"Orfeo guida Euridice dall'aldilà", dipinto di Jean-Baptiste Camille Corot (1861)

Orfeo, ma perché ti sei voltato? Breve indagine semiseria sulla catabasi d’amore.

In Arte, Cultura di Andrea Panigada

"Orfeo guida Euridice dall'aldilà", dipinto di Jean-Baptiste Camille Corot (1861)

Orfeo guida Euridice dall’aldilà, dipinto di Jean-Baptiste Camille Corot (1861)

Musica e poesia, amore e duplice perdita, discesa agli inferi, disfatta e morte violenta. Poche favole assommano in sé tematiche così numerose e coinvolgenti: e sono quelle che hanno alimentato le letterature di tutti i tempi, poiché è nella letteratura e nella poesia soprattutto che il mito di Orfeo ha trovato la sua fonte di immortalità”.[1]
Il mito di Orfeo, di antichissime origini greche, è in effetti noto ai più, perlomeno per quanto attiene alla cosiddetta catabasi, ovvero la sua discesa agli Inferi.[2] È appena il  caso di ricordare la vicenda: Orfeo è un bel giovane, valentissimo poeta e musicista, talmente dotato da ammansire con la sua cetra le belve feroci.[3] Sposato con la bellissima Euridice, la perde a causa del morso di un serpente. Dopo averla lungamente pianta, non rassegnandosi alla perdita subita, scende nel Regno delle ombre e con la sua musica riesce a toccare i gelidi cuori di Ade e Persefone, che gli consentono di riportare in vita l’amata fanciulla, a patto che egli non si volti a guardarla fino a quando i due saranno tornati tra i vivi. La coppia affronta quindi il lungo e difficile viaggio di ritorno e già si intravede la luce che segna i confini del regno dei morti, quando Orfeo, mancando alla parola data, si volta e guarda Euridice, che immediatamente viene di nuovo inesorabilmente trascinata nella profondità della Terra.

La vita di Orfeo invece continua per finire poi comunque tragicamente, ma ciò non è argomento che ci riguardi. La nostra attenzione si sposta invece su una questione che, come vedremo, attraverso i secoli è stata di importanza tutt’altro che marginale, e della quale molti hanno cercato di venire a capo: perché diavolo Orfeo, ad un passo dal successo in un’impresa che mai prima di allora era riuscita ad alcuno, si gira rovinando tutto? Le fonti greche, perlomeno quelle giunte fino a noi, non ci sono di alcun aiuto: la catabasi viene menzionata, ma non il nome di Euridice, figuriamoci i motivi del disastro. Bisogna aspettare Virgilio, che riprende la vicenda nel IV libro delle Georgiche (I secolo a.C.), narrandola per bocca del pastore Aristeo:[4]

Iamque pedem referens casus evaserat omnes;
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
E già tornando sui suoi passi era fuggito a tutti i pericoli.
e Euridice, restituitagli, giungeva alle aure superne
seguendolo alle spalle, infatti tale era la condizione posta da Proserpina,
quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante,
invero perdonabile, se i mani sapessero perdonare.
Si fermò, e proprio sulla soglia della luce,
ahi immemore! vinto nell’animo si volse a guardare le sua Euridice.
Allora, gettata al vento tutta la fatica e infranti i crudeli patti del tiranno,
tre volte si udì un fragore dagli stagni dell’Averno.[5]


"Orfeo, Euridice ed Aristeo" di Jacopo del Sellaio (XV secolo)

Orfeo, Euridice ed Aristeo di Jacopo del Sellaio (XV secolo)

La spiegazione che suggerisce Virgilio è quindi un’improvvisa quanto inspiegabile follia, o forse, più banalmente, Orfeo ha dimenticato gli impegni presi, un errore umano che vanifica tutti gli sforzi fatti, facendo sfumare un sicuro lieto fine in tragedia. Sarà anche stato un dio con la cetra, ma per il resto non doveva essere propriamente una “cima”… Ovidio nel  capitolo X delle Metamorfosi (8 d.C.) suggerisce però una lettura diversa:

