Autunno del 1707. La flotta della Royal Navy al comando dell’ammiraglio Cloudesley Shovell, di ritorno verso casa dopo aver fornito supporto militare al Principe Eugenio di Savoia nella infruttuosa battaglia per il porto di francese di Tolone,[1] imboccava il Canale della Manica diretta a Londra. Gli ufficiali di rotta ritenevano di essere al sicuro ad ovest dell’isola francese di Ouessant, al largo di Finisterra, ma a causa dei venti del mar Cantabrico che li avevano condotti fuori rotta, della fitta nebbia che li aveva accolti e dell’impossibilità, all’epoca, di calcolare con precisione la longitudine[2] le navi si trovavano invece sulla rotta per le Scilly. Prima che potessero rendersi conto dell’errore, la flotta andò incontro ad uno dei più grandi disastri navali della storia: quattro navi si sfracellarono sugli scogli ed affondarono, portando con sé forse duemila vite tra cui lo stesso Shovell (che si trovava sulla HMS Association) e l’intero equipaggio di quattrocento uomini della fregata Romney.
Le Scilly sono un arcipelago all’imbocco occidentale della Manica, ventisette miglia al largo della punta sud-occidentale della Cornovaglia, che viene chiamata Land’s End, fine della terra, proprio come i francesi chiamano Finistère (dal latino Finis terrae, cioè “fine della terra”) l’estrema punta occidentale della Bretagna, sul lato opposto del canale. Ne fanno parte sei isole principali (cinque delle quali abitate) circondate da una costellazione oltre di duecento tra isolotti disabitati e scogli, molti dei quali sommersi con l’alta marea,[3] causa tra l’altro di pericolosi vortici che spingono le imbarcazioni verso le rocce granitiche. All’insidia dei flutti si aggiunga quella delle mappe: sino al 1750 infatti la cartografia riportava le Scilly dieci miglia più a nord,[4] un errore — perpetuato per secoli dall’usanza di copiare mappe precedenti — che costò molte vite e molte navi. L’arcipelago godeva di una fama sinistra e leggendaria tra i marinai per il numero di incidenti che non ha eguali in nessun’altro punto del Canale. Se il primo naufragio documentato in su quelle rocce risale al 1305,[5] ne seguirono molti altri nei secoli successivi,[5] in continuo aumento con l’intensificarsi del traffico navale. Si dovette attendere il 1680 perché a St. Agnes — l’isola abitata più ad ovest — venisse costruito un faro a carbone (tuttora esistente seppure inattivo), insufficiente però a coprire l’intero arcipelago: non sarebbe infatti bastato a scongiurare il terribile disastro navale delle Scilly del 1707. La flotta di Shovell si era infatti imbattuta nelle Western Rock, la parte più occidentale e pericolosa dell’arcipelago; una distesa di scogli «terribili a vedersi» — come riporta un libro di idrografia dell’epoca[4] — nota tra i marinai con l’evocativo nomignolo di «cane delle Scilly»,[4] una belva pronta ad azzannare le navi di passaggio con i suoi denti di duro granito. L’idea di costruire un faro in quel punto non sarebbe stata presa in considerazione ancora per oltre un secolo, finché, dopo il tragico naufragio della goletta Douro che nel 1843 finì sullo scoglio di Crebawethan trascinando sul fondo del mare tutto il suo equipaggio, la Corporazione di Trinity House, ente britannico per i fari di Inghilterra e Galles, decise che era giunto il momento di illuminare quegli scogli tormentati dal vento e dal mare. Come fare, sarebbe stato un problema dello scozzese sir James Walker (1781 — 1862), ingegnere in capo della Corporazione, membro della prestigiosa Royal Society e già presidente della Institution of Civil Engineers.
