Il disastro di Černobyl’, 26 aprile 1986

In Disastri industriali, Storia di Silvio DellʼAcqua


La notte tra il 25 ed il 26 aprile 1986 il reattore numero 4 della centrale elettronucleare di Černobyl’ esplose, proiettando nell’atmosfera vapori e polveri altamente radioattive: fu il più disastroso incidente mai verificatosi in una centrale nucleare e uno degli unici due classificati al massimo livello della scala INES dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica: l’altro è quello di Fukushima del 2011.

Quello che, a stare alle dichiarazioni dei fisici, sarebbe potuto accadere al massimo una volta in 10.000 anni, adesso è accaduto. Diecimila anni si sono fusi in questa giornata. La legge delle probabilità ci ha fatto capire che intende essere presa sul serio.[1]Christa Wolf, scrittrice della Repubblica Democratica Tedesca
Ucraina sovietica, regione di Kiev. La città di Pripjat’, nata sulle rive del fiume omonimo per ospitare il personale addetto alla costruzione e all’esercizio dell’impianto nucleare, conta ormai cinquantamila abitanti. Alla centrale “V.I. Lenin” il reattore nº4 — entrato in servizio appena due anni prima, nell’84 — deve essere spento per operazioni di ordinaria manutenzione e si decide di approfittarne per effettuare un test di sicurezza, già eseguito l’anno precedente sul reattore n°3 e anche sui quattro reattori della centrale di Kursk, in Russia.


Il principio di funzionamento di una centrale atomica non è molto diverso da quello di una centrale idroelettrica o a vapore: ci sono delle grosse turbine che, girando, azionano enormi generatori di corrente. Anziché la forza dell’acqua imprigionata in una diga, o il vapore prodotto dalla combustione del carbone, del gas o anche della spazzatura, si impiega il vapore prodotto dall’acqua di raffreddamento di un reattore nucleare a fissione. Esistono diversi tipi di reattori, quello impiegato a Černobyl’ è del tipo RBMK (acronimo per Reaktor Bolšoj Moščnosti Kanalnyj, ovvero “reattore di grande potenza a canali”), raffreddato ad acqua e moderato a grafite. Non inganni il termine moderato, che nell’uso comune ha un significato differente: in fisica un “moderatore” è un materiale che ha la funzione di rallentare i neutroni veloci prodotti dalla fissione, in modo da aumentare la loro efficacia nel colpire e spezzare un atomo fissile.

Reazione a catena: fissione dell'uranio–235.

2 – Reazione a catena: fissione dell’uranio-235.

Il moderatore, in pratica, è necessario per aumentare il numero di fissioni all’interno del nocciolo, facendo sì che la reazione a catena sia in grado di autosostenersi: quando ciò avviene, si dice che il sistema è “critico” (curiosa l’inversione semantica secondo la quale moderare significa aumentare e una condizione detta critica è invece desiderabile, anzi perseguita mediante accorgimenti tecnici). Per evitare che la reazione aumenti in modo incontrollato, con conseguenze disastrose, si usano “barre di controllo”[2] mobili fatte di un materiale metallico che a differenza del moderatore ha una elevata capacità di assorbire i neutroni lenti, riducendone quindi la capacità di colpire un atomo fissile: l’equilibrio tra la quantità di moderatore e la quantità di assorbitore (o “veleno”) mantiene la reazione allo stato critico. Il nocciolo del reattore RBMK è quindi un grande cilindro di grafite che funge da moderatore, attraversato da canali paralleli (da qui la definizione di “reattore a canali”) dentro i quali sono disposte alternativamente le barre di combustibile fissile, in questo caso ossido di uranio arricchito al 2% con uranio-235, e le barre di controllo mobili di boro (un semimetallo[3]), oltre a qualche barra di uranio-238 che veniva così arricchita per la produzione di plutonio destinato alle armi nucleari. Questi canali sono attraversati dall’acqua “leggera” ovvero comune acqua, così detta in contrapposizione all’acqua arricchita con deuterio, detta “pesante”, utilizzata come moderatore in altri tipi di reattori nucleari.

