Pavia, 1832

In Città, Storia di Andrea Panigada

Ponte medioevale a Pavia

I – Il “Ponte Coperto” medioevale, costruito nel 1351 e demolito nel 1948. Dall’almanacco dilettevole del 1832

Al cortese leggitore…

Con queste parole comincia l’Almanacco dilettevole per l’anno bisestile 1832,[1] opera di autore anonimo, che rappresenta probabilmente la più antica guida turistica per i “forestieri” che volessero visitare la città di Pavia, «la quale sebbene ora presenti pochissimi avanzi dell’antica sua grandezza […], offre però anche al presente parecchi oggetti degni di osservazione».

Pavia era allora città di frontiera, essendo posta esattamente sul confine tra Regno Lombardo-Veneto e Regno di Sardegna e si presentava ancora completamente cinta di mura e bastioni, nonostante Giuseppe II l’avesse ormai privata dello status di città fortificata, rendendola di fatto incapace di esercitare qualsivoglia resistenza. Misurava circa 850 tese (poco più di 1600 metri) da Est a Ovest e molto meno da Nord a Sud, mentre il cerchio esterno delle mura misurava circa 3 miglia.

Regia città di Pavia 1823

1 – Alcuni dei luoghi citati evidenziati su una mappa del 1823 (allegata all’almanacco dilettevole del 1832).


  1. [1]Il titolo completo è La torre del pizzo in giù – almanacco dilettevole per l’anno Bisestile 1832. Contenente una breve descrizione delle cose che meritano di essere osservate dal forestiere nella R. città di Pavia e suoi dintorni – Compilato dal P.F.P. – Pavia, presso Fusi e Comp.

“Porte della Città di Pavia”

Da qualunque parte fosse arrivato in città, il forestiero si sarebbe trovato davanti ad una delle otto porte d’ingresso, «cinque di terra e tre di acqua. Tre delle porte di terra vennero di nuovo costrutte; quella del Ponte Ticino verso la città […]; la Porta Milano detta di S. Vito (1), fatta […] a foggia di barriera con cancelli in tre spazii, ha nei lati due piccoli torrioni con porte praticabili e sopra di essi sono collocate due statue sdraiate rappresentanti l’una il Po e l’altra il Ticino[2]; la porta per ultimo detta anticamente Marenca (2) […] ed ora di Borgoratto[3]venne ricostruita nell’anno 1830 […].»

Porta Milano a Pavia

II – Porta Milano come appariva nel XIX secolo. Dall’almanacco dilettevole del1832.

Porta Milano a Pavia

2 – Porta Milano oggi.


  1. [2]Porta Milano è l’unica delle porte di accesso alla città che si sia conservata praticamente intatta
  2. [3]Si trovava alla fine di Corso Cavour, più o meno dove ora svetta la Minerva ed era detta di Borgoratto perché era l’antico nome di quella parte della città.

“Chiese Parrocchiali, Succursali, ed Oratorj in Pavia, che meritano l’attenzione del forestiere”

Una volta in città, l’antico turista avrebbe potuto cominciare la sua visita dalle numerose chiese cittadine. Solo qualche decennio prima Pavia contava 30 parrocchie, 28 conventi di religiosi e 18 di monache, molti dei quali erano stati soppressi durante il periodo napoleonico. L’anonimo autore si rammarica molto del fatto che il visitatore non avrebbe più potuto ammirare la chiesa di San Giovanni in Borgo (adiacente al Collegio Borromeo e abbattuta nel 1818) e quella di S. Maria alle Pertiche (o “in Pertica”) «collocata nella parte orientale della città, verso la porta detta Stoppa era rotonda […]. Profanata questa chiesa, e venduta, venne demolita nell’anno 1815[4]».

Tra le chiese profanate c’era anche la Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, la quale «demolita parte degli annessi chiostri, essendo mancato il contrasto per sostenere la volta della basilica stessa, rovinò interamente la nave destra della medesima, sicché resasi minacciante anche la nave di mezzo, non veggonsi di questo insigne tempio che la facciata e quanto è rimasto delle ruine, per dare ancora l’idea della sua magnificenza[5].».

Duomo di Pavia

3 – Duomo di Pavia, la cupola.

Il forestiero avrebbe poi potuto visitare il duomo «tempio di grandissima mole o per meglio dir gigantesca», anche se a causa della «costruzione dispendiosissima, non è ridotto a compimento e difficilmente potrà vedersi fare verso il medesimo qualche passo, attesa la mancanza de’ fondi necessari[6]». Così come avrebbe potuto ammirare la Basilica di S. Michele Maggiore, altro tempio tuttora esistente, ma che nel 1832 era decisamente diverso: «ci limiteremo a dire che merita il medesimo di essere dal curioso forestiere attentamente osservato e nell’interno e nell’esterno, e per la sua singolare struttura, e pei bassi rilievi de’ quali è decorato, stravaganti, non comuni, di raro pregio, e molto interessanti per la Storia delle Belle Arti[7]».