Non era un compito facile: la luce sarebbe stata tanto più efficace quanto più vicina al pericolo, così la scelta ricadde su Bishop Rock, uno scoglio di granito rosa lungo quarantasei metri e largo sedici all’estremo occidentale delle Western Rocks, che aveva la fama di aver spedito sul fondo numerose navi. L’origine del nome è incerta: si ritiene che sia stato battezzato così tra il XV ed il XVI secolo dai pescatori delle Scilly, per la forma della roccia ed il colore rosa scuro che ricorderebbero una “mitra”, tipico copricapo da vescovo (bishop, appunto). Una leggenda racconta invece che nel XVII secolo un’intera flotta di navi mercantili sarebbe naufragata sulle rocce.[6] I soccorsi avrebbero trovato solo due superstiti su due diversi scogli, di seguito battezzati con i cognomi dei naufraghi: Bishop e Clerk.
Il primo faro (1849)
Si stimava all’epoca che sulle Western Rock si abbattessero almeno trenta tempeste all’anno e Walker calcolò che la spinta del vento sulla muratura avrebbe potuto raggiungere le settemila libbre per piede quadrato (oltre 34 tonnellate per metro quadrato). L’ingegnere ritenne che lo scoglio era troppo piccolo e le forze in gioco troppo grandi per un faro in muratura e che la soluzione migliore fosse quindi una torre a struttura aperta (skeletal tower), che offrisse minore resistenza all’aria, come quella che aveva visto sugli scogli detti “Small”, al largo del Galles (proprio dove sarebbe stato poi chiamato a progettare un nuovo faro nel 1859). Il progetto di Walker prevedeva che la lanterna, con l’alloggio dei guardiani ed il deposito, fosse sostenuta da una colonna prefabbricata in ghisa del diametro di appena sei piedi e tre pollici (poco più di un metro) all’interno della quale una scala a pioli avrebbe consentito di raggiungere i locali. La struttura sarebbe stata sorretta da sei gambe metalliche ancorate alla roccia, legate tra di loro ed alla colonna centrale da tiranti. La supervisione dei lavori fu affidata ad un altro grande ingegnere costruttore di fari, Sir Nicholas Douglass ed a suo figlio James Nicholas (1826-1898) che avrebbe in seguito firmato l’attuale faro di Eddystone (1882). I lavori iniziarono nel 1847 e la torre fu terminata nel 1849 al costo di dodicimila sterline, ma la luce non fu mai accesa: quando i lavori furono sospesi per l’inverno, il gruppo ottico, progettato per una portata di trenta miglia, non era ancora stato installato. Lo si sarebbe fatto la primavera successiva se il 5 febbraio del 1850 una forte tempesta non avesse spazzato via l’intera struttura.
James Walker, per nulla scoraggiato, si rimise al lavoro. Questa volta però abbandonò l’idea della struttura metallica in favore della tradizionale torre in granito, ispirandosi ad un altro faro: quello di Eddystone, progettato da John Smeaton[7] quasi un secolo prima (1759). L’anno successivo Walker e Douglass tornarono a Bishop Rock per un sopralluogo e individuarono un punto che avrebbe consentito una base di appoggio di una decina di metri di diametro. Lì sarebbe sorta la nuova torre.