Schema del reattore RBMK

3 – Schema di un reattore RBMK

L’acqua assorbe l’enorme calore prodotto dalla reazione trasformandosi in vapore, che viene convogliato sotto pressione alle turbine a due stadi per la produzione di energia elettrica. Il vapore esausto viene raffreddato in uno scambiatore, che dissipa il calore residuo nell’acqua fredda proveniente dal fiume. I due circuiti restano separati: il vapore così raffreddato diventa acqua bollente che ritorna nel reattore per un nuovo ciclo, mentre l’acqua del fiume — se tutto è andato bene — è calda ma priva di radioattività e può essere reimmessa nell’ambiente. A Černobyl’ l’acqua è ovviamente prelevata dal Pryp’jat’ e prima di tornare nel fiume, viene raffreddata in un apposito stagno dove dal 1979 si alleva pesce destinato all’industria alimentare, immesso poi sul mercato (come evidenzia una rapporto del KGB del 1981) senza alcun controllo.

Centrale "V.I. Lenin" di Černobyl' nel 1984.

4 – Centrale “V.I. Lenin” di Černobyl’ nel 1984: in primo piano lo stagno di raffreddamento (chnpp.gov.ua).

Ore 1:06 del 25 aprile 1986. È notte fonda a Pripjat’, mentre alla centrale si dà inizio alla procedura. Il reattore è alla potenza massima di 3200 megawatt termici; in preparazione al test viene avviato un programma di regolazione controllato dal computer che ridurrà lentamente la potenza fino al 50%, ovvero 1600 MW. Per regolare la potenza di un reattore nucleare si agisce sulle barre di controllo mobili: alzandole, sfilandole cioè dal nocciolo, diminuisce la quantità di moderatore che assorbe i neutroni lenti o “termici”; la reazione a catena aumenta quindi di intensità. In questo caso si dice che il sistema è “supercritico”. Interrompendo l’estrazione delle barre, la cui velocità deve essere determinata in fase di progetto per evitare reazioni impreviste, il sistema si stabilizza sulla potenza desiderata. Quando si vuole ridurre la potenza si reintroducono le barre di controllo, che assorbendo i neutroni lenti riducono l’intensità della reazione fino a spegnerla. Queste barre sono quindi anche il primo sistema di sicurezza attivo di un reattore a fissione: qualora gli strumenti rilevassero un valore anomalo (temperatura, potenza, pressione, radioattività) una serie di dispositivi ne provocherebbe l’inserimento automatico, spegnendo rapidamente il reattore anche senza l’intervento umano.

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5 – Rappresentazione schematica del funzionamento delle barre di controllo: a sinistra le barre sono abbassate nel nocciolo e assorbono una maggiore quantità di neutroni, rendendo il reattore “sottocritico” (la potenza diminuisce); a destra sono sollevate e lasciano che una maggiore quantità di neutroni alimenti la reazioni a catena, in questo caso il reattore è “supercritico” (la potenza aumenta). Il reattore è “critico” quando la quantità di neutroni non catturati dalle barre è esattamente quella necessaria a mantenere la potenza stabile.

Pulsante di SCRAM

6 – Pulsante di SCRAM all’Idaho National Laboratory.

L’arresto di emergenza mediante l’introduzione contemporanea di tutte le barre è universalmente detto “SCRAM“, termine che una leggenda fa risalire al primo reattore nucleare della storia costruito dallo staff di Enrico Fermi in un locale sotto le tribune dell’ex stadio di football dei Chicago Maroons (un esperimento potenzialmente catastrofico in una delle aree più popolose degli Stati Uniti). Si narra che l’arresto di emergenza fosse affidato ad un addetto armato di ascia (il fisico Norman Hilberry[4] secondo alcuni, un boscaiolo reclutato dall’Esercito secondo altri[5]) che, nel caso fosse accaduto “qualcosa di inaspettato”, avrebbe tagliato una corda facendo cadere nel nocciolo una barra di controllo di cadmio, che avrebbe spento la reazione. La leggenda vuole che negli appunti del fisico tale “congegno” fosse indicato semplicemente come Safety Control Rod Axe Man, ovvero “uomo con l’ascia addetto alla barra di controllo di sicurezza”, da cui l’acronimo SCRAM.


