Il mistero del Passo Djatlov

In Cultura popolare, Speciale Halloween di Alessio Lisi

passo-djatlov

Occorreva stare molto attenti per tenere a freno l’immaginazione,
ai piedi di quelle oscure Montagne della Follia. H.P. Lovecraft

LUnione Sovietica del 1959 era un impero con diversi volti che contendeva agli Stati Uniti la supremazia mondiale sul filo della costante minaccia nucleare. Per molti nel mondo essa era l’avanguardia comunista, il “Sol dell’avvenire” della classe operaia che avrebbe condotto l’umanità in una nuova era. Con sommo sconforto degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica aveva davvero inaugurato una nuova era della storia umana il 4 ottobre del 1957, quando aveva lanciato nello spazio il primo satellite artificiale chiamato Sputnik, che in russo significa “compagno di viaggio”. E sono proprio dieci “compagni di viaggio”, nonché amici, i protagonisti nel febbraio del 1959 di una triste storia avvolta nel mistero. Il ventitreenne Igor Alekseevič Djatlov, laureando della facoltà di radio ingegneria al Politecnico degli Urali, aveva organizzato una spedizione per dedicarsi allo sci di fondo e all’escursionismo con obiettivo il monte Otorten, sulla catena universalmente nota come il confine naturale tra Europa e Asia: gli Urali. Il nome “Otorten” nella lingua degli indigeni mansi significa “non andateci”, probabilmente perché è molto difficile da raggiungere durante la stagione invernale e quindi da evitare. In pieno inverno una spedizione del genere era a prescindere molto impegnativa, ma tutti i partecipanti erano sciatori ed escursionisti esperti e l’intenzione di Djatlov era di allenarsi per una ben più difficile spedizione artica. Nell’Unione Sovietica di allora lo sport era considerato dal regime un valido strumento di coesione sociale ed era fortemente incentivato nelle scuole e nelle università, tanto che tra i giovani il turismo derivante dallo sci era molto popolare. Lo sci turistico sovietico però non era ciò che saremmo portati a credere: niente stazioni sciistiche e abbigliamento alla moda come in Occidente, ma un’attività sportiva difficile e impegnativa sotto il controllo delle università e dello Stato al fine di poterla adattare a esigenze militari.

sciatori di fondo in un francobollo sovietico

Lo sci di fondo celebrato in un francobollo sovietico.

Fu così che in onore del ventunesimo congresso del Partito Comunista programmato a Mosca dal 27 gennaio al 5 febbraio, per nulla intimorito dalla sinistra toponomastica mansi, Djatlov partì in treno il 25 gennaio 1959 dalla cittadina russa di Sverdlovsk — oggi Ekaterinburg[1] — e con lui la compagna Zinaida Kolmogorova (22 anni, studentessa di radio ingegneria) insieme a Ljudmila Dubinina (23 anni, studentessa di ingegneria ed economia), Aleksandr Kolevatov (24 anni, studente di fisica tecnica con ampio curriculum), Jurij Dorošenko (21 anni, studente) e Jurij Judin (22 anni, studente di ingegneria ed economia), tutti studenti del Politecnico degli Urali, più Rustem Slobodin (23 anni, ingegnere), Jurij Krivoniščenko (24 anni, ingegnere detto anche “Georgij”), Nikolaj Thibeaux-Brignolles (24 anni, ingegnere civile, figlio di un comunista francese emigrato in Russia e poi ucciso dal regime staliniano) e Aleksandr Zolotarëv (38 anni, ex soldato nonché esperta guida).[2]

La spedizione Djatlov

Il viaggio della spedizione Djatlov verso il Cholat Sjachl.

Arrivati a Ivdel’ i dieci amici proseguirono con un furgone fino a Vijay, l’ultimo centro abitato prima della natura selvaggia. Il 27 gennaio la spedizione partì alla volta del monte Otorten, ma appena il giorno dopo Jurij Judin si ammalò e non fu in grado di proseguire oltre; Djatlov promise a Judin che avrebbe mandato una lettera al loro club sportivo non appena fossero tornati dal viaggio, ma quella lettera non arrivò mai. Il gruppo proseguì nella sua marcia arrivando il 31 gennaio sul versante orientale del monte Cholat Sjachl,[3] che nella lingua mansi significa “montagna dei morti”.[4]

Il passo del Cholat Sjachl, sugli Urali.