Rosevear Island
Come già si fece per la costruzione del primo faro, fu allestito un insediamento con alloggi per i lavoratori, officina e deposito per i materiali: non sullo scoglio, dove lo spazio era a malapena sufficiente per il cantiere, ma sulla vicina isola di Rosevear,[8] appena due miglia a est di Bishop Rock. Da qui era possibile vedere le condizioni del mare intorno allo scoglio e sfruttare così ogni momento di bonaccia per approdarvi e continuare i lavori. Ancora oggi sull’isola sono presenti i resti delle case in muratura a secco e di una fucina, che fungeva probabilmente da attrezzeria per il cantiere. Se da una parte alloggiare in un cottage su un isolotto disabitato di non più di un ettaro era sempre meglio che in baracche galleggianti come toccava agli operai impegnati in altri fari offshore,[9] non si può certo dire che stare a Rosevear fosse una villeggiatura: le frequenti mareggiate impedivano ai rifornimenti di raggiungere l’isola, costringendo i lavoratori a nutrirsi di pesca, uova di gabbiano e patelle crude raccolte sulle rocce. Come se non bastasse la natura e l’isolamento, ci si metteva anche un fantasma a tormentare l’isola.[10]
Ann Cargill ed il naufragio del Nancy
Ann Brown, nata nel 1760, era una cantante d’opera molto celebre, giovane e bellissima, le cui numerose fughe amorose scandalizzarono la società londinese del diciassettesimo secolo. Debuttò a soli undici anni ed a ventuno era già al culmine della propria fama con il nome coniugale di Ann Cargill. Nel 1783 fuggì in India per raggiungere il suo nuovo amante, tale John Haldane,[11] capitano della Compagnia britannica delle Indie Orientali. A Bombay e Calcutta divenne una vera star, oggi paragonata ad una «Britney Spears del XVII secolo»,[12] ma alla fine di quello stesso anno ne fu ordinato il rimpatrio nientemeno che dal primo ministro britannico William Pitt il Giovane (1759-1806), secondo il quale «un’attrice non doveva contaminare le pure coste dell’India».[12] O almeno così giustificò la propria decisione di fronte al parlamento. Ad ogni modo, Ann non sarebbe mai arrivata in Inghilterra.
Si imbarcò con il figlio di appena quindici mesi sulla nave postale Nancy, diretta a Londra al comando dello stesso Haldane, fidanzato dell’attrice e padre del bambino. Dopo tre mesi di viaggio, la notte del 4 marzo del 1784, il Nancy era ormai giunto all’altezza delle Scilly quando fu colto da una violenta tempesta. Il faro di Bishop Rock non esisteva ancora ed il maltempo impedì all’equipaggio di avvistare quello di St. Agnes. Lo scafo urtò lo scoglio di Gilstone, lo stesso che aveva affondato la HMS Association dell’ammiraglio Shovel nel 1707 (mappa), e fu inghiottito dal mare. Non ci furono superstiti tra le quarantanove persone che si trovavano a bordo: alcuni riuscirono a lasciare la nave con una scialuppa, ma non sopravvissero all’ulteriore naufragio di questa, sbattuta violentemente contro le rocce di Rosevear, dove furono rinvenuti i corpi di diciassette naufraghi.
La stampa dell’epoca riportò una commovente descrizione da tragedia elisabettiana del ritrovamento dell’attrice, morta, con il figlioletto ancora stretto tra le braccia.[12] In realtà però, i primi soccorritori giunti sul posto ignoravano l’identità delle vittime e si limitarono a seppellirle sull’isola disabitata. Solo in seguito alla diffusione della notizia dell’incidente che aveva consegnato Ann Cargill alla leggenda ne furono riesumati i resti, insieme a quelli del capitano Haldane e del figlio, per essere sepolti definitivamente sull’Isola di St. Mary, probabilmente presso la chiesa di Old Town.[13] Tutto questo accadde oltre mezzo secolo prima che a Rosevear si insediassero gli operai che avrebbero dovuto costruire il faro di Bishop Rock, tra i quali si sarebbe presto sparsa la voce che sull’isola si aggirasse ancora il fantasma della giovane: molti giurarono di aver udito, tra il rumore del vento e delle onde, la voce di Ann cantare una disperata “ninna nanna” al proprio bambino.[14]
…the Blacksmith, who was working alone on the island, heard strains of beautiful music and looked for the boats which he first thought must be bringing his comrades back, but none were visible. Whence he knew that the music was not of this world.[15]Dal diario di un operaio di Bishop Rock, 1852.
Il cantiere
Il “fantasma” non era certo il problema più grosso: il frequente maltempo rendeva spesso inaccessibile il sito e le improvvise mareggiate potevano cogliere di sorpresa gli operai. Della direzione dei lavori furono incaricati gli ingegneri Nicholas e James Douglass, padre e figlio. Fu quest’ultimo, più giovane e disposto all’adattamento, a garantire una presenza costante in cantiere ed una stretta vigilanza sui lavori. Ma non solo: James viveva a Rosevear con gli operai, condividendone l’isolamento, il cibo scarso ed i miseri alloggi. Non esitò nemmeno a lanciarsi nelle gelide acque dell’Atlantico insieme ai “suoi” uomini per soccorrere un compagno finito in mare, guadagnandosi così la stima ed il rispetto dei lavoratori.
