Baldàsi e trasüdeciùc: i colori brutti nel dialetto lombardo

In Dal mondo di Silvio DellʼAcqua

Il dialetto lombardo occidentale, quello della celebre cadrega assurta agli onori del lessico politico e giornalistico, ha due pittoresche espressioni che non trovano corrispondenza in italiano e che si riferiscono ai colori indefiniti. Non stiamo parlando di tonalità che necessitano ulteriore specificazione rispetto al colore di base più vicino, come “verde malva” o “grigio cenere”, ma proprio di nomi “trasversali” per colori imprecisati, anche molto diversi da loro ma accomunati dall’essere brutti, sgradevoli o insignificanti. Ma se per un generico colore “brutto” basterebbe un solo aggettivo, il dialetto lombardo si conferma molto preciso nel descrivere le umane disgrazie, facendo distinzione tra un colore sì indefinito, ma più sul viola – il color trasüdeciuck – da uno altrettanto vago ma più sui toni più neutri del grigio, del beige o del marroncino – il color baldàsi “aka” cancascàpa. E con diversa sfumatura di bruttezza: mentre il primo è solitamente un colore vistoso e sguaiato, il secondo è preferito per descrivere tinte più insulse e banali. Nelle sfumature intermedie tra i due estremi di questa infame scala cromatica, sta alla fantasia del parlante collocare come meglio crede il colore che si vuole descrivere.

scala baldasi-trasudeciuk

Trasüdeciùc

Stranamente un gelato color trasüdeciuc non risulta particolarmente invitante.

Il trasüdeciùc (o trasüd’ciùc o trasüdeciòc a seconda delle varianti locali) è il nome comune di una gamma indefinita di colori che ha il centro della propria gaussiana, se così possiamo dire, nei toni del color viola o “vinaccia”: deriva infatti dalla contrazione di trasü de ciùck, locuzione che nel dialetto lombardo significa letteralmente “rigurgito di ubriaco”. Il trasüdeciùck può essere quindi preferibilmente un colore violaceo non particolarmente gradevole, ma anche qualunque altro colore caratterizzato dall’essere indefinibile, o ancora un accostamento improbabile, una cacocromìa (dal greco κακός, “cattivo”, non da “cacare” che pure potrebbe sembrare appropriato), un rivoltante guazzabuglio di colori come può esserlo appunto l’emesi dell’avvinazzato che ha ingurgitato troppo barbera e lo ripropone parzialmente digerito, magari insieme al resto della cena. Se state dicendo ad una persona che il suo maglione è color trasüdeciùc, va da sè che non le state facendo un complimento.


Baldàsi e cancascàpa

Fiat Ritmo beige

Un tipico colore baldàsi: la Fiat Ritmo “beige daino” (cod. 553) dei primi anni ’80. Nelle intenzioni del centro stile doveva essere un colore elegante, che ricordava «i cappotti buoni della domenica».[1]

Il baldàsi sembra essere un termine più segnatamente pavese e differisce dal trasüdeciùc in quanto indica un colore più anonimo e insipido, che di per sé sgradevole. E proprio per questo, pur essendo anch’esso indefinito ed applicabile ad una gran varietà di colori, è più adatto a descrivere toni neutri come il marroncino, il grigio, il beige, il tortora e simili. Il termine deriva anch’esso da una contrazione, questa volta della locuzione bal d’āsi, che significa “palle (nel senso di testicoli) d’asino”. L’origine di tale accostamento è evidente: i testicoli, penzolanti e sballottati con i movimenti del corpo, nel linguaggio popolare sono divenuti metafora di persona inetta o sciocca (accostamento che si ravvede anche nel termine “coglione”); allo stesso modo il colore baldàsi è un colore “sciocco”, insignificante. Ancor di più se detti ammennicoli appartengono all’asino, considerato animale stupido per eccellenza nell’immaginario collettivo. Sebbene raro, viene talvolta italianizzato in baldasio, che resta però un localismo strettamente pavese. Classici colori definiti “baldasio” furono quelle tinte pastello, tra il beige opaco ed il marroncino “zuppa di fagioli”, offerte su alcune utilitarie negli anni ’70 / ’80, come la A112 o le Fiat 127 e Ritmo.

Nel pavese e lodigiano il baldàsi è detto anche cancascàpa, letteralmente “cane che scappa”. L’espressione dà contezza della sua indefinibilità: un cane che scappa può essere di qualunque colore e tampoco importa quale, dato che scomparirà velocemente alla vista. Ma forse l’etimologia è analoga a quella di baldàsi. Nella pragmatica civiltà contadina il cane era una necessità più che un vezzo; la sua funzione non era tanto di compagnia quanto di fare guardia, aiutare i pastori transumanti a tenere il gregge o i cacciatori a recuperare la preda. Ne consegue quindi che un cane pavido, che si dà alla fuga, viene meno alla sua funzione ed è quindi di scarsa utilità: è insignificante, privo di valore. Fuggendo mostra inoltre le terga, quindi le “balle”: come nel baldàsi, il riferimento pare essere quindi alle gonadi di un animale stupido, il cui colore – esibito durante una fuga ignominiosa –  non può essere che privo di senso.

D’altronde – senza addentrarci nel concetto di relatività linguisitica – se è vero che la lingua riflette l’esperienza, il dialetto lombardo rispecchia una quotidianità rurale più vicina ad asini ed osterie, che ai nomi evocativi dei colori à la mode.

  1. I super colori” in Fiat Ritmo Super. Web.
L'autore

Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.