizió: schizzano ambizione
  9. [9]per ciurla o per mette su zzizzagna: per burla o per provocare

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. © 2013, Silvio Dell’Acqua.  2013. Polenta preparata da Ermido Castellani di Gropello Cairoli.
  2. E. Pighetti, 2010 [CC-BY 2.0] Flickr
  3. E. Garbuglia, 2013 [CC-BY 2.0] Flickr

© 2013 Silvio Dell'Acqua

Il polpo alla genovese[1] è un piatto povero della tradizione ligure, che ben rappresenta il classico connubio tra prodotti del mare e dell’entroterra tipico della regione. È infatti basato su un classico accostamento: il polpo e le patate. Se il primo era però disponibile nel Mediterraneo, il tubero fu invece scoperto dagli spagnoli in America del sud nel 1539 e ci vollero altri due secoli perché si affermasse in Europa. La coltivazione delle patate in Liguria ha inizio solo verso la fine del XVIII secolo, per cui l’origine del polpo alla genovese (o “alla ligure”) si può far risalire a non prima del 1800. La varietà di patata più filologicamente corretta è ovviamente la tipica quarantina bianca genovese, a pasta bianca dai tuberi tondeggianti ed irregolari, adatta ai terreni sabbiosi dell’appennino ligure. Tuttavia la patata bianca è poco indicata per essere lessata in brodo perché troppo farinosa,[2] per cui oggi viene normalmente sostituita con la patata gialla. Il polpo alla genovese è un piatto in umido di semplice preparazione, come in genere i piatti poveri. Può essere servito come secondo piatto o come portata unica. Scolato e servito freddo diventa una insalata, spesso utilizzata come antipasto.

Essendo un piatto tradizionale, non esiste probabilmente una ricetta “originale”: ognuno ha la sua piccola variante e il proprio modo di cucinarlo. Una ricetta essenziale, e quindi probabilmente più vicina alla tradizione, può essere la seguente:

Ingredienti

  • un polpo da ½ kg;
  • patate: 400 g;
  • pinoli: 30 g circa;
  • alloro, limone (o aceto o vino), olio extravergine di oliva, pepe bianco e sale.

Preparazione

Il polpo va pulito e poi battutto ripetutamente contro un legno od una pietra per distendere le fibre e renderlo più morbido. Si scaldano gli spicchi d’aglio senza soffriggerli, si taglia a pezzi polpo e patate e si aggiungono, insieme ad una foglia di alloro, i pinoli ed il succo di mezzo limone, oppure un cucchiaio di vino bianco o aceto. Si mette sale e pepe a piacere e si copre con acqua per poi cuocere il tutto a fuoco lento con il coperchio finché il tutto è pronto: la cottura richiede dai 3 ai 5 minuti, è necessario assaggiarlo o punzecchiarlo con la forchetta basandosi sul proprio gusto e sulla propria esperienza per capire quando è pronto. Se il polipo è molto grande può richiedere una cottura più lunga, in questo caso è consigliabile ritardare l’aggiuntadelle patate per evitare che si “disfino” prima che il polpo sia cotto a dovere. Una volta pronto, aggiungere dell’olio extra-vergine di oliva ligure crudo. Può essere servito sia tiepido che freddo.

Piatti simili

L’accostamento tra il cefalopode ed il tubero non è una prerogativa ligure: è un classico della cucina mediterranea e si incontra anche, ad esempio, nel purpu alla pignata[3][4] di tradizione salentina o nel polpo con patate alla napoletana[5] In Spagna si mangia patatas con pulpo ed in particolare nella cucina galiziana troviamo il polbo á feira [6] (polpo della festa, in gallego).

Il polpo alla genovese non è però da confondersi con la “genovese di polpo”,[7] che con Genova o la Liguria non ha nulla a che fare: è infatti una variante (a base di polpo) della “genovese”,[8] un classico sugo napoletano per condire la pasta il cui nome ha origini incerte.

Note

  1. [1]detto anche “alla ligure”
  2. [2]Minerdo, B. e G. Venturini. Verdure e Legumi. Slow Food, 2012.
  3. [3]Purpu alla Pignata – Polpo con le Patate.” Spizzica in Salento. 8 Mar. 2013. Web. 5-10-2013.
  4. [4]Purpu alla Pignata.” La Melagranata. 29 luglio 2012. Web. 6-10-2013. 
  5. [5]Polpo con patate alla napoletana.” Napoli ai fornelli. 23 luglio 2013. Web. 6-10-2013.
  6. [6]Scarpinato, M. “Polpo alla gallega.” Ricetta Spagnola.it. 17 Maggio 2011. Web. 5-10-2013.
  7. [7]Ferrante, G.. “Paccheri alla genovese di polpo.” VELAcucino 5 Apr. 2011. Web. 6-10-2013.
  8. [8]Pignataro, L. “La Pasta con la Genovese a Napoli: ziti spezzati o paccheri?L. Pignataro Wineblog. 15 giugno 2013. Web. 6-10-2013.

Bibliografia e fonti