Hanc simul et legem Rhodopeius accipit heros,
ne flectat retro sua lumina, donec Avernas,
exierit valles; aut inrita dona futura.
Carpitur adclivis per muta silentia trames,
arduus, obscurus, caligine densus opaca,
nec procul afuerunt telluris margine summae:
hic, ne deficeret, metuens avidusque videndi
flexit amans oculos, et protinus illa relapsa est,
bracchiaque intendens prendique et prendere certans
nil nisi cedentes infelix arripit auras.
La ricevette l’eroe Orfeo, insieme ad una condizione:
di non volgere indietro lo sguardo finché non fosse
uscito dalle valli dell’Averno; o il dono sarebbe stato vano.
Prendono, attraverso il silenzio, un sentiero
arduo, oscuro, denso, coperto di caligine,
e non erano lontani dalla superficie terrestre:
qui, temendo che gli venisse a mancare ed avido di vederla,
l’amante [Orfeo] volse indietro gli occhi, ed ella subito scivolò indietro,
e tendendo le braccia e cercando di afferrarla ed essene afferrato,
non prese altro che aria cedevole.[6]


Orfeo si volge perché teme. Ha paura che Euridice non lo stia seguendo, che i crudeli dei inferi si siano presi gioco di lui (dopotutto, la mitologia è piena di casi simili!) e che dietro alle sue spalle non sia l’amata, ma chissà quale ombra sconosciuta. Ma si volge anche perché amans, ossia per troppo amore, per l’impazienza irrefrenabile di rivedere l’amata. Il dubbio come spiegazione del gesto di Orfeo è piuttosto gettonato e si riaffaccia più volte nella storia, anche nella lirica, per esempio nell’Orfeo di Claudio Monteverdi (1607, libretto di A. Striglio): «Ma mentre io canto, ohimè, chi m’assicura che ella mi segua?».

Nell’Orfeo ed Euridice di C.W. Gluck (1762, libretto di R. De’ Calzabigi), altra opera lirica, si introduce però una novità:

Orfeo:
Vieni, segui i miei passi/unico amato oggetto/del fedele amor mio.

Euridice:
Sei tu! M’inganno?/Sogno?/Veglio?/Deliro?/[…] Come! Ma con quale arte?/Ma per qual via?

Orfeo:
Saprai tutto da me;/per ora non chieder più, meco t’affretta. […]

Euridice:
Non m’abbracci! Non parli!/Guardami almen! […]

Orfeo:
Andiamo,/mia diletta Euridice; or non è tempo/di queste tenerezze […]

Euridice:
Ma… un guardo solo…

Orfeo:
È sventura mirarti.

Euridice:
Ah infido!/E queste son l’accoglienze tue! mi nieghi un sguardo,/quando dal caro amante/e dal tenero sposo/aspettarmi io dovea gli amplessi e i baci!

Orfeo:
(Che barbaro martir!) Ma vieni e taci.

Euridice:
(ritira la mano con sdegno) Ch’io taccia! e questo ancora mi restava a soffrir! […] Rispondi, traditor!

Orfeo:
Ma vieni e taci.

Euridice:
No: più cara è a me la morte,/che di vivere con te […]

Orfeo:
(Più frenarmi non posso; a poco a poco/la ragion m’abbandona, oblio la legge,/ Euridice e me stesso E…) […]

Euridice:
Giusti dei, che m’avvenne Io… manco… io… mo… ro…


Orfeo in questo caso non si sbaglia, né dubita: è piuttosto l’insistenza molesta di Euridice a spingerlo a voltarsi,[7] forse perché preso – anche comprensibilmente, verrebbe da dire! – per sfinimento. Peraltro, anche il finale è innovativo: il dio Amore, considerando Orfeo il suo più fedele seguace, gli rende di nuovo l’amata sposa. Lieto fine, quindi. O forse no, chissà!

È però soprattutto nel corso del Novecento che la catabasi e le motivazioni del gesto di Orfeo sono maggiormente state oggetto di indagini e speculazioni. Ecco ad esempio la versione di Cesare Pavese in uno dei Dialoghi con Leucò[8] (1947). Orfeo parla con Bacca, una donna tracia:

Orfeo:
È andata così. […] Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima, che un’altra volta sarebbe finita. […] Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai e intravidi il barlume del giorno. allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. […]

Bacca:
Qui si dice che fu per amore.

Orfeo:
Non si ama chi è morto. […] L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. […] Euridice morendo divenne altra cosa. […] Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. […] È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. […] Comprendendo ho trovato me stesso.