San Michele Maggiore Pavia

III – Basilica di San Michele Maggiore a Pavia, dall’almanacco dilettevole del 1832

San Michele Maggiore a Pavia

4 – La Basilica di S.Michele oggi.


  1. [4]Probabilmente di epoca longobarda, a testimoniarne l’esistenza resta oggi l’omonima via.
  2. [5]Fortunatamente noi, invece, la sua magnificenza possiamo ammirarla, essendo stata restaurata tra il 1884 e il 1901
  3. [6]L’avrebbe, insomma, visto come lo vediamo noi oggi: irrimediabilmente incompiuto. Del resto già nel 1488, all’apertura del cantiere, il cardinale Ascanio, sollecitato dal Comune, mentre assicurava che avrebbe facilmente ottenuto dal papa «la licenza di buttar giuso» le due cattedrali romaniche preesistenti (quella estiva e quella invernale), raccomandava di considerare bene la spesa perché «mi dolleria fino all’anima che al tempo nostro fosse ruinata quella chiesa [si intenda il complesso di entrambe le chiese] e rimanesse imperfetta questa». In compenso, nel 1832 era ancora in piedi «la torre quadrata della città, detta il Campanile, contigua alla cattedrale rialzata e quasi per intero ricostruita nel 1583, decorata nella parte superiore, ove sono situate le campane, di un ordine architettonico a colonne, eseguito sopra disegno del celebre Architetto Pellegrini». Il forestiero avrebbe quindi potuto vedere, a differenza nostra, la famosa Torre Civica, rovinata al suolo nel 1989.
  4. [7]E di cui oggi, purtroppo, resta quasi solo il ricordo!

“R. Università, ed annessi Gabinetti e Stabilimenti Scientifici”

Girovagando per Pavia, l’ipotetico visitatore del 1832 si sarebbe prima o poi inevitabilmente imbattuto nella nuova sede dell’Università, completata solo pochi anni prima: «quando l’immortale Imperatrice Maria Teresa nel 1772 pensò a far risorgere questa Università all’antico suo splendore mediante una saggia e ben meditata riforma, […] fu data al valente architetto Piermarini l’incombenza di costruire la nuova magnifica facciata. […] Finalmente nel 1816 per tratto di singolare munificenza del clementissimo nostro Sovrano l’Imperatore Francesco I felicemente regnante, […] si accrebbe l’estensione dell’Università stessa con un quarto cortile […][8]».
«Dei molti collegi o convitti esistenti in passato nella città di Pavia a comodo dei giovani che destinavansi ai varj studj, com’erano li collegi denominati de’ Griffi,[9] delle quattro Marie,[10]Torti, Bossi,[11]Marliani,[12]Caccia o Novarese,[13]Castiglioni,[14] I.R. Germanico-Ungarico[15] ecc. rimangono solo i seguenti»: il Collegio Borromeo e il Regio Collegio Ghislieri. Entrambi meritevoli di una visita, si presentavano più o meno come si presentano ora, ma funzionavano in maniera differente: nel primo «si mantengono gratuitamente circa 32 alunni, e si forniscono ai medesimi tutti i mezzi più opportuni per istruirsi nelle varie scienze». Il secondo nel 1806 era stato convertito in scuola militare «e solo nel 1817 per clementissima risoluzione dell’Augusto nostro Sovrano venne questo stabilmente restituito alla sua primaria istituzione. […] In esso vengono mantenuti gratuitamente e provveduti de’ più acconci mezzi di istruzione sessanta alunni scelti dal Sovrano; vi sono poi anche dodici alunni paganti una determinata pensione».

Collegio Borromeo a Pavia, 1832

IV – Il Collegio Borromeo come appariva nel XIX secolo. Dall’almanacco dilettevole del 1832.

Collegio Borromeo (Pavia)

5 – Il Collegio Borromeo come appare oggi
(foto: G.Gonnella).

Collegio Ghislieri a Pavia, 1832

V – Il Collegio Ghislieri nel XIX secolo.
Dall’almanacco dilettevole del 1832.

Collegio Ghislieri, Pavia

6 – Il Collegio Ghislieri oggi
(foto: G.Gonnella).


