«Eravamo alla frontiera con la macchina bloccata, ma lui [il rock, ndr] ce l’avrà fatta la musica è passata» cantava Ivano Fossati nel 1979. E il rock ce l’ha fatta davvero, ha penetrato la cortina di ferro della guerra fredda e -a volte osteggiato, a volte tollerato- si è creato un proprio spazio nella cultura giovanile di quell’universo parallelo che era il blocco sovietico. Gli umori alterni della minaccia atomica decretavano il grado di chiusura verso l’occidente ed i giovani rocker si arrangiavano come potevano incidendo i dischi sulla lastre delle radiografie (le cosiddette “costole”), il materiale più simile al vinile allora disponibile, “recuperate” presso gli ospedali. Gli umori del partito invece influivano sul grado di legalità delle rock band, che passavano dalla messa al bando alla tolleranza da parte del regime. La Melodiya, ente sovietico per il diritto d’autore (che ricorda tanto la nostrana SIAE…) ed unica casa discografica del paese vessava i gruppi giovanili con assurde imposizioni volte a beneficiare gli autori membri della nomenklatura. Nonostante ciò, il rock è riuscito ad insinuarsi come un virus e portare avanti la propria modesta rivoluzione, dalle “costole” ai grandi festival che hanno portato un po’ di colore ad un mondo che il nostro immaginario occidentale vorrebbe così forzosamente uniformato. A raccontarcelo è Artemy Troitsky, nato a Mosca, il più importante esperto, promotore e critico di musica rock in Russia. Libro fuori catalogo, purtroppo difficile da trovare.
Silvio Dell’Acqua
Andrey Makarevich – Flag Over the Castle