Le motivazioni del poeta qui sono molto profonde: Orfeo guarda volontariamente, come atto necessario per la propria crescita personale: perdere l’amata gli serve per ritrovare se stesso. E ancora: avrebbe senso pensare di riprendere un’esistenza normale con chi torna dal regno dei morti? Non è questa un’esperienza che sarebbe in grado di cambiare chiunque in modi anche imprevedibili?[9] Gesualdo Bufalino ne Il ritorno di Euridice (1986), propone motivazioni ancora diverse:

Ricapitolò la sua storia, voleva capire.
A ripensarci, s’era innamorata di lui tardi e controvoglia. […] Poi, una sera di molta luna, trovandosi in un boschetto […], un filo di musica s’era infilato, via via sempre più teso e robusto, fino a diventare uno spago invisibile che la tirava, le circondava le membra, gliele liquefaceva in un miele umido e tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire. […] Lo amò dunque. E le nozze furono di gala. […] Dopo di che c’erano stati giorni e notti celesti. […] Lo aveva amato. Anche se presto aveva dubitato d’esserne amata altrettanto. Troppe volte lui si eclissava […]. Senza dire mai dove andava, senza preoccuparsi di lasciarla a corto di provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato. […] Quand’è così, una si disamora si lascia andare, sicché, negli ultimi tempi, lei si era trascurata […]. E sebbene ad Aristeo[10] rispondesse sempre no, e poi no, non lo faceva con la protervia di prima, ma blandamente, accettandone addirittura ora una focaccia di farro, ora un rustico mazzolino. […] Finché era morta così, mentre gli scappava davanti pestando con piante veloci la mala striscia nell’erba. […] Ripensò al suo uomo, al loro ultimo incontro. Ci ripensò con fierezza. […] Ade dalla sua nube aveva detto sì.
Rivide il seguito: la corsa in salita dietro di lui, per un tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del veleno viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di riabbracciarlo fra poco…[…] Perché, perché, s’era irriflessivamente voltato?
“Addio!” aveva dovuto gridargli dietro, “Addio” […]. E così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo… Ma non sì da non sorprenderlo, in quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale… L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta… […] Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta.

In questo caso è Euridice a vestire i panni della protagonista, uscendo finalmente dal suo ruolo di spalla, quando non di semplice comparsa, ed esponendo il suo personale punto di vista. Dopo la sua seconda morte riflette sulla sua vita, soprattutto sul suo ménage matrimoniale, non certo idilliaco: lui sta spesso via per settimane per inseguire la sua carriera da solista, lasciandola senza una dracma, ed esposta alle avances di mandriani e pastori arrapati. Orfeo ne esce insomma come un pessimo marito, talmente concentrato su se stesso da affrontare la catabasi non certo per riavere Euridice, ma solo per ottenere materiale per le sue canzoni, per avere successo. Un trionfo di egoismo che lo spinge addirittura a provocare volutamente il definitivo oblio della moglie.

Paesaggio con Orfeo ed Euridice

Paesaggio con Orfeo ed Euridice, dipinto di Nicolas Poussin (circa 1650-53).

Il volgere del millennio non ha spento l’interesse per la catabasi, che ritorna, in chiave contemporanea, nel racconto Lei dunque capirà di Claudio Magris (2006). La vicenda è ambientata in un casa di riposo (il Regno dei morti), in cui una donna si trova ricoverata. Il presidente della fondazione (novello Ade) concede al marito (poeta, cantautore e artista), in via del tutto eccezionale, la possibilità di portare la moglie via da quel luogo, a condizione che non si volti a guardarla prima di esserne fuori. Il marito, come Orfeo, ovviamente si volterà. Ecco il racconto dal punto di vista della donna-Euridice durante un successivo colloquio col Presidente:

  Già me lo vedevo, straziato smarrito atterrito inviperito impermalito seccatissimo con me che gli avevo guastato tutto e poi i giorni e le notti insieme, io al suo fianco e lui che mi guarda di traverso, la scassamarroni che gli ha fatto cascare il palco, spaventato che lo spifferassi agli altri, imbarazzato a farsi vedere in giro con me, lui partito come un eroe verso il mondo sconosciuto e tornato con le pive nel sacco. E quando fosse venuta, per lui o per me, l’ora di tornare di nuovo, e definitivamente, nella Casa, che disastro la ripetizione degli addii, ridotti a convenevoli. […]

Lei dunque capirà, signor Presidente, perché, quando eravamo ormai prossimi alle porte, l’ho chiamato con voce forte e sicura, la voce di quando ero giovane, dall’altra parte, e lui – sapevo che non avrebbe resistito – si è voltato, mentre io mi sentivo risucchiare indietro, leggera, sempre più leggera, una figurina di carta nel vento, un’ombra che si allunga e si ritira e si confonde con le altre ombre della sera, e lui mi guardava impietrito ma saldo e sicuro e io svanivo felice al suo sguardo, perché già lo vedevo ritornare straziato ma forte alla vita, ignaro del nulla, ancora capace di serenità, forse anche di felicità.