  1. [8]Sempre nel 1776 vennero istituiti l’Orto Botanico e la Biblioteca, ampliata nel 1816 e contenente, alla pubblicazione dell’almanacco, circa sessantamila volumi.
  2. [9]Voluto da Ambrogio Griffi nel 1489, destinato mantenere agli studi 6 o 8 universitari provenienti da Varese e da Lodi.
  3. [10]L’attuale via Digione era la contrada delle “Quatto Marie” dal nome del collegio ivi esistente e fondato dal nobile milanese Gazzaniga che lasciò in eredità i suoi beni alla “Pia fondazione delle Quattro Marie” e dispose che a Pavia fosse costruita una “Casa” per giovani appartenenti ai casati Gazzaniga, Corti e Aliprandi.
  4. [11]I collegi Torti e Bossi si trovavano entrambi nell’attuale corso Carlo Alberto: il primo, del XVI secolo, era sito nei locali dell’ex sede dell’ASM, il secondo è l’attuale casa parrocchiale di San Francesco.
  5. [12]Voluto da Raimondo Marliani, secondo le sue volontà testamentarie del 1466.
  6. [13]Funzionò dal 1719 al 1820 per lascito del nobile Gian Francesco Caccia, a vantaggio degli studenti di origine novarese.
  7. [14]Chiuso nel 1803 e destinato ad uso privato, oggi regolarmente funzionante nella stessa sede col nome di Castiglioni-Brugnatelli, dal nome dell’ultima proprietaria.
  8. [15]Inaugurato nel 1783 e chiuso nel 1796 in seguito all’occupazione francese (fu adibito a caserma), restituito all’Università e riaperto nel 1948 col nome di Collegio Cairoli.

“Seminario vescovile nel Locale di S. Pietro in Cielo d’Oro”

Degno di visita anche la nuova sede del Seminario vescovile (a sua volta ancora diversa da quella attuale di Via Menocchio). La precedente si trovava nell’attuale via Felice Cavallotti[16] però «essendo angusto e poco salubre, nell’anno 1825 alle vive istanze del benemerito e zelante nostro Vescovo Monsignor Luigi Tosi, S.M.I.R.A. l’augusto Francesco I degnossi di visitare in persona il detto Seminario, e convinto dell’esposto, donò generosamente la ancora esistente Canonica di S. Pietro in Ciel d’Oro ad uso del seminario stesso[17]».


  1. [16]Restano le fondamenta, a loro volta ex convento e chiesa di S. Andrea dei Reali.
  2. [17]Durante la sede vacante vescovile, nel 1859, il Ministero della Guerra – in dipendenza dai fatti militari importanti di quell’anno – adibì il seminario a Ospedale militare e destinò la Basilica al deposito di proiettili e di materie incendiarie.

“Stabilimenti di Pubblica beneficienza esistenti in Pavia”

Qualora avesse voluto, il visitatore sensibile a tematiche sociali avrebbe potuto dare un’occhiata anche agli “stabilimenti di pubblica beneficenza”, a cominciare dal Civico Spedale detto di S. Matteo, assai diverso dall’attuale. «É un vasto fabbricato capace di 400 e più letti, che quantunque anticamente costrutto sull’in allora generalmente adottata forma di croce, riconosciutasi poi non la migliore, pure attese le modificazioni fattesi colla nuova fabbrica cui si diede principio nel 1787 migliorò d’assai essendovisi introdotte le opportune divisioni e separazioni volute dai progressi che sonosi fatti in materia di Pubblica Igiene […]. É questo fabbricato di soda e robusta costruzione contiguo all’I. R. Università, circostanza che favorisce assai la istruzione de’ giovani studiosi delle scienze Medica e Chirurgica. E a tal fine utilissimo principalmente la munificenza dell’Imperatore Giuseppe II istituì nello Spedale medesimo e dotò nel 1782 le due Cliniche Medica e Chirurgica, nelle quali nel 1818 per munificenza dell’Augusto nostro Sovrano l’Imperatore e Re Francesco I se ne aggiunsero altre tre, cioè La Medica pei Chirurgi, l’Oculistica, e la Ostetrica […]. Si curano, e si mantengono in questo Spedale per adequato 320 poveri infermi, i quali appartengono alla Città ed al Principato di Pavia, e quindi anche allo Stato Sardo, cioè alla Bassa Lomellina e ad una parte dell’Oltrepò».

Ospedale San Matteo a Pavia (XIX sec.)

VI – L’antica sede dell’Ospedale “San Matteo” a Pavia, così chiamato perché sorgeva sul sito dell’omonimo monastero benedettino (illustrazione dall’almanacco dilettevole del 1832) L’edificio è oggi parte dell’Università degli Studi di Pavia.

