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(s.f.) regionalismo toscano e romagnolo, bottega dove si vende l’occorrente per verniciare e dipingere e piccoli utensili per la casa; colorificio, negozio di belle arti. Deriva da mestica, impasto di vari colori da stendere sulla tela prima di dipingere, seguite dal suffisso derivativo —erìa tipico dei nomi di negozi, botteghe e laboratori artigianali. Il termine mestica o mesticanza[1] in toscano significa “mescolanza”, da mesticciare, “mischiare”, “confondere”, probabilmente dal latino miscere (da cui anche mescere). Il negoziante della mesticherìa è detto mesticatore o mestichiere.

Foto in alto: insegna di una “mesticheria” a Bologna.


  1. [1]Quest’ultimo in particolare a Pisa, cfr. Pianigiani (op. cit.).
  • mestica” in Pianigiani, Ottorino Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana, 1907.
  • mesticheria” in Vocabolario online. Treccani.
  • mesticheria” in Dizionario Italiano. La Repubblica.

Foto: © Silvio Dell’Acqua, opera propria.

(o “mezzerìa”) contratto agricolo che prevedeva la conduzione di un fondo altrui da parte di un “mezzadro” e la ripartizione dei prodotti e degli utili con il concedente. Il termine mezzadria deriva appunto da mezzadro, a sua volta dal tardo latino medietarius, da medietas, “mezzo”, “metà”, perché divideva a metà il raccolto con il proprietario.

Il mezzadro, detto anche mezzaiuolo o colono, era il capo e rappresentante di una “famiglia mezzadrile” (o “colonica“), la quale interveniva in solido nel contratto conducendo un fondo altrui e dividendo prodotti e utili con il concedente o “padrone“, ossia il proprietario del fondo che manteneva la direzione dell’azienda agricola. L’istituto della mezzadria risale alla fine dell’Impero Romano come altri sistemi di ripartizione agraria ed era un tipo particolare di colonia parziaria, ossia un contratto associativo tra un proprietario e uno o più coloni che prevedeva la suddivisione dei prodotti e spese di produzione. Nella mezzadria la ripartizione era solitamente a metà tra la famiglia colonica e il padrone, ma poteva prevedere quote differenti. Il “podere“, ossia il fondo, doveva comprendere una abitazione per il mezzadro ed essere diversificato (es: prato, bosco, vigna) in modo da garantire l’autosufficienza della famiglia mezzadrile. All’inizio del contratto il mezzadro riceveva oltre al podere l’imprestazione o prestanza; una quantità di denaro, beni di prima necessità, alimenti per la famiglia e per il bestiame che dovevano essere restituiti nella medesima quantità alla fine del periodo di conduzione. Il contratto poteva inoltre prevedere per la famiglia colonica una serie di obblighi nei confronti del padrone come la pulizia, il bucato, servizi di trasporto o di assistenza in caso di malattia. Stante l’elevato divario sociale tra le due figure, il padrone ed il mezzadro, spesso era presente una figura di agente che fungeva da intermediario.

In Italia l’istituto della mezzadria è stato abolito nel 1964 con la Legge 756  del 15/9/1964 che vietava la stipula di nuovi contratti di mezzadria, colonia parziaria o soccida, mentre la legge 3 maggio 1982, n. 203, prevedeva la conversione di quelli esistenti in contratti di affitto a coltivatore diretto, dietro richiesta di anche una sola delle parti.

In alto: La mezzadria, dipinto di Bruno Faldi (inizi del Novecento).


  • mezzadro” in Pianigiani, Ottorino Vocabolario etimologico della lingua italiana, 1907. <etimo.it>
  • Carrara, Giovanni. “mezzadria” in Enciclopedia Italiana — II Appendice. Treccani, 1949. <treccani.it>
  • La Mezzadria: una lunga storia della nostra terra“, a cura del Museo dell’Agricoltura di Torino, in Agricoltura Online. Regione Piemonte. 19/4/2019. Web.
  • mezzadria” in Dizionario di Storia. Treccani, 2010. <treccani.it>
  • mezzadria” in Enciclopedia online. Treccani. Web.
  • colonia parziaria”  in Enciclopedia online. Treccani. Web.