La prima fase dei lavori fu la più complessa, lo scoglio era continuamente spazzato dalle onde e le prime pietre dovevano essere posate circa un piede sotto il livello minimo di marea; per consentire agli operai di lavorare all’asciutto fu quindi costruito un massiccio argine circolare intorno al basamento, dall’interno del quale fu poi tolta l’acqua. I blocchi grezzi di granito della cornovaglia, provenienti dalle cave di Lamorna e Carnsew, giungevano via mare sull’isola di St.Mary’s dove venivano lavorati, quindi nuovamente imbarcati alla volta dell’isolotto di Rosevear su un buoy tender,[16] il Billow, o su convogli di chiatte trainate da un rimorchiatore a vapore ribattezzato per l’occasione Bishop. Qui i blocchi, del peso variabile tra una e due tonnellate, venivano rifiniti e numerati per essere infine inviati allo scoglio dove venivano assemblati con incastri a coda di rondine su tutti i lati, conferendo alla torre una compattezza monolitica.
Il secondo faro (1858)
Malgrado superstizioni, carenza di cibo e tempeste i lavori proseguirono quanto più regolarmente fosse possibile, ma ci vollero sei anni di lavoro e duemilacinquecento tonnellate di granito per completare l’opera. Era una costruzione massiccia ma elegante, a “fusto di quercia”, come il faro costruito un secolo prima a Eddystone da John Smeaton ma più grande, alta complessivamente trentacinque metri.[17] Finalmente, il primo di settembre del 1858 una luce bianca fissa, visibile a 14 miglia di distanza, fu accesa per la prima volta in cima al faro di Bishop Rock. L’impresa fu salutata come una grande conquista dell’ingegneria britannica: i Commissari Reali che visitarono il faro l’otto di settembre lo definirono «magnifico, e forse il più esposto al mondo». Anche il principe consorte Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, marito della Regina Vittoria, scrisse alla Corte degli Elder Brethren (il consiglio direttivo di Trinity House) che la torre sarebbe stata considerata «un trionfo di abilità tecnica e perseveranza».
Nonostante le lodi e la indiscussa solidità, il faro non ebbe sin da subito vita facile: il 30 gennaio del 1860, poco più di un anno dopo l’inaugurazione, la torre dovette affrontare una delle più violente tempeste nella storia dell’arcipelago. La forza dell’acqua fu tale da crepare i blocchi di granito pochi metri sopra il livello dell’alta marea; la scala a pioli in metallo, imbullonata all’esterno della torre, fu spazzata via e mai più ritrovata. Il fatto più inquietante fu però che le onde riuscirono a strappare la campana del segnale da nebbia del peso 550 libbre,[18] sospesa appena sotto la lanterna ad una trentina di metri di altezza.[19]
Ma quello era solo l’inizio. Il 20 aprile del 1874 un’altra violenta tempesta si abbatté sulle Scilly, onde alte fino a trentacinque metri colpivano il faro facendolo ondeggiare pericolosamente; i guardiani, che vedevano le onde superare le finestre della cucina a venti metri di altezza, temettero il disastro. Al termine della tempesta le vetrate della lanterna erano rotte, le lenti di Fresnel erano spaccate in trenta pezzi, la sabbia del fondale fu ritrovata sulla “galleria” (la balconata) e nuove crepe erano comparse sul basamento dell’edificio. La struttura era ormai compromessa: la malta che legava i blocchi era stata erosa dal continuo impatto delle onde e l’acqua salata penetrava le fessure. L’edificio fu rinforzato con pesanti tiranti in ferro che correvano internamente da cima a fondo ma nel 1881 una mareggiata causò il distacco di una grossa scheggia di granito, mettendo in discussione l’efficacia del consolidamento. Nello stesso anno Sir James Douglass effettuò una approfondita ispezione dell’edificio, rilevando gravi danni strutturali ed individuando il punto debole nel basamento: era necessario un intervento radicale, e il padre Nicholas Douglass suggerì di ricostruire il faro, inglobando però l’esistente in una nuova torre più alta e più larga.