Esistevano anche un orfanotrofio «de’ Maschi» e uno «per le femmine», in due ali, rigorosamente separate, dell’ex monastero benedettino di S. Felice:[18] nel primo «vengono ogni anno ricoverati 47 orfani per ricevervi educazione religiosa e morale, mantenimento, istruzione nei primi rudimenti delle Lettere ed incamminamento a qualche mestiere od arte, onde metterli in istato di guadagnare da sé, giunti che siano agli anni 18, il necessario sostentamento». Nel secondo, le orfane «sono ogni anno in numero di 47 e rimangono sino all’età adulta nell’Orfanotrofio, ove sono educate nella pietà e nella morale, mantenute, ed istruite nei primi rudimenti delle Lettere, e nei diversi lavori femminili, onde nel loro collocamento riescano buone madri di famiglia».
Nella sede storica, ora dismessa, di fronte al Collegio Borromeo, operava inoltre il Pio Ospizio di S. Margherita, eretto nel 1601 da Baldassarre Landini; lungi dall’essere l’ospedale geriatrico che è ora, in esso si ospitavano «alcune femmine pavesi ravvedute dai loro trascorsi, od in pericolo di traviare. Sono quivi coi più opportuni sussidi di Religione e d’Istruzione, ricondotte sul retto sentiero».
Naturalmente c’era anche l’ospizio per gli anziani: «nel locale soppresso Convento de Minori Riformati in S. Croce, si eresse nel 1813 l’Ospizio de’ mendici, ove si ricoverano in ogni anno e si mantengono circa 150 individui di ambo i sessi in età avanzata, od impotenti a procacciarsi il vitto, od affetti da malattie croniche tali, che impediscano loro ogni lavoro[19]».
Inoltre esisteva una “Pia casa d’Industria e di Ricovero”, in S. Maria delle Cacce[20] per «offrire il ricovero ad individui miserabili d’ambo i sessi, nativi o legalmente domiciliati in Pavia, atti, o semi-inetti al lavoro […] e per ultimo distribuire materie grezze da lavorare fuori dalla Pia Casa. Le principali manifatture che in essa si eseguiscono sono le tele di canapa e di lino».
La lungimiranza di Francesco I aveva anche reso possibile la riapertura del Monte di Pietà, «nel primo d’Aprile 1828 […] nel suo antico locale situato sul principio del corso di Porta Borgoratto[21] alla sinistra, e venne così provvista di nuovo la popolazione di questo mezzo opportunissimo per sollevare la indigenza».


  1. [18]Di epoca longobarda, era un monastero femminile, soppresso nel XVIII secolo. La struttura esiste ancora e si trova in Via Orfanotrofio.
  2. [19]Si tratta del Pio Albergo Pertusati, tuttora operante in questa sede, in precedenza un convento di Francescani. Soppresso l’ordine nel 1810, la chiesa, detta di S. Croce perché conteneva uno dei tanti supposti frammenti della croce di Gesù, fu abbattuta, e i locali della struttura vennero adibiti ad ospizio. Nonostante il suo nome ufficiale, i pavesi continuarono a lungo a chiamarlo ospizio di S. Croce. La precedente sede dell’«abitazione di carità per collocarvi le vecchie civili persone indigenti ed acciaccose», istituita nel 1759 grazie al lascito testamentario del vescovo di Pavia Francesco Pertusati, si trovava dietro il Borromeo, presso il convento dei cappuccini.
  3. [20]Istituita nel 1817 nel soppresso monastero femminile di S. Maria delle Cacce, nell’attuale Via Scopoli. I locali sono ora adibiti a scuola.
  4. [21]Ossia, come già ricordato, nei pressi della statua della Minerva.

“Teatri”

Visitati tutti questi infermi, il forestiero avrebbe finalmente potuto occuparsi di cose più piacevoli, dedicandosi alla visita dei teatri cittadini. Dell’antico anfiteatro costruito da Re Teodorico non restava già più nulla se non la memoria; però nei pressi della Basilica di S. Michele, nella contrada allora detta della Maddalena, esisteva ancora un «teatro la cui interna costruzione è in legno, e che era proprietà della famiglia Homodei[22]», il quale però era «da molti anni fuori d’uso e del tutto abbandonato, dopo specialmente che ebbe luogo l’erezione del nuovo teatro denominato dei Quattro Illustrissimi Signori Cavalieri Compadroni. Al principio della strada detta Nuova sulla diritta venendo dalla piazza del Castello trovasi il teatro conosciuto sotto la indicata denominazione, perché fatto erigere nel 1773 a spese delle quattro cospicue famiglie di questa Città Bellisomi, Gambarana, Provera e Vistarini» Forse perché quest’opera, tra quelle citate finora, è una delle poche non “sponsorizzata” da qualche esponente della Casa d’Austria, l’anonimo autore dell’almanacco non le risparmia critiche: «mentre devesi ammirare la ricchezza della costruzione in pietra […], non si può a meno che disapprovare la sua curva interna evidentemente difettosa, e ritenere che tale edifizio non riesce a’ tempi nostri gran fatto conveniente per li scenici spettacoli».[23] Esisteva poi un altro piccolo teatro «denominato Teatro Re dal nome del nostro concittadino che ne è proprietario, stato dal medesimo costruito nel locale del già monastero di monache detto del Senatore»[24].