Immagine: [PD] Commons.

affatto, minimamente, per niente, nel linguaggio parlato è usato:

  1. come rafforzativo di una negazione (es. «non voglio mica la Luna»), anche con ellissi della stessa («[non è] mica vero!»);
  2. sostitutivo di non in una litote, ossia una negazione che serve ad affermare un giudizio positivo (es. «mica male!» invece di «non male!»).
  3. nelle frasi dubitative o interrogative (es. «l’hai mica visto?» con il significato di per caso).

Deriva dal latino MICA, “briciola di pane”, a significare un nonnulla, una parte insignificante, «nemmeno una briciola»; per estensione ha assunto il significato di affatto, per niente. Di uso molto antico (XIII secolo), ha avuto maggiore diffusione nella lingua parlata e nei dialetti settentrionali, dove è utilizzato come avverbio di negazione:

Es.  il minga milanese, lariano e brianzolo:

l’è minga vèra che un tuscanèll
l’è minga bòn de fa una puesìa
[non] è mica vero che un toscanello
[non] è mica capace di fare una poesia


Pulenta e Galena Fregia, Davide Van De Sfroos (1999)

In pavese e mantovano si dice invece mia:

…e po’ s’al gh à voia da laorar l’è mia pecà
…e poi se ha voglia di lavorare [non] è mica peccato!


Artemide in Al mort in d’larmari — giallo nostrano in dialetto mantovano di Augusto Morselli (1983)


Immagine: © ammza12/Depositphotos

(/mi’ljø/) ambiente sociale, contesto specie in senso sociale e culturale, voce adottata dal francese. Attestato in italiano dal 1905, deriva dal francese milieu di uguale significato, attestato in questo senso dal 1845; a sua volta dal medio francese milieu (XII secolo) con il significato di “metà” (es: «au Milieu du Xe siécle») “mediano”, “intermedio”, “luogo nel mezzo”. Composto di mi, “mezzo” (dal latino medius) e lieu (“luogo”, dal latino locum). In Francia il termine le Milieu è oggi anche utilizzato per indicare una organizzazione o gang criminale (es: il milieu marsigliese, il milieu corso, il milieu parigino…).


  • milieu” in il Sabatini Coletti Dizionario della lingua italiana.
  • [en] “milieu” in Online Etymology Dictionary, Douglas Harper.
  • Pacella M. “Mafia a la française” 4/9/2016. Web.

In alto: condominio a Montréal, QC, Canada, 2023; foto di Danielle-Claude Bélanger su Unsplash


caffettiera tipo moka
, macchina per il caffé espresso per uso domestico. Il termine deriva dal nome della Moka Express® Bialetti, prima macchina di questo tipo ideata da Luigi De Ponti e Alfonso Bialetti nel 1933 e tuttora in produzione sostanzialmente invariata. Per antonomasia moka è diventato, nell’uso corrente, il nome comune per le caffettiere “tipo moka” anche di altri modelli e produttori. Il nome Moka® fu ispirato da una pregiata varietà di caffé noto appunto come “moka” (o “moca”), una variante della selezione “arabica” proveniente dallo Yemen. A sua volta il caffè “moka” deve il nome alla città yemenita di Mokhā (in arabo: المخا‎, al-Mukhā) sul Mar Rosso, il più importante mercato per il caffè dal XV al XVII secolo.