Il 1 febbraio si incamminarono per superare il passo montano, ma una tempesta di neve causò scarsa visibilità e il gruppo perse l’orientamento finendo per dirigersi a ovest verso la cima; appurato l’errore i nove decisero di piantare le tende a 300 metri dalla vetta per accamparsi e sperare in condizioni meteo più favorevoli per il giorno dopo, che coincideva con il trentottesimo compleanno di Aleksandr Zolotarëv. Fu nella notte tra il 1 e il 2 febbraio che avvenne la tragedia. Giorni dopo la teorica conclusione della spedizione, prevista al più tardi per il 12 febbraio,[5] i familiari non avevano ancora notizie e il 20 febbraio si organizzò una prima spedizione di studenti e professori volontari che non ebbe esito. Furono quindi allertate le autorità che iniziarono le ricerche il 22 febbraio e grazie ai mezzi aerei individuarono, il 26 febbraio, i resti dell’accampamento.

i soccorritori ritrovano i resti dell'accampamento

Il ritrovamento dei resti dell’accampamento.

Nel fascicolo di chiusura indagine si affermava che «una forza naturale si è presentata come causa della loro morte, (una forza) che le persone non erano nelle condizioni di superare»…

Una volta raggiunto il sito, i militari[6] si trovarono di fronte ad una scena sconcertante: la tenda era stata lacerata dall’interno senza sciogliere i nodi dell’ingresso e con all’interno tutte le attrezzature tra cui scarpe, vestiti, diari sui quali l’ultima data appuntata era quella del primo di febbraio e macchine fotografiche; tutt’intorno le uniche orme erano quelle dei nove giovani. Seguendo le tracce furono ritrovati i prime due corpi: Jurij Krivoniščenko e Jurij Dorošenko giacevano semi nudi nella neve sotto a un pino. Sotto l’albero vi erano i residui di un fuoco a testimonianza che avevano provato a scaldarsi, ma sulla corteccia del pino furono ritrovati brandelli di carne e i rami erano spezzati fino a un’altezza di 4 metri e mezzo. I due uomini avevano quindi tentato di salire sull’albero per sfuggire a qualcosa? A distanze diverse tra la tenda e il pino furono ritrovati i corpi di Igor Djatlov, Zinaida Kolmogorova e Rustem Slobodin: la loro posizione lasciò intendere che stavano tentando di rientrare al campo. All’appello però mancavano ancora quattro fondisti: furono ritrovati solo due mesi dopo, il 4 maggio, sepolti sotto quattro metri di neve in una gola scavata da un torrente nel bosco. I corpi riportavano gravi traumi e fratture interne simili a quelle provocate dagli incidenti stradali, inoltre il corpo di Ljudmila fu ritrovato senza lingua. Nel fascicolo di chiusura indagine si affermava che «una forza naturale si è presentata come causa della loro morte, [una forza] che le persone non erano nelle condizioni di superare» e per questo motivo le autorità opteranno per l’interdizione del passo a sciatori ed escursionisti dilettanti.

Ritrovamento del corpo di Rustem Slobodin.

Ritrovamento del corpo di Rustem Slobodin, sepolto sotto la neve.

Il passo del Cholat Sjachl fu ribattezzato Passo Djatlov in memoria del capo spedizione. Da allora le più diverse e fantasiose ipotesi sono state fatte su ciò che è davvero accaduto quella tragica notte. A fomentare le speculazioni furono alcuni dettagli “insoliti” come la tenda chiusa ma lacerata dall’interno a indicare una fuga precipitosa da qualcosa, un qualcosa che forse era già nella tenda; alcuni avevano tentato di salire sull’albero magari per trovare riparo da una minaccia, ma non vi erano impronte di animali; le orme degli sciatori furono ritrovate intatte dopo un mese mentre i corpi erano ricoperti di neve; qualcuno indossava abiti di altri e furono rilevate tracce di radioattività su alcuni indumenti; solo quattro avevano riportato ferite e fratture gravi e uno aveva una frattura sul cranio; i cadaveri presentavano un avanzato stato di decomposizione nonostante le gelide temperature e uno “strano” colorito arancio. Infine, un altro gruppo di sciatori ricorda quella notte di aver visto delle sfere arancioni nel cielo. Per spiegare tutto ciò c’è chi ha parlato di un esperimento nucleare; chi di un esperimento militare segreto; chi di ipotetici alieni; chi di un attacco degli indigeni mansi e chi di un’antica maledizione; praticamente vi è tutto un ampio catalogo delle più fantasiose teorie tanto che l’incidente ha ispirato un film dal titolo Devil’s Pass (2013). Di recente l’autore americano Donnie Eichar ha esposto in un libro la sua ipotesti per spiegare il mistero: le particolari condizioni climatiche e di conformazione della montagna avrebbe prodotto dei “mini–tornado” e con essi degli infrasuoni, quei suoni non udibili dall’orecchio umano perché inferiori ai 20 Hz di frequenza ma che possono indurre stati di ansia, malessere e anche alterazioni della vista; sarebbe stata quindi l’ansia causata dagli infrasuoni a spaventare i giovani spingendoli a scappare in fretta e furia dalla tenda nonostante il freddo intenso.