In realtà si tratta appunto di una leggenda: le barre di sicurezza erano azionate da un circuito elettromeccanico[6] ma l’immagine pionieristica dell’uomo con l’ascia rende efficacemente l’idea di come funzioni l’arresto di emergenza di un reattore nucleare. Ma c’è un problema. Un reattore di potenza come l’RBMK non può mai essere totalmente “spento” come può esserlo un motore o un televisore: il combustibile fissile continua a produrre una grande quantità di calore che deve essere evacuato mantenendo in circolazione il liquido refrigerante, che nel RBMK è acqua. Per garantire un raffreddamento sufficiente, le 8 pompe elettriche di circolazione richiedono ben 5,5 megawatt, una potenza enorme ma che a pieno regime è appena lo 0,5% dell’energia prodotta dai turbogeneratori. A reattore spento, o in caso di rottura dei tubi del vapore in pressione, l’alimentazione alle pompe viene a mancare e devono quindi subentrare i generatori diesel di emergenza: questi però impiegano circa 60–75 secondi per arrivare a regime e qualora lo spegnimento fosse improvviso (scram) questo gap temporale potrebbe causare il surriscaldamento del nocciolo, con pericolose implicazioni di sicurezza. L’idea è quindi di verificare se il girante della turbina, prima di fermarsi, sia in grado di produrre per inerzia l’energia sufficiente ad alimentare le pompe di raffreddamento e i sistemi fondamentali per almeno 40–50 secondi, abbastanza per un passaggio sul filo del rasoio all’alimentazione di emergenza. Il precedente test sul reattore nº 3 si era svolto senza incidenti, ma aveva dimostrato che l’inerzia non era sufficiente e si era intervenuti migliorando i regolatori di tensione, che ora devono essere sottoposti a nuova verifica.

Centrale di Černobyl', sala dei turbogeneratori.

7 – Centrale di Černobyl’, sala dei turbogeneratori (chnpp.gov.ua).

Ore 3:47. Secondo la ricostruzione della World Nuclear Association, a quest’ora il livello del 50% viene raggiunto e la riduzione di potenza si arresta.[7] Avrebbe dovuto essere ulteriormente ridotta al di sotto dei 1000 MW, ma a causa di un guasto ad un’altra centrale elettrica regionale l’ente gestore della rete[8] chiede alla centrale “V.I. Lenin” di non ridurre ulteriormente la potenza per non lasciare scoperta l’area di Kiev: è venerdì e le fabbriche avranno bisogno di energia elettrica. Viene quindi fissato un nuovo orario, la una della notte successiva. Almeno, questa sarebbe stata la spiegazione ufficiale fornita dalla commissione d’inchiesta federale condotta da Valeriu Alexandrovici Legasov per giustificare un grave errore amministrativo, cioè che il test fosse lasciato al turno di notte quando l’organico era inferiore e il personale stanco o non addestrato. Legasov, considerato un valente accademico e persona dalla moralità irreprensibile,[9] si suiciderà però nel giorno del secondo anniversario dell’incidente, il 26 aprile del 1988.

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8 – Piloni della rete elettrica a Černobyl’ (Commons)