Moka Express® Bialetti 


Mokhā nel XVIII secolo in una incisione di Olfert Dapper, 1680


Foto in alto: ninocare/Pixabay.

animazione, vita notturna giovanile all’interno di una città: prestito dallo spagnolo, si tratta della forma femminile sostantivata dell’aggettivo movido, “movimentato”. Il termine deriva dalla Movida madrileña (lett. “animazione madrilena”), un movimento culturale iconoclasta sviluppatosi spontaneamente a Madrid tra il 1975 e la fine degli anni ’80 (con strascichi fino agli anni ’90). Con la fine del franchismo, caratterizzato tra l’altro dall’istituzionalizzazione di un cattolicesimo bigotto e retrogrado, cessarono sì le repressioni politiche, ma anche quelle morali e culturali: l’alcol, le droghe e la libertà sessuale non erano più un tabù, la marijuana era legale (fino al 1992); i madrileni si riversarono nelle strade riscoprendo il piacere di fare baldoria. Sebbene includesse ogni abuso edonista immaginabile, la movida non si ridusse ad “uscire per bere” (e drogarsi) ma divenne espressione di una libertà di pensiero che travolse la capitale spagnola ispirando numerosi artisti, tra i quali il regista Pedro Almodóvar, la stilista Agata Ruiz De la Prada, l’artista Andy Warhol e numerosi gruppi rock e synthpop (come gli Alaska e Dinarama). Uno dei maggiori sostenitori della movida fu l’ex professore universitario di orientamento socialista Enrique Tierno Galvan, conosciuto affettuosamente come il “viejo profesor”, convinto oppositore del regime ai tempi di Franco che nel 1979 divenne sindaco di Madrid. Fu però solo dopo il 1984 che la politica locale intuì le potenzialità (anche economiche) della movida e se ne appropriò, incentivandola come simbolo di modernità, di democrazia e di una nuova identità cittadina. Esaurito gradualmente il significato politico dalla fine degli anni ’80, la movida è rimasta un’usanza caratteristica della capitale spagnola: nel libro Sólo se vive una vez: esplendor y ruina de la movida madrileña (2013), José Luis Gallero conclude che «ciò che è rimasto è l’abitudine ad uscire per bere e conversare.»

Il termine movida, ancora utilizzato a Madrid per indicare le notti trascorse tra un locale e l’altro, si è esteso alla vita notturna di altre città spagnole e dagli inizi degli anni’90 anche alla lingua italiana, come testimonia il dizionario di neologismi del 1992 Le parole degli anni Novanta (di A. Bencini ed E. Citernesi, Le Monnier), ad indicare, genericamente, la movimentata vita notturna di una città:

Decreto sicurezza, multe e Daspo a chi abusa della movida

Corriere della Sera, 13 giugno 2016 



Foto: Madrid nel 1980 [CC-BY-SA 4.0] Archivio Paolo Monti/European Library of Information and Culture/Commons.

 

(s.f. – abbreviato “MC”) supporto fonografico a nastro magnetico, noto anche come audiocassetta o cassetta, conforme allo standard “Compact Cassette” lanciato dalla Philips nel 1963. Molto popolare tra gli anni ’70 e ’90 del XX secolo, era costituito da due bobine racchiuse dentro un guscio protettivo in plastica; potevano essere acquistate preregistrate o “vergini”, ossia registrabili dall’utente. Oltre alla musica poteva contenere registrazioni personali o dati (usata in combinazione con i primi home computer). Grazie alle dimensioni ridotte ed alla semplicità meccanica, la musicassetta rese possibile negli anni ’80 la commercializzazione dei primi sistemi di riproduzione stereofonica portatile, noti come “walkman” (dal Sony Walkman®, il primo e più diffuso apparecchio di questo tipo). Il basso costo e la semplicità d’uso ne decretarono il successo nonostante la qualità del suono inferiore rispetto ad altri supporti (dischi in vinile, poi compact disc). Le cassette furono gradualmente soppiantate dai dischi ottici scrivibili (a partire dagli anni ’90) e dalle memorie digitali.