Il terzo faro (1877)
La supervisione dei lavori fu affidata all’ingegnere William Tregarthen Douglass (1857–1913), nipote di Nicholas Douglass, figlio di James ed ingegnere in capo di Commissioners of Irish Light, l’ente per i fari d’Irlanda. Questa volta gli uomini non avrebbero più dovuto soffrire l’isolamento di Rosevear: il campo base fu infatti allestito sull’isola abitata di St. Mary, la più estesa dell’arcipelago, dove furono trasferiti gli equipaggiamenti utilizzati dal padre James per la costruzione del quarto faro di Eddystone (completato nel 1882), compreso il rimorchiatore a vapore Hercules. Qui i blocchi di granito cornico, provenienti dalle storiche cave De Lank vicino a St. Breward[20] sarebbero stati lavorati e sagomati prima di essere imbarcati sull’Hercules per il viaggio di sette miglia verso Bishop Rock.
Il 25 maggio del 1883 iniziarono i lavori per la nuova torre durante i quali, a rendere tutto ancor più complesso, la luce doveva restare accesa. Fu costruito un enorme basamento cilindrico su cui le onde si sarebbero infrante, dissipando parte della propria forza, prima di colpire il faro. Questo fu rivestito con un nuovo strato di blocchi di granito, sagomati in modo da incastrarsi l’un l’altro e con le scanalature accuratamente incise sulla superficie della torre esistente, a formare una massa inamovibile. Il cantiere diretto da William Douglass rappresentò per l’epoca un notevole progresso in termini di sicurezza: pur non essendoci lo spazio per una vera impalcatura, gli operai lavoravano su pedane in legno sorrette da staffe ed assicurati mediante corde ad una robusta catena disposta intorno alla torre[21] Ad ulteriore assicurazione, tutt’intorno fu predisposta una rete di manilla[22] che avrebbe impedito agli uomini di cadere sulle rocce o in acqua, eventualità quest’ultima non meno pericolosa della prima. Queste misure, oltre a ridurre il rischio di incidenti, ebbero l’effetto di migliorare la produttività del cantiere: gli operai infatti, più sicuri e meno preoccupati di essere trascinati in mare da ondate improvvise, lavoravano meglio e più in fretta. Ci sarebbero comunque voluti tre anni, nonostante il mare fosse stato particolarmente clemente nell’estate del 1884, perché i nuovi blocchi arrivassero all’altezza della galleria inglobando così completamente la vecchia torre.
Da questo punto in poi iniziava la parte in elevazione ed il lavoro sarebbe stato più semplice e più spedito, senonché l’innalzamento della torre avrebbe oscurato la lanterna. Questa fu quindi smontata nel maggio del 1886 ed al suo posto fu eretta una gru a colonna in ferro battuto alta quaranta piedi (circa 12 m), in cima alla quale fu installata una lanterna provvisoria (immagine 12-B) del tipo utilizzato sulle navi faro di Trinity House, garantendo così la continuità del segnale.[23] La gru, con tutto l’apparato luminoso, veniva sollevata mano a mano che i lavori progredivano: una tecnica analoga a quella utilizzata nella costruzione dei moderni grattacieli[24] e che consentì di ultimare la torre entro la fine di agosto, posando le ultime 28 ricorse di muratura in poco più di due mesi. In tre anni e mezzo erano stati posati 3220 tonnellate di granito, più del peso della torre originaria, la quale era diventata parte collaborante della struttura per una massa complessiva di 5700 tonnellate.