Ore 14:00. Il sistema di raffreddamento di emergenza viene escluso per evitarne l’intervento automatico, che vanificherebbe il test. Questo passaggio è previsto dalla procedura e non sarà tra le cause dirette dell’incidente.[7] Quello del raffreddamento, a ben vedere, non era nemmeno il problema principale: il vero responsabile del disastro sarebbe stato il cosiddetto “coefficiente di vuoto positivo”, una caratteristica tipica del reattore RBMK. Come abbiamo visto l’elemento moderante è necessario a rallentare i neutroni affinché siano in grado di alimentare la fissione. Se il moderatore è la stessa acqua di raffreddamento, quando questa arriva all’ebollizione viene sostituita dal vapore, che ha minore capacità moderante, e la reazione diventa immediatamente sottocritica fino a spegnersi o a stabilizzarsi su una potenza inferiore. Così, se il nocciolo si surriscalda o si verifica una perdita di liquido, il reattore si spegne: il “coefficiente di vuoto” in questo caso è negativo ed è un fattore di sicurezza intrinseco. Ma non è il caso del reattore RBMK che, invece, è moderato a grafite che è un materiale solido. Se viene a mancare l’acqua di raffreddamento, per ebollizione o perdita, il moderatore resta dove si trova continuando ad alimentare la reazione in un reattore che si sta surriscaldando. Né è possibile “svuotare” la grafite semplicemente aprendo un rubinetto. Inoltre l’acqua leggera ha un blando potere di assorbire i neutroni, tolto il quale la frittata è presto fatta: in questo caso si dice che il coefficiente di vuoto è positivo. Perché si scelse di usare un sistema così instabile per costruire in un reattore tanto potente? In gran parte per ridurre i costi, seppure a discapito della sicurezza. Un nocciolo in grafite, materiale più efficace come moderatore rispetto all’acqua pesante, consentiva di usare come combustibile l’uranio “lievemente arricchito” (SEU[10]), con una concentrazione di uranio-235 non superiore al 2%, meno costoso di quello con gradi di arricchimento più elevati. Inoltre non c’era bisogno di utilizzare acqua “pesante” come moderatore, ma solo la più economica acqua leggera per il raffreddamento.

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9 – Tramonto su Pripjat’, 1986.

Ore 23:10. Su Pripjat’ è scesa la notte. La domanda di energia elettrica è inferiore e la procedura di riduzione della potenza può riprendere. V. P. Bryukhanov, il direttore della centrale, sta dormendo tranquillo nel suo appartamento nel centro della città, nel palazzo della nomenklatura che si affacciava su piazza Lenin. Gli incarichi importanti venivano spesso attribuiti in base alle logiche del partito più che a quelle del buonsenso o della necessità: il direttore, ad esempio, proveniva da impianti tradizionali e non aveva esperienza di impianti nucleari, come il capo ingegnere Nikolaj Fomin. Il vicecapo ingegnere responsabile dei reattori 3 e 4, Anatolij Djatlov, aveva esperienza con i piccoli reattori ad acqua pressurizzata installati sui sottomarini. Qui si trattava di tenere a bada un mostro migliaia di volte più potente: un demone, come quel Černobog della mitologia slava, oscura divinità il cui nome (“dio oscuro”) contiene la stessa radice čĭrnŭ (nero) da cui anche Černobyl’, che significa “erba nera”.[11]

Sala del reattore (1).

10 – Centrale di Černobyl’, sala del reattore nº1 (chnpp.gov.ua).

Ore 24:00. Cambio del turno: il personale della notte prende servizio. Il supervisore Yuri Tregub viene sostituito dal collega Aleksandr Akimov alla “guida” del reattore, ma rimane sul posto. Al contrario di quella diurna però, la squadra della notte non era stata adeguatamente istruita alla procedura del test: da programma, avrebbero dovuto solo prendere in carico un reattore spento dal pomeriggio. Come gli “accudienti”, ovvero coloro che prendono in custodia la locomotiva a vapore durante le soste e non devono necessariamente avere l’esperienza del fuochista che conduce la caldaia in corsa.

Centrale di Černobyl', sala di controllo del reattore 3.

11 – Sala di controllo (reattore 3).

Ore 00:28 del 26 aprile 1986. La potenza del reattore è scesa a 500 MW, quando le norme di sicurezza vietano il funzionamento prolungato al di sotto dei 700 MW perché l’instabilità del RBMK a bassa potenza è nota. L’operatore, l’ingegnere Leonid Toptunov, trasferisce il controllo dal sistema automatico “locale” (LAC) che controlla 12 barre, inefficace a potenza ridotta, a quello “globale” che agisce sulle altre 167 ma senza impostare sul computer il valore minimo da raggiungere.[12]