  1. [22]Prima che fosse edificato il Fraschini, era l’unico vero teatro di Pavia, proprietà del nobile Giacomo Omodei, signore bizzarro abituato ad imporre i propri privilegi anche al pubblico, costretto a sopportare inutili imposizioni come l’attesa dell’inizio dello spettacolo fino al suo arrivo.
  2. [23]Si tratta ovviamente del Teatro Fraschini, costruito proprio per ovviare alle intemperanze dell’ Omodei, acquisito nel 1869 dal Comune di Pavia, che lo dedicò al celebre tenore verdiano Gaetano Fraschini, all’epoca ancora vivente.
  3. [24]Fu uno dei più importanti e ricchi monasteri di Pavia, arrivando ad ospitare fino a cinquantuno monache benedettine. Nel 1799 fu soppresso e i suoi beni dispersi e venduti ai privati, tra cui il Sig. Re. Il monastero del Senatore si estendeva su un’area vastissima proprio al centro di Pavia, occupando non solo un intero quadrato della scacchiera romana della città (a nordovest del Duomo) ma, interrompendo l’originario tracciato del decumano massimo (attuale corso Cavour) giungeva fino alla via di San Giovanni Domnarum: soltanto dopo la soppressione del monastero, nel 1804, questo tratto di strada fu riaperto. Al posto della chiesa del monastero, affacciata su via Bossolaro, si trova oggi un cinema; l’ingresso al monastero era dalla parte opposta, in via Parodi, di fronte allo sbocco del vicolo ancor oggi detto del Senatore. Di tutta l’area solo una piccola parte ha ancora una destinazione simile a quella originaria (convitto delle madri Canossiane).

“Palazzi”

«Il palazzo che quasi per intiero ancora rimane […] è il Ducale, conosciuto sotto la denominazione di Castello. […]. Questo magnifico edifizio […] era costruito solidamente in forma di quadrato con quattro grandiosi torrioni, de’ quali ancora rimangono i due che guardano la città, essendo stati i due esterni distrutti in occasione dell’assedio di Lautrec nel 1527[25]. […] In ognuno dei quattro torrioni erano state raccolte ricchissime suppellettili, e vi si distinguevano specialmente due preziose collezioni l’una di armi per quei tempi assai stimata, e l’una di codici manoscritti, al numero quasi di mille, raccolti nella massima parte dal Petrarca, che qui pure, godendo dell’amicizia e del favore del Duca, recavasi sovente e villeggiare. Tutti questi importantissimi oggetti passarono in Francia nel 1499 per ordine di Luigi XII […] e non rimasero a questo palazzo che le pareti […]. Nel 1796 dopo l’occupazione di questi paesi fatta dai Francesi, col preteso di ridurre il Castello in istato di difesa, e capace di presentare alcuna resistenza, gli venne tolto il tetto. Si coprirono le sue volte di terra, cui si sovrappose gran quantità della così detta cotica erbosa de’ prati, e con tale enorme peso, accresciuto dalle cadute piogge autunnali, si mise a pericolo d’irreparabile rovina questo fabbricato, che rimase però assai danneggiato, […] e così con gravissimo dispendio poscia riattato, ma non restituito alla sua primiera forma, in quale vedesi presentemente destinato ad uso militare[26]. Non trovansi in Pavia altri Palazzi pubblici che meritino d’essere particolarmente osservati […].»

castello-visconteo-pavia-1832

VII – Il “Palazzo Visconteo” detto “Castello” nel XIX secolo: era già mancante dell’ala settentrionale, distrutta dall’artiglieria francese nel 1527. Immagine dall’almanacco dilettevole del 1832.

Castello Visconteo Pavia

7 – Il Castello Visconteo oggi.


Torri a Pavia

8 – Le “tre torri” di piazza Leonardo da Vinci: quella centrale, l’unica con orologio, è la Torre del Maino.

  1. [25]Il 5 ottobre del 1527 i Francesi e i loro alleati Veneziani, guidati da Odet de Foix signore di Lautrec, si impadronirono di Pavia e la sottoposero al sacco più funesto e spietato della sua storia. Furono otto giorni di violenza efferata. Così racconta il cronista pavese Antonio Grumello: «Francesi e Venetiani usarono contro i miseri cittadini le più feroci sevizie del mondo, uccidendo uomini, donne, fanciulli, vituperando vergini e monache, menando le falze ad ognuno, ponendo mano in le cose sacre, lacerando reliquie, calici, croci, usando quelle crudeltà come fossero stati Turchi o Mori […]».
  2. [26]il Castello di Pavia è stato acquistato dal Comune, restaurato negli anni ’20 e ’30 del XX secolo, a partire dal secondo dopoguerra è divenuto sede dei Musei Civici e ospita a la civica Pinacoteca Malaspina.

“Torri, e Torre del Pizzo in giù”

Ma qualsiasi forestiere si fosse recato a Pavia sarebbe rimasto meravigliato soprattutto dalle sue torri: «Varie città d’Italia hanno bensì torri solide e di ingegnosa costruzione, […] ma nissuna altra città ha tanto abbondato, nè abbonda come Pavia di torri quadrate di solidissima costruzione in mattoni, delle quali non può, al solo vederle, determinarsi precisamente l’uso e la destinazione. […] Non attribuiremo a queste torri un origine posteriore al secolo XI o XII. […]. Fin nel secolo XI in Lombardia e in altre parti d’Italia, la maggiore o massima parte de’ nobili e dei più opulenti cittadini intrapresero a fabbricar torri vicino alle loro case, tanto per difesa, che per ornamento, o direm meglio per lusso, e segnale di potenza, e la gara giunse al segno che nel secolo XII ed anche nel successivo emanarono disposizioni dei rispettivi Governi Municipali, per impedire che non si fabbricassero ulteriormente torri, o non si eccedesse un dato limite riguardo alla loro altezza». Tale usanza andò poi scemando, tanto che già nel XIV secolo molte torri erano già state abbattute o erano crollate; inoltre «se ne distrussero varie anche a’ nostri tempi, sicché a pochissime ormai esse son ridotte, e fra le tuttora sussistenti distinguonsi per altezza quella de Marchesi Belcredi a S. Mostiola, cui si attribuisce l’altezza di circa metri 56 […] e quella della nobile casa de’ Marchesi del Maino, che è alta poco meno[27]».