Restava da completare la lanterna: Trinity House volle coronare il successo di un’impresa tanto ardita con il più avanzato e potente apparato luminoso che fosse all’epoca disponibile. Grazie alla nuova doppia lampada da duecentotrentamila candele,[25] alla pesante ottica Fresnel su due livelli azionata da un motore elettrico[26] ed all’innalzamento a 144 piedi del piano focale, il caratteristico segnale — due lampi bianchi ripetuti ogni 29 secondi — era visibile fino ad una distanza di ventinove miglia nautiche. La campana da nebbia fu sostituita da un nuovo tipo di segnale sviluppato da Trinity House, un corno esplosivo a cartucce di nitrocellulosa.[27] Questi miglioramenti, insieme al consolidamento della torre, secondo Trinity House avrebbero portato Bishop Rock «al più alto rango dei fari in pietra». Ci volle un altro anno per completare i lavori e la nuova luce fu finalmente accesa il 25 ottobre del 1887. Il faro da allora è rimasto attivo e sostanzialmente immutato: l’unica modifica visibile è l’elisuperficie sopra alla lanterna, realizzata nel 1977, che consente l’accesso all’edificio tramite elicottero. Solo la lampada elettrica ha sostituito, nel 1973, i bruciatori ad olio combustibile mentre l’ottica è ancora quella realizzata alla fine del XIX secolo dalla vetreria Chance Brothers di Birmingham, cui sono state rimosse le lenti superiori nel 1992.[28] Da quell’anno il faro è automatizzato e non richiede più il presidio del personale, che può più confortevolmente soggiornare a terra. William Threatened Douglass aveva vinto una lunga sfida con il mare, iniziata quarant’anni prima dal nonno Nicholas e dal padre James: il suo faro oggi è ancora lì, a presidiare con il suo fascio di luce uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo. ∎
Blue Riband
Il “Nastro Azzurro dell’Atlantico” o “Blue Riband” è un trofeo che dal 1910 viene attribuito alle navi passeggeri che, in servizio regolare e senza rifornimenti, registrano il primato di velocità media nell’attraversamento dell’Atlantico da Est a Ovest, navigando contro la corrente del Golfo. Dal 1935, anno in cui il trofeo fu ufficializzato,[29] i punti di partenza e di arrivo per il calcolo della velocità media sono proprio il faro di Bishop Rock e, dall’altra parte dell’Atlantico, il faro di Ambrose nella baia di New York. Il regolamento prevede che la nave possa fregiarsi del nastro azzurro solo infrangendo il primato del precedente vincitore, il che rende via via più difficile ottenere il trofeo. L’ultimo “Blue Riband” da Est a Ovest è stato assegnato nel 1952 alla nave americana SS United States che registrò una velocità di 34,51 nodi (63,91 km/h) effettuando la traversata in 3 giorni, 12 ore e 12 minuti. Esisteva anche il record in senso contrario, detto “Eastbound”, considerato viceversa dal faro di Ambrose al faro di Bishop Rock: tale primato non dava però diritto al “Blue Riband”. Anche questo record è detenuto dalla United States con 65,91 km/h.