Grave errore, o forse un malfunzionamento del computer: la potenza precipita pericolosamente a 30 MW. Toptunov tenta di riguadagnare potenza estraendo le barre di controllo, ma il reattore è “avvelenato” dallo xeno-135, un prodotto di fissione che si accumula nel reattore quando si diminuisce repentinamente la potenza. In realtà questo viene prodotto anche durante il normale funzionamento dal decadimento dello iodio-135, ma viene eliminato dallo stesso processo di fissione poiché, assorbendo neutroni, diventa xeno-136 che è stabile. A bassa potenza o a reattore spento il flusso di neutroni viene a mancare e lo xeno-135 si accumula nel reattore. Assorbendo i pochi neutroni in circolazione agisce più o meno come le barre di controllo, limitando la reazione a catena fino a spegnerla. Il che, però, costituisce un serio problema perché falsa le letture degli strumenti, mascherando la normale reattività del nucleo, ma poi decade naturalmente liberandone di nuovo la potenza: è come avere delle barre di controllo supplementari invisibili, che si dissolvono lentamente. Per questo quando viene spento un reattore è necessario attendere due o tre giorni perché lo xeno-135 (che ha un tempo di dimezzamento di poco più di 9 ore) porti a compimento il suo processo di decadimento naturale eliminandosi. L’ingegnere capo Djatlov, descritto dai colleghi come irascibile e duro di comprendonio,[13] non vuole doversi giustificare con Mosca per un ritardo nel test e fa quindi pressione perché si stabilizzi il reattore in qualche modo e si prosegua con il programma, nonostante tutto suggerisca di interrompere.

  • rbmk-pattern

  • 12 – Schema del nocciolo del reattore 4.
     barre di controllo (167);
     barre di controllo automatiche, LAC (12);
    barre di controllo supplementari, sono più corte ed entrano dal basso (32);
    sorgenti di neutroni per l’accensione (12);
    tubi acqua/vapore in pressione, possono contenere anche le barre di combustibile (1661).

Ore 00:43:27. Secondo la ricostruzione della World Nuclear Association[14] vengono disabilitati i controlli di sicurezza dei turbogeneratori, per prevenire l’interruzione automatica del test. La turbina numero sette era già stata esclusa per convogliare tutta la pressione disponibile sulla numero otto. Altro errore, perché significava eseguire il test senza una turbina di backup.

Ore 1:00. Nonostante solo 18 barre di controllo siano inserite, il reattore avvelenato dall’accumulo di xeno-135 raggiunge a malapena una potenza di 200 MW, abbondantemente al di sotto della soglia di sicurezza. Gli operatori attivano alla 1:03 ed alla 1:07 due pompe di raffreddamento supplementari oltre alle sei già in funzione per assicurare un adeguato raffreddamento del nocciolo dopo il test. A piena potenza termica, la pressione del vapore nel nocciolo genera una forte resistenza idraulica che le pompe devono vincere per poter garantire la circolazione dell’acqua di raffreddamento. Ma a una potenza così bassa, la pressione del vapore non riesce a contrastare le pompe che finiscono per spingere 60 000 m³/ora di acqua in un impianto progettato per 45 000 m³/ora. Il circuito va in cavitazione, i tubi vibrano minacciosamente, la pressione del vapore scende ulteriormente a causa del raffreddamento lasciando posto all’acqua, la cui capacità di catturare i neutroni lenti fa diminuire ulteriormente la potenza.

Ore 1:19. Secondo Grigori Medvedev, vice-capo ingegnere del reattore nº 1 e autore del libro The Truth about Chernobyl, a questo punto il disastro poteva ancora essere evitato rinunciando al test e riducendo gradualmente la potenza fino allo spegnimento. Anche quest’ultima occasione viene sprecata: per contrastare questa ulteriore perdita di potenza dovuta all’eccesso di acqua vengono estratte ulteriori barre di controllo. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto intervenire automaticamente erano già stati disattivati.