Immagine in alto: pcdazero/Pixabay

il sistema sanitario nazionale italiano (dall’abbreviazione di cassa mutua). Le “casse mutue” erano gli enti che provvedevano all’assicurazione sanitaria pubblica per ciascuna categoria di lavoratori e che, nell’insieme, costituivano il servizio assistenziale e sanitario italiano (ad esempio l’INAM, “Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie”). L’aggettivo mutuo (dal latino mutuus, “dato in cambio”) si riferisce alla “mutualità” tra i lavoratori di una categoria che, versando una quota in denaro, si garantivano la “mutua”, ossia reciproca, assistenza. Il diritto alla tutela della salute non era quindi assicurato a tutti i cittadini ma solo agli iscritti alla cassa mutua, quindi i lavoratori (obbligatoriamente iscritti) ed i loro familiari a carico: l’espressione “essere iscritti alla mutua” indicava la possibilità di usufruire di una assicurazione sanitaria pubblica. Con la legge 180 del 1978, nota come “Legge Basaglia”, tutti i servizi sanitari erogati dalle casse mutue confluirono nel servizio sanitario nazionale che continuò per abitudine ad essere chiamato popolarmente mùtua, termine sopravvissuto per moltissimo tempo e tuttora usato per riferirsi alla sanità pubblica. Il “medico della mutua” era il medico convenzionato con un ente mutualistico cui dovevano rivolgersi i “mutuati”, ovvero i pazienti iscritti ad una cassa; l’espressione fu poi impropriamente trasferita al medico di medicina generale o “di famiglia”. Nell’inadeguatezza dell’Italia repubblicana del boom economico, le logiche prettamente assicurative e burocratiche di tali enti, unite ai meccanismi di raccomandazione e corruzione che li regolavano, portarono ad un servizio di scarsa qualità e ad una «deriva etica della classe medica» (Luzzi, p. 237) più interessata al profitto che ai pazienti. La figura del “medico della mutua” assunse di conseguenza, nell’immaginario collettivo, la caratterizzazione negativa del medico cinico ed opportunista, stigmatizzata nel romanzo di Giuseppe D’Agata Il medico della mutua (1964) da cui fu tratto l’omonimo film–commedia del 1968, magistralmente interpretato da Alberto Sordi e diretto da Luigi Zampa. L’espressione “— della mutua” divenne una metàfora colloquiale per indicare qualcuno di dubbia capacità (es. “arbitro della mutua”) o anche qualcosa di qualità scadente.

Dal termine “mutua” derivarono alcuni termini ed espressioni idiomatiche nel parlato popolare:

  • andare alla mutua: rivolgersi al servizio sanitario pubblico per una visita o una prestazione; recarsi presso sedi o uffici del servizio sanitario pubblico (es. «andare alla mutua a fare la coda»).
  • avere la mutua: essere iscritti, usufruire ad una cassa previdenziale;
  • mettersi in mutua: assentarsi dal lavoro per motivi di salute (es. «mi metto in mutua quando sono a casa e ho la febbre» da Storie di ordinaria disoccupazione, pag. 145.)
  • lo/la passa la mutua: detto di un costo totalmente o parzialmente coperto dal servizio sanitario nazionale o mutualistico (es. «Questo farmaco lo passa la mutua»).
  • mutuabile: rimborsabile dal servizio sanitario nazionale o mutualistico.
  • mutuato: assistito dal servizio sanitario nazionale, sostantivo (es. «i mutuati») o aggettivo (es. «paziente mutuato»).
  • quello che passa la mutua: metaforicamente, ciò che è disponibile, di cui ci si deve accontentare, “quello che passa il convento” (es. «accontentarsi di quello che passa la mutua»).

Foto: Alberto Sordi e Claudia Giannotti nel film Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue del 1969 (diretto da Luciano Salce), “sequel” de Il medico della Mutua del 1968 tratto dal romanzo di G. D’Agata.