Torre del Pizzo in già a Pavia

VIII – La Torre del Pizzo in Giù a Pavia.
Dall’almanacco dilettevole del 1832.

Tra le torri, ce n’era una assai particolare, abbattuta più di un secolo prima, ma di cui vale la pena fare cenno perché «bizzarramente costruita a guisa di una piramide rovesciata il cui vertice formava la base della torre […]. Essa era situata sull’angolo dell’antica casa de’ Marchesi del Maino[28] […]. Questa torre singolarissima si ritiene dai nostri storici essere stata eretta ad onor del celebre G.C. Giasone del Maino allorché conseguì la laurea in Giurisprudenza[29] […]. La detta torre posava dunque col vertice della piramide, che ne faceva la base, rivolto all’ingiù sopra una colonna che era infissa e congiunta nell’angolo del palazzo che guarda ora la caserma militare detta di S. Tommaso[30], e dopo sulla base della piramide rovesciata si alzava la torre quadrata; ciò che senza meno diede origine alla denominazione di Torre del pizzo in giù, quasi dir si volesse Pinzo (pungilione) nome al quale corrottosi nel linguaggio popolare si sostituì Pizzo. La colonna su cui poggiava la punta della piramide aveva un capitello a figure e la punta stessa era fregiata dello stemma gentilizio del Maino […]. La torre poi in tutti i lati era aperta con doppie arcate, ed offriva in due piani due amenissime loggie praticabili, dalle quali poteasi dominare ampiamente tutto all’intorno. Sgraziatamente questo raro monumento, sforzo dell’arte e dell’ingegno umano, fu con sommo dolore di tutti i cittadini demolito e distrutto nell’anno 1715 sull’appoggio di un falso rumore che minacciasse rovina, e venne così atterrata un’opera degna d’essere conservata e ammirata, e che poteva sussistere ancora per molti secoli, siccome venne a conoscersi nell’atto della demolizione, giacché la si trovò con sommo accorgimento costruita, e siffattamente collegata ed assicurata al palazzo con grosse e robuste chiavi di ferro, da essere capace di resistere e sfidare qualunque durata di tempo[31] […]».


  1. [27]Sono entrambe ancora in piedi: la prima si trova nell’omonima via, la seconda, insieme ad altre due, in Piazza Leonardo da Vinci.
  2. [28]Cioè tra gli attuali Corso Mazzini e Via Cavallotti.
  3. [29]Cioè dopo il 1455. La tradizione narra che da studente Giasone avesse vissuto un periodo di vita scioperato; il padre Andreotto, disperando ormai di un suo ravvedimento, aveva scommesso che avrebbe fatto costruire una torre capovolta qualora il figlio fosse riuscito a laurearsi. Giasone divenne poi un importantissimo giureconsulto.
  4. [30]Ex convento benedettino soppresso nel 1782 e dal 1791 adibito a caserma. Nel 1896 sarebbe diventata la Caserma Bixio; oggi tutto il complesso è parte dell’Università.
  5. [31]Così vuole la tradizione, che però non è priva di inesattezze. Già nel 1698 i confinanti avevano intentato una causa giudiziaria per ottenere la demolizione per timori di crolli, che non dovevano essere del tutto infondati, se esiste una perizia del 1712 a firma di Marco Antonio Andreoli che individuava l’inizio di uno scardinamento del sistema statico suscettibile tuttavia di «rifazione», essendo la torre «totalmente a piombo». Il restauro non venne mai realizzato, non tanto per l’opposizione dei confinanti, ma per la volontà del nuovo proprietario, Baldassarre Olevano, desideroso di rinnovare completamente il palazzo. Così, nonostante l’opposizione quasi intimidatoria delle autorità cittadine, la torre fu abbattuta tra il settembre del 1715 e il marzo del 1716.