"At the Mountains of Madness & others novels by H.P. Lovecraft", illustrazione di copertina di Lee Brown Coye (Arkham House, 1964)

Illustrazione di Lee Brown Coye per la prima edizione di Alle montagne della follia di HP Lovecraft” (Arkham House, 1964).

Ma il Cholat Sjachl può davvero essere un «regno di paura e di orrore», come le montagne della follia di H.P. Lovecraft? La risposta dipende da ciò in cui si vuol credere. Non potremo mai sapere la verità con certezza su ciò che accadde quella notte, a tanti anni di distanza e senza ulteriori elementi rispetto a quelli già noti, ma il rasoio di Occam[7] porta a concludere che non sia il caso di scomodare antichi alieni o forze misteriose. La tragedia del Cholat Sjachl può essere stata provocata, molto più banalmente, dalla paura di una valanga che in questo caso rappresenta il classico “elefante nella stanza”, un’espressione della lingua inglese[8] per indicare una verità palese che viene ignorata. L’eco di una valanga nelle vicinanze, o il movimento sussultorio causato dalla stessa, avrebbe indotto il gruppo a sentirsi in imminente pericolo, tanto da squarciare la tenda per scappare dalla valanga in preda al panico. Superata la paura si accorsero di essere esposti a temperature di meno trenta gradi Celsius senza adeguata copertura; accesero un fuoco e qualcuno si arrampicò sull’albero per cercare di rintracciare l’accampamento nonostante la notte e la tempesta di neve; alcuni cercarono di tornare all’accampamento ma morirono di ipotermia a duecento metri l’uno dall’altro; i superstiti recuperarano dei vestiti per aumentare le possibilità di sopravvivenza ma finirono per precipitare nella gola, l’altezza era di circa dieci metri, e anche loro morirono a poca distanza gli uni dagli altri per via delle ferite riportate.

Lancio di un R-7.

Lancio di un R-7.

E tutti gli altri elementi strani della vicenda? Anche per essi c’è una spiegazione razionale. L’aver ritrovato le orme dopo un mese mentre i corpi erano ricoperti di neve è un fenomeno tutt’altro che raro, dovuto alle dinamiche dei venti e delle nevicate; il colorito arancio così come lo stato di decomposizione è normale nelle vittime di montagna; la radioattività rinvenuta sugli abiti era minima e perfettamente compatibile con la radioattività cui potevano essere stati esposti gli studenti durante le attività di laboratorio; la mancanza della lingua di una vittima è riconducibile alla decomposizione o forse a qualche animale. Le sfere arancioni nel cielo erano i test del missile balistico R-7 “Semërka”[9] entrato in servizio operativo proprio in quei giorni al cosmodromo di Plesetsk; il ritrovamento di corpi semi nudi può essere dovuto all’undressing paradossale: il corpo reagisce all’ipotermina con una vasocostrizione al fine di concentrare il sangue negli organi vitali, questo può causare nella vittima la sensazione improvvisa di caldo che induce a spogliarsi peggiorando la situazione, fino a causare la morte in poco tempo. Jurij Judin, l’unico sopravvissuto della spedizione, ha passato la sua vita a chiedersi cosa sia successo quella notte ai suoi amici: anche se non sarà molto di conforto, la spiegazione più plausibile è che si sia trattato di tanta sfortuna.

Monumento alle vittime del Passo Djatlov nel cimitero di Ekaterinburg.

Monumento collettivo alle vittime del Passo Djatlov, nel cimitero Mikhajlov di Ekaterinburg .

Note

  1. [1]Tra il 1924 e il 1991 la città di Ekaterinburg fu rinominata Sverdlovsk (Свердловск) in onore del leader bolscevico Jakov Michajlovič Sverdlov; la denominazione è tuttora usata dalle ferrovie russe e l’oblast’ di cui la città è capoluogo ha mantenuto il nome di Oblast’ di Sverdlovsk.
  2. [2]In realtà il suo nome era Semyon ma si presentava agli altri come Aleksandr.
  3. [3]O anche Cholatčachl’.
  4. [4]Altre traduzioni sono anche “montagna morta” o “montagna della morte”, probabilmente dovuto al fatto che sia priva di vegetazione e cacciagione.
  5. [5]Il ritardo è fisiologico in questo tipo di spedizione per cui l’allarme non fu dato subito.
  6. [6]Dell’esercito e della milizia sovietica.
  7. [7]Il principio teorizzato da Guglielmo di Ockham per il quale a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire.
  8. [8]In inglese: elephant in the room.
  9. [9]La versione lanciatore “Vostok” di questo missile collocò in orbita il 4 ottobre 1957 il primo satellite artificiale creato dall’uomo, lo Sputnik 1.

Bibliografia e fonti

Over de auteur

Alessio Lisi

Facebook

Tarantino di nascita e pavese di adozione. Il resto è coperto dal segreto di stato dell'isola di Laputa.