La psicologia di “Euridice” è rappresentata in modo davvero molto complesso. Al desiderio spontaneo e comprensibile di uscire dalla Casa si affianca ben presto un duplice dubbio: vale la pena andarsene, sapendo che poi si dovrà rientrare? La vita fuori avrebbe ancora lo stesso sapore? Ma soprattutto come convivere con un “Orfeo” deluso dal racconto di un’esperienza che lui immagina completamente diversa? In questo caso è lui ad avere ben poca voce in capitolo e a fare, per una volta, da spalla. Euridice decide per entrambi, in un gesto che è solo apparentemente egoistico, e che è invece, almeno in gran parte, un sacrificio per proteggere l’amato. Egli, d’altro canto, ha sì affrontato l’impresa per riavere sua moglie, ma questa, a ben vedere, non è la motivazione principale. Quello che cerca è da una parte la salvezza personale attraverso il ritorno di una rassicurante routine di coppia, dall’altra è la speranza che la scoperta di quanto sta al di là di ciò che conosce fornisca una risposta ai suoi interrogativi più profondi.

Appendice

Il mito di Orfeo ritorna innumerevoli volte in tutti i tempi e tutte le arti, tanto da rendere pressoché impossibile un elenco completo. Peraltro, finora si è fatto cenno solo alle opere nelle quali le motivazioni dello sguardo fatale sono più evidenti, perché espresse o facilmente desumibili. Meritano però almeno un cenno:

per la musica:

  • l’opera musicale L’Orfeo vedovo (testo e musica di Alberto Savinio,[11] 1950), in cui un agente dell’IRD (Istituto Ricostituzione Defunti) promette ad Orfeo di restituirgli Euridice grazie alla “cinecroplastica, che coglie i corpi in un punto del tempo, e in altro punto del tempo li ricostituisce”;
  • la prima opera rock italiana Orfeo 9 (di Tito Schipa jr., 1970), in cui Orfeo deve salvare Euridice dall’inferno della droga;
  • la canzone Euridice (di Roberto Vecchioni, nell’album Blumùn, 1993);
  • la canzone Orfeo (di Carmen Consoli, nell’album Stato di necessità, 1999);
  • la canzone The Ground Beneath Her Feet (U2, dalla colonna sonora del film The Million Dollar Hotel, 2000);

per la poesia:

  • Orfeo, Euridice, Hermes (di Rainer Maria Rilke, 1907), che propone un’Euridice estremamente poco coinvolta, tanto da non capire quello che le sta succedendo;

per la prosa:

  • L’altra Euridice – Una cosmicomica trasformata (di Italo Calvino, 1980), in cui Plutone (Ade) racconta la vicenda dal suo punto di vista, lamentandosi che gli umani l’hanno narrata al contrario: Euridice è in origine una creatura sotterranea che Orfeo rapisce ammaliandola con la sua musica;
  • il romanzo La terra sotto i suoi piedi (di Salman Rushdie, 1999), rilettura in chiave moderna in cui i protagonisti Ormus e Vina si perdono e si ritrovano in una storia d’amore che oltrepassa i confini tra vita e morte;
per il teatro:

  • la tragedia Orphée (di Jean Cocteau, 1926);

per il cinema:

per il fumetto:

per i cartoni animati:

  • I cavalieri dello Zodiaco (di Masami Kurumada, 1985), in cui Orfeo è uno dei cavalieri d’argento appartenente alla costellazione della Lira;
  • C’era una volta… Pollon (di Hideo Azuma, ep. La lira di Orfeo, 1977), in cui la piccola aspirante dea provoca la morte di Euridice disturbando, con la sua voce terribilmente stonata, la vipera che la morde. Pollon e l’inseparabile Eros accompagneranno quindi Orfeo nel Regno dei morti per rimediare al danno causato. Immancabile il lieto fine: Orfeo si volta, ma pur di ottenere che Pollon smetta di cantare, Ade e Persefone acconsentono a liberare di nuovo Euridice.

Tutto ciò tralasciando completamente le arti figurative.

Poster del film Orphée di Jean Cocteau (1950)



 

Addendum

Non sarà sfuggito che manca l’indicazione dei nomi dei traduttori per quanto attiene ai testi di Virgilio e Orazio. Non si tratta di una dimenticanza. Avevo infatti sottomano diverse versioni, ma nessuna mi soddisfaceva: erano tutte o troppo letterali o troppo libere. Quindi ci ho messo anche un po’ di farina del mio sacco, col risultato che ora non so più a chi attribuire questa parte del “lavoro”.