“Monumenti antichi”

Nel 1832 ne rimaneva ben poco, ma “il curioso antiquario o archeologo forestiere”, cercando bene, qualcosa sarebbe ancora riuscito a trovare. «Prima di sortire per la porta della Città detta di Borgoratto, si trova il luogo ove sorgeva l’antica porta Marenco o Marenga, stata atterrata nel 1823. Questa porta era formata sotto un massiccio voltone sormontato da torre di mezzana altezza. Alla destra di essa uscendo stava una piccola nicchia, nella quale incassata nel muro esisteva una statua romana di sasso molto logorata dagli anni collocatavi da tempo immemorabile chiamata volgarmente il Muto dall’azza al collo, e corrottamente della Zercolla […] rappresentante un Senatore o Proconsole Romano, per avere un lembo della toga formato da minute pieghe gettato sulla spalla intorno al collo in guisa che sembrava una matassa di filo[32]. Atterrato il voltone, e per ampliar la strada, essendosi rimosso dall’antica sua sede quel sasso, e toltosi l’intonaco di calce che lo ricopriva, videsi che questo, creduto sempre in passato un semplice bassorilievo, è una perfetta e compiuta statua di marmo benché assai guasta nel volto, e venne collocata in un angolo alla parte sinistra del luogo medesimo in cui esisteva la detta antica porta[33]».

Regisole

9 – Piazza Duomo: la statua del “Regisole” realizzata nel 1937 dallo scultore Francesco Messina, sostituisce una precedente e misteriosa statua, scomparsa altrettanto misteriosamente alla fine del XVII secolo. A sinistra della facciata del Duomo i resti della Torre Civica, crollata nel 1989.

Regisole

IX – Antica statua del “Regisole”, oggi scomparsa. Incisione di C.Ferrari, c.a 1832, dall’almanacco dilettevole.

«Ma un antico monumento ben più interessante possedeva Pavia nella Statua Equestre in bronzo denominata volgarmente Regisole che era collocata sopra piedestallo di pietra[34] nel mezzo della Piazza della Cattedrale detta Piazza Piccola. Di questo pure faremo qui alcuna parola, sebbene più non esista […]. Il cavallo era di bella forma in atto di camminare con una gamba alzata avente per appoggio un cane che sembra avventarsegli, il cavaliere di statura ordinaria con barba […] colla destra alzata pareva intimar quiete, ed era rivolto verso settentrione. […] Nelle politiche vicende all’epoca del 1796 questa statua fu atterrata e nella di lei caduta staccossi la gamba che il cavallo teneva alzata, la quale andò smarrita. Si separò anche dal busto la testa del cavaliere, senza che però, per singolar ventura, avesse danno. Affinché questo antico monumento non andasse disperso, venne trasportato nel palazzo Civico, e rinchiuso in una stanza terrena del medesimo. Erasi anche pensato in seguito di innalzare di nuovo la detta statua, e riportarla al suo luogo, non essendo affatto ignoto chi erasi appropriata la perduta gamba del cavallo; ma dopo qualche tempo, la statua scomparve, senza che siasene mai saputo il fine […][35]».


  1. [32]L’azza o accia, appunto.
  2. [33]E lì, cioè all’angolo tra gli attuali Corso Cavour e la via che ne ha preso il nome, è rimasta fino alla prima metà del ‘900, prima di essere trasferita nei Musei Civici, dove si trova tuttora. Si tratterebbe in realtà di una delle quattro statue romane (I sec. D.C.) poste sulle porte del primo muro interno della città dell’epoca, in seguito definite dall’iconografia cristiana come rappresentazioni delle quattro virtù Cardinali di Fortezza, Temperanza, Prudenza e Giustizia (il Muto sarebbe l’immagine della Giustizia).
  3. [34]Dal 1761; precedentemente era supportata da una colonna rotonda di mattoni con intonaco di calce.
  4. [35]La statua equestre che possiamo vedere oggi non è quindi un originale, ma una copia moderna, datata 1937, dello scultore Francesco Messina (lo stesso che realizzò la Minerva), simile ma non identica all’originale, in quanto il cavaliere è senza barba, mentre il cavallo ha “perso” il cagnolino che ne sorreggeva la zampa. L’originale, ammirata da Leonardo, Petrarca e Boccaccio, resta un mistero: non si conosce esattamente l’epoca in cui venne fusa, né chi rappresentasse veramente, né perché avesse questo nome. Quanto al primo dilemma, possiamo ragionevolmente supporre che sia stata realizzata nel tardo Medioevo con la tecnica della cera persa, ma essere più precisi è impossibile, anche perché è andata completamente perduta. Quanto al personaggio raffigurato, l’ipotesi più attendibile propenderebbe per una relazione tra il “sole” della parola “Regisole” e la parola greca helios, cui rimandano i nomi degli imperatori romani Marco Aurelio (Aurelios) ed Aureliano, dei quali sarebbe la corruzione medievale. Anche la posa della mano, alzata nel tipico saluto romano, farebbe propendere per questa tesi. Altri però sostengono che il nome derivi dalla corruzione delle parole latine regis e solium, essendo ormai accertato che la statua sin dal IX secolo si trovasse in una nicchia del palazzo di Teodorico. Anche la storia della statua è misteriosa e travagliata: si sa per certo che nel 1315 venne abbattuta e portata a Milano, e che la testa fu venduta per un fiorino. Recuperati i pezzi e riassemblatala, essa fu di nuovo atterrata durante il sacco del 1527, rubata da un soldato ravennate e giunta a Cremona, da dove fu riscattata e rimessa di nuovo al suo posto. Infine, sull’onda della Rivoluzione Francese, tre giacobini pavesi, ritenendo scandalosa un’opera raffigurante un monarca, gettarono una corda al collo del cavallo e lo trascinarono al suolo, facendolo letteralmente a pezzi. Tali pezzi furono in parte fusi, in parte venduti alcuni anni dopo come antiquariato, al fine di finanziare la sistemazione dell’area alberata di piazza Castello.