Note
- [1]Battaglia di Tolone del 1707, nell’ambito della guerra di successione spagnola. Eugenio di Savoia (Impero austriaco) tentò di prendere il porto francese di Tolone, con il supporto degli alleati Ducato di Savoia, Repubblica delle Sette Province Unite (più o meno gli attuali Pesi Bassi) e Gran Bretagna, ma gli alleati furono respinti dalle forze franco-spagnole.↩
- [2]La determinazione della longitudine è sempre stato uno dei grandi problemi della navigazione, risolto solo tra il XVIII ed il XIX secolo con la determinazione accurata delle effemeridi e la diffusione degli orologi “da marina” (strumento inventato da John Harrison nel 1759) che garantiva una sufficiente precisione anche con in presenza dei movimenti di rollio e beccheggio della nave. Cfr: “La travagliata storia della determinazione della longitudine.” Torino Scienza. (Provincia di Torino) e Murara, Marco “Il problema della longitudine (Prima parte).” Notiziario nº11, inverno 1998, “Il problema della longitudine (Seconda parte).” Notiziario nº12, primavera 1999 (Associazione Astrofili Trentini. Web. 15-12-2013.)↩
- [3](PDF) NCA 158: Isles of Scilly Key Facts & Data. Natural England. Pag. 2.↩
- [4]Nicholson, p.113 (op. cit.)↩
- [5]Dai registri Lloyd’s, (cfr.).↩
- [6]In effetti dai registri LLoyd’s risulta il naufragio di tre navi il 22 dicembre del 1667 (cfr).↩
- [7]Il terzo faro costruito in quel punto. Nel 1870 è stato smontato e trasportato a terra, a Plymouth, dove è tuttora conservato come edificio storico (noto come “Smeaton Tower”). Il faro attuale è il quarto, progettato da Douglass.↩
- [8]L’isola deve il nome ad un grande promontorio roccioso che protende verso ovest: Ros Veur, “grande promontorio” in lingua cornica.↩
- [9]I fari offshore (fuori costa) sono quelli circondati dall’acqua, ad esempio costruiti su uno scoglio o una secca.↩
- [10]T. Stevens, E. Cummings (in bibliografia)↩
- [11]Noto tra i colleghi come “il più sfortunato comandante della Compagnia”: tra le altre cose, la sua nuova nave prese fuoco poco dopo l’arrivo della sua amata. In seguito avrebbe perso la vita nel tragico naufragio del Nancy.↩
- [12]BBC (in bibliografia)↩
- [13]T. Stevens, Scillypedia (bibliografia)↩
- [14]Effetto probabilmente della suggestione e della pareidolia acustica.↩
- [15]Da Stevens, Todd. “The Nancy Packet“. Scillydivers.↩
- [16]Buoy Tender: un tipo di nave utilizzato per l’installazione e la manutenzione di fari, boe e segnali marittimi in genere.↩
- [17]Inclusa la “lanterna”, il locale finestrato che alloggia tutto l’apparato ottico del faro, alta 28 piedi (circa 8,5 m) e del diametro di 14 (oltre 4 metri).↩
- [18]250 chilogrammi circa.↩
- [19]La campana finì in pezzi sulle rocce sottostanti, uno dei frammenti fu ritrovato ed è conservato al museo di Trinity House.↩
- [20]Stainer, Peter. “The De Lank Granite Quarry.” Mining History: the bulletin of Peak District Mines Historical Society, Vol.13 n°2, Winter 1996: pag. 42-46. Web. 1-2-2014.↩
- [21]Un sistema analogo a quello che oggi, in edilizia, viene definito linea vita.↩
- [22]La manilla o “canapa di Manila” è una fibra tessile particolarmente resistente all’acqua salata, e per questo motivo utilizzata per la fabbricazione di funi ad uso nautico e reti da pesca. Si ottiene dalle foglie di abacà (Musa textilis).↩
- [23]La lampada aveva 6 bruciatori con un potenza complessiva di sedicimila candele.↩
- [24]La gru in grado di “crescere” con l’edificio è detta rising crane o climbing crane (gru rampante).↩
- [25]20 bruciatori a olio compustibile di tipo “Douglass” disposti su due livelli.↩
- [26]All’epoca per fare ruotare l’ottica dei fari venivano utilizzati motori ad orologeria, come quelli dei campanili. Il peso della nuova ottica era tale che fu necessario ricorrere ad un motore elettrico da 1/2 HP.↩
- [27]“Fog Horn Mk I”. Il segnale esplosivo è stato in seguito sostituito con un corno tradizionale, dismesso nel 2007.↩
- [28]Tag, Thomas. “The Lens at the Bishop Rock, England.” Hyper-radial Lenses. 30 gen. 2010. Web. 3-2-2014.↩
- [29]Su proposta del parlamentare britannico Harold Hales, per questo detto anche “Hales Trophy”.↩
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