Infine, l’idea di questo divertissement è nata da questo post di Silvio Dell’Acqua su Facebook:

Ti dicono di non andare a curiosare nel cimitero degli animali e tu ci vai. Ti dicono di non aprire quella porta, ma tu vuoi sapere cosa c'è dietro. Ti dicono di non guardare quella videocassetta, puoi guardare tutte le altre ma quella no. Ma tu no, non resisti. Non andare giù nello scantinato, non c'è nulla che ti interessi. Lascia perdere la stanza rossa. Ma tu ci devi mettere il naso, ovviamente. Non tornare a vedere cosa succede. Non ti voltare indietro. Mai. Ma la curiosità è troppo forte. E, regolarmente, si scatena il puttanaio. Meteoriti, gente che muore, porte dell'inferno aperte, orde di zombie, cartelle esattoriali pazze, stracchini volanti, l'armageddon. Insomma, i film horror iniziano sempre con qualcuno . E finiscono come sappiamo. Questo dovrebbe insegnarvi qualcosa, no?

La sera stessa, ho visto il film Portrait de la jeune fille en feu (di Céline Sciamma, 2019), a mio avviso piuttosto lento e noioso, ma contente una scena in cui tre giovani dame dissertano proprio della catabasi orfica. Ho quindi ritenuto che il destino, o qualche entità superiore, esigessero che io perdessi qualche ora in questa pressoché inutile “fatica”.

Note

  1. [1]Ciani M.G. e A. Rodighero (a cura di) Orfeo. Variazioni sul mito. Venezia: Marsilio, 2004.
  2. [2]dal greco κατάβασις “discesa”, di κατα- “giù” e βαίνω “andare”.
  3. [3]Secondo una certa tradizione, fu antenato di Omero ed Esiodo, gli venne attribuita l’invenzione della cetra, ed attorno a lui si formò addirittura una religione, l’orfismo.
  4. [4]il quale, invaghitosi della bella Euridice, mentre la inseguiva per i boschi forse perseguendo fini non del tutto leciti, ne procurava involontariamente la morte, giacché per causa sua ella non s’avvide del serpe fatale
  5. [5]Euridice ha a malapena il tempo di dirgli addio prima di scomparire per sempre, mentre Orfeo, disperato, la piange per sette mesi, cantando la sua storia e commovendo tutta la natura circostante, non amando più nessun altra donna.
  6. [6]Ovidio continua narrando che Euridice, morendo per la seconda volta, non si lagnò del suo sposo «di cosa avrebbe potuto lagnarsi altro che d’essere amata?» e disse un ultimo addio appena percepibile prima di scomparire. Orfeo pregò a lungo di poter ripetere l’impresa, ma non gli fu concesso. Non la prese bene: rifiutò di unirsi a qualsiasi altra donna, anzi «fu lui che insegnò ai Traci a indirizzare l’amore sui teneri maschi, e a cogliere i primi fiori della breve primavera di vita». «Orfeo stava con lei, Orfeo adesso è gay», direbbe un “poeta” contemporaneo.
  7. [7]Tanto per complicare ulteriormente l’indagine sulle reale motivazioni di Morfeo, vale la pena di ricordare che Ade e Persefone gli avevano sì vietato di guardare l’amata, ma i due potevano parlarsi quanto volevano. Non è un modo sufficiente di fugare i dubbi sulla reale identità dell’ombra che lo sta seguendo?
  8. [8]Raccolta di dialoghi che hanno per protagonisti personaggi della mitologia greca.
  9. [9]Un numero imprecisato ma corposo di film horror insegna che la risposta a questa domanda è senza dubbio: sì!
  10. [10]Torna il pastore virgiliano, di nuovo in veste di molestatore.
  11. [11]Pseudonimo di Andrea Francesco Alberto De Chirico, fratello del pittore Giorgio De Chirico.

Bibliografia e fonti

  • Publio Virgilio Marone, Le georgiche libro 4° – Ed. IIED, Palermo, 1972
  • Ovidio Publio Nasone, Le metamorfosi – Libri X-XII Ed. Carlo Signorelli, Milano, 1926
  • Francesco Piozzi, Hortus apertus – Autori, testi e percorsi – Cappelli Editore, 2010
  • Wikipedia.it: svariate pagine, soprattutto per i riferimenti cronologici delle opere citate
L'autore

Andrea Panigada