“Conche o sostegni sul Canale di Navigazione da Milano a Pavia detto il Naviglio”

Nei dintorni della città, il forestiere avrebbe ovviamente potuto ammirare la Certosa e la Chiesa di San Lanfranco, ma soprattutto «appena fuori dalla porta detta di Cremona o di Santa Giustina […]un’opera veramente grande e meravigliosa nelle cinque Conche così dette o sostegni, stati costruiti con assai ragguardevole dispendio per compiere il canale di navigazione che da Milano scorrendo fino a Pavia ha immediatamente sotto questa Città il suo sbocco nel Fiume Ticino».

Chiuse sul naviglio a Pavia

X – Le chiuse sulla parte terminale del Naviglio Pavese, che si immette nel Ticino. Dall’almanacco dilettevole del 1832

L’opera era stata concepita già nel tardo XII secolo, ma fu iniziata solo da Filippo II nel 1598 e poi, per guerre e impedimenti di vario genere di nuovo sospeso, in attesa del provvidenziale intervento dell’ “Imperatrice Maria Teresa di sempre gloriosa memoria”, cioè fino a quando «con decreto 20 giugno 1805 venne in massima stabilita la costruzione del canale navigabile da Milano al Ticino presso Pavia». I lavori procedettero speditamente; cominciati nel 1808 a Milano, «resero perfettamente navigabile verso la fine del 1811 il tronco del costruito canale di Milano fino al paese di Binasco, e nel 1813 da Binasco fino a Nivolto; e ne’ primi mesi del 1814 da Nivolto fino a Torre del Mangano.[36]Ma era riservato alla munificenza del Clementissimo Francesco, nostro Augusto Sovrano il dar compimento a quest’opera mirabile, e che […]può senza dubbio star a confronto delle grandi Opere Romane.[37] […]. Nel giorno 16 agosto 1819 ebbe luogo l’apertura della nuova navigazione». Per l’opera vennero spese in tutto 7.694.707 lire italiane e 34 centesimi.

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  1. [36]Attualmente è una frazione del comune di Certosa di Pavia, creato nel 1929.
  2. [37]Nonostante l’entusiasmo dell’autore, la città di Pavia non vide mai di buon occhio il Naviglio e probabilmente le sue rimostranze ebbero anche qualche influenza sui ritardi nella costruzione. L’avversione non venne meno neppure quando cominciarono a manifestarsi positive ricadute economiche, tanto importanti che nel 1821 venne costruito Borgo Calvenzano (tuttora esistente) per supportare le navigazione interna, creando un notevole indotto. L’importanza economica del Naviglio si protrasse fino alla metà del XX secolo, ma nonostante ciò, nel 1933, il Piano regolatore generale ne prevedeva la chiusura perché di ostacolo allo sviluppo della città. Nel 1964 Pavia fu il primo comune a chiedere il declassamento del Naviglio a canale per l’irrigazione. L’inspiegabile risentimento della città nei confronti del canale continua tuttora, ed è evidente nel degrado in cui è lasciato un sistema di chiuse che era stato costruito in maniera impeccabile dal punto di vista idraulico e ragguardevole dal punto di vista architettonico, e che, se valorizzato nel suo contesto, avrebbe invece un grande impatto estetico.

Bibliografia e fonti

Immagini

Le immagini contrassegnate dai numeri romani (da I a X) sono tratte dall’Almanacco dilettevole per l’anno bisestile 1832 (op. cit.) 1832 c.a, autore anonimo tranne VII, prob. incisione di C. Ferreri. © Laputa.

  1. © Silvio Dell’Acqua
  2. foto: Silvio Dell’Acqua, 10-9-2013 [CC-BY-SA-3.0]
  3. foto: Geobia, giugno 2011 [CC-BY-SA-3.0] Commons
  4. foto: Groume [CC-BY-SA-2.0], via Flickr/Commons
  5. foto: Giorgio Gonnella, 2004 [GFDL o CC-BY-SA-3.0] Commons
  6. foto: Giorgio Gonnella, 2004 [GFDL o CC-BY-SA-3.0] Commons
  7. foto: Tempo61, 2006 [CC-BY-SA-3.0] Commons
  8. foto: Marcogiulio, 15-07-2012  [CC-BY-SA-3.0] Commons
  9. foto: Superzen, 2010 [PD] Commons
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Andrea Panigada