Ore 1:22:30. Restano solo 8 barre di controllo inserite nel nocciolo, quando il minimo previsto dalle norme di sicurezza è 15.[14] Gli operatori hanno ridotto manualmente il flusso di acqua per ripristinare la pressione del vapore, il reattore sembra stabilizzarsi ma la reazione è avvelenata dallo xeno-135. Toptunov osserva perplesso una stampa del computer: i parametri che vede suggeriscono un immediato spegnimento di emergenza del reattore. Esita, in fondo il computer può sbagliare, poi riferisce ad Akimov e Djatlov. Entrambi trovano i dati inquietanti, ma Djatlov ripone piena fiducia nella solidità della tecnologia sovietica: «Ancora due o tre minuti e sarà tutto finito, muoviamoci ragazzi!». L’ingegnere elettrico addetto alle misurazioni, Gennady Petrovich Metlenko, annuncia che l’oscillografo è acceso e pronto a misurare. È il segnale.

Il demone Černobog si sveglia, e non trova nessuna gabbia a contenerlo perché tutte le barre di controllo erano state estratte.

Ore 1:23:04. Igor Kershembaum, ingegnere capo addetto alle turbine, chiude la valvola che manda il vapore al turbogeneratore numero otto dando inizio alla fase cruciale del test. La turbina inizia a rallentare, la previsione è che riesca a produrre per inerzia l’energia sufficiente ad alimentare le pompe di raffreddamento. Gli elettricisti registrano sugli strumenti il calo di potenza elettrica. Alla chiusura della valvola di uscita, però, il vapore resta intrappolato nel nocciolo: le pompe avrebbero bisogno di maggiore energia per vincerne la pressione, ma sono sottoalimentate perché l’unica turbina si sta fermando e non ce la fanno. Il flusso d’acqua refrigerante si riduce drasticamente, il nucleo si surriscalda e l’acqua che si trova all’interno diventa vapore. Qui entra in gioco il “coefficiente di vuoto positivo”: senza più acqua ad assorbire i neutroni, l’effetto moderante della grafite prevale e la potenza inizia improvvisamente ad aumentare. Il demone Černobog si sveglia e non trova nessuna gabbia a contenerlo, perché quasi tutte le barre di controllo sono state estratte.

Ore 1:23:40. Alexandr Berezin, ingegnere capo addetto al monitoraggio del pannello, preme il pulsante AZ-5 che corrisponde al comando di “scram“, l’abbassamento contemporaneo di tutte le barre di controllo. Non è chiaro se lo scram viene eseguito a seguito dell’improvvisa ondata di potenza o se, come avrebbe scritto in seguito Djatlov, semplicemente perché si ritiene concluso l’esperimento. Le barre di controllo in carbonato di boro, come abbiamo visto, dovrebbero assorbire i neutroni placando la reazione a catena; ma per uno sconcertante errore di progettazione hanno terminali di alluminio lunghi un metro pieni di grafite: abbassandole tutte insieme si ottiene che per i primi istanti si introduce dell’altro moderante (la grafite) che prende il posto dell’acqua causando inizialmente un ulteriore aumento di potenza. L’abbassamento completo delle barre avrebbe richiesto 18–20 secondi, ma in soli quattro secondi la potenza raggiunge un livello pari a mille volte quello nominale.[15] In condizioni normali, un aumento di temperatura avrebbe causato una diminuzione della reattività dell’uranio, stabilizzando così il reattore: è il cosiddetto “coefficiente di temperatura negativo”. L’incremento di potenza è però troppo improvviso e violento, il coefficiente di vuoto ha il sopravvento su quello di temperatura. Il nocciolo raggiunge i 2000 °C, i canali si deformano per il calore bloccando la discesa delle barre di controllo a circa 2/3 della corsa e rendendo così impossibile il completamento dello scram: il reattore è definitivamente fuori controllo, è il meltdown nucleare. Gli operatori sganciano il meccanismo di manovra della barre, sperando che queste scendano per gravità, ma senza successo. Intanto, a causa dell’altissima temperatura, l’acqua presente nel nocciolo si scinde in ossigeno e idrogeno, quest’ultimo si combina con il carbonio della grafite formando metano: il reattore si riempe così di gas altamente infiammabili.

L’esplosione

 "Chernobyl. Ultimo giorno di Pripjat" Dipinto di Alexey Akindinov

13 – Chernobyl. L’ultimo giorno di Pripjat, dipinto di Alexey Akindinov, 2014 (Commons).

Ore 1:24 del 26 aprile 1986. La pressione del vapore causa una violenta detonazione che solleva la piastra di copertura del reattore pesante mille tonnellate e distrugge il tetto dell’edificio, lasciando scoperto il nocciolo del reattore all’aria esterna: pochi istanti dopo l’ossigeno presente nell’atmosfera si mischia con i gas infiammabili creando una miscela che, a contatto con la grafite incandescente, provoca una seconda, violentissima esplosione. Frammenti di grafite, uranio, tubature, barre di controllo ed altri materiali fortemente radioattivi vengono proiettati fino ad un chilometro di distanza, il catrame del rivestimento del tetto si incendia. L’edificio è poco più di un capannone industriale: il reattore RBMK era troppo grande per realizzare una struttura di contenimento che, oltretutto, non era ritenuta fondamentale in virtù della perfezione della tecnologia sovietica. Nei minuti seguenti alle due esplosioni i tecnici non hanno un’idea della portata del disastro. Akimov è convinto che il reattore sia integro e resta nella struttura. Gli strumenti utilizzati per le prime misurazioni sono del tutto inadeguati ad una emergenza: hanno fondo scala ad appena 3,6 Röntgen/ora. Il direttore Bryukhanov, svegliato nel cuore della notte da una telefonata nel suo appartamento di Pripjat’, comunica a Mosca il valore indicato dagli strumenti, ma in un secondo tempo ci si accorge che nei pressi del reattore nº4 la radioattività è cinquemila volte superiore: quando all’esterno vengono registrati valori incredibili, che raggiungono i ventimila Röntgen/ora, si pensa inizialmente che la strumentazione sia guasta e il problema continua ad essere sottostimato. Intanto i pompieri, ai comandi del tenente Vladimir Pravik, arrivano in pochi minuti dalla vicina caserma di Pripjat’ e sono già sul tetto dell’edificio nel tentativo di spegnere l’incendio; ignari del pericolo e privi di qualunque protezione efficace, a pochi passi dalla cosa più radioattiva che l’umanità avesse mai conosciuto fino ad allora. Sarebbero tutti morti nel giro di qualche giorno.

Ore 5:00. I pompieri hanno spento i focolai di incendio, ma la grafite del nocciolo è ancora in fiamme. L’acqua delle lance non riesce a placare il fuoco e si trasforma immediatamente in vapore radioattivo. Si decide quindi di ricorrere agli elicotteri militari per gettare sul nocciolo pesanti sacchi di sabbia addizionata di boro (il materiale usato per le barre di controllo), piombo e dolomia: anche gli equipaggi di questi velivoli si esporranno così ad elevatissime dosi di radiazioni. Intanto, sebbene le voci comincino a diffondersi, gli abitanti di Pripjat’ restano ufficialmente all’oscuro di quanto sta accadendo fino alla mattina del 27 aprile, quando viene finalmente dato l’ordine di evacuazione della città.

Centrale di Černobyl’ (CNPP): il reattore 4 distrutto, 28 aprile 1986.

14 – Il reattore 4 distrutto dall’esplosione, in una foto aerea scattata poco dopo l’incidente, il 28 aprile 1986.

Lunedì 28 aprile. Le autorità sovietiche ed ucraine tentano di mantenere il silenzio, ma la nube radioattiva si sta già diffondendo verso l’Europa. Alla centrale nucleare di Forsmark, in Svezia, viene rilevata una quantità anomala di radiazioni dalle scarpe di un tecnico di ritorno da una pausa. Scatta l’allarme, ma dai primi accertamenti sembra che la contaminazione non arrivi dal reattore: viene da fuori. Basta poco, agli svedesi, per capire che la fonte è un’immensa nube che sembra provenire da oltre la cortina di ferro. Da Mosca arrivano solo risposte vaghe, ma i satelliti spia americani fotografano l’incendio dimostrando in modo incontrovertibile che qualcosa è successo e la notizia si diffonde in tutto il mondo con un impatto emotivo enorme. Anche, finalmente, “oltre cortina” dove si stima che il 36% dei sovietici abbia appreso la notizia prima da una radio occidentale che dagli organi di informazione del proprio paese.

A partire da quelle esplosioni nucleari i fondamenti della vita si sono rivelati come un terno al lotto. E la stessa aureola di infallibilità e sicurezza basata sui fondamenti delle scienze si è disintegrata.[16]Ulrich Beck, sociologo tedesco.
Martedì 29 aprile. A seguito delle pressioni internazionali, l’agenzia di stampa del Cremlino annuncia in modo telegrafico che a Černobyl’ c’è stato un non meglio precisato “incidente”. Ci vogliono nove giorni per domare l’incendio e quasi cinquemila tonnellate di materiale. La sabbia, fondendosi per il calore, forma una prima coltre protettiva che inizia a contenere le radiazioni, ma il peso di tutto quel materiale rischia di far collassare la struttura. Sotto il reattore si trovano grandi vasche piene d’acqua, che avrebbero dovuto abbattere il vapore in caso di rottura del circuito di raffreddamento.
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15 – Minatori privi di protezioni scavano il tunnel di raffreddamento.



Si teme che il nocciolo possa sprofondare cadendoci dentro e provocando così una enorme, catastrofica esplosione di vapore. Si prende così la decisione di inviare una squadra di sommozzatori che, consapevoli dei rischi della missione, si immergono eroicamente nell’acqua altamente contaminata per azionare manualmente le valvole che avrebbero svuotato le vasche. Ma non basta: la centrale “V.I. Lenin” era stata costruita nel bel mezzo delle paludi del fiume Pryp’jat’, l’acqua è ovunque. Se fosse entrata in contatto con il materiale fuso avrebbe potuto causare una violenta esplosione di vapore, senza contare la contaminazione delle falde. Per scongiurare il disastro viene scavato a braccia un tunnel di raffreddamento sotto il reattore, in condizioni di temperatura e radioattività proibitive. Sul tetto dell’edificio la quantità di radiazioni è talmente elevata da causare problemi ai circuiti dei robot telecomandati che devono rimuovere i frammenti di grafite.

Černobyl’, 1986: militari si preparano a salire sul tetto

16 – I militari dell’armata rossa (i cosiddetti “bio-robot”) si preparano a salire sul tetto per rimuovere i frammenti di grafite.

Si deve ricorrere di nuovo agli esseri umani, i riservisti dell’Armata Rossa: 3500 soldati, cinicamente soprannominati “bio-robot”, lavorano per dieci giorni con un livello di radioattività di 10–12 mila Röntgen/ora. Male equipaggiati con protezioni in piombo cucite su una normale uniforme militare, nonostante il tempo di permanenza non superiore a 45 secondi per turno la maggior parte di loro sarebbe morta nel giro di pochi mesi o avrebbe riportato infermità permanenti. Intanto, intorno alla centrale si svolge una colossale operazione di bonifica: 300 mila metri cubi di terra vengono rimossi ed interrati dai bulldozer telecomandati insieme al materiale contaminato.


Entro sette mesi dall’esplosione, a novembre 1986, viene completato il cosiddetto “sarcofago” progettato dall’ingegnere Lev Bocharov, una struttura di contenimento fatta di 400 mila m³ di calcestruzzo e 7300 tonnellate di ferro.[17] Queste persone — pompieri, militari, riservisti, personale sanitario e volontari civili — che con ammirabile abnegazione lavorano alla messa in sicurezza del sito saranno in seguito chiamati “liquidatori” (ликвидаторы); status che avrebbe garantito loro, in cambio del sacrificio della propria vita, una medaglia, una paga per le ore di servizio ed una pensione anticipata che molti di loro non riusciranno comunque a raggiungere.

Centrale di Černobyl’ (CNPP), 1986: inizio della costruzione del cosiddetto "sarcofago".

17 – Inizio della costruzione del cosiddetto “sarcofago”, 1986.

Le conseguenze dell’incidente furono pesantissime: 65 le vittime dirette, più un numero di vittime presunte che va dalle quattromila persone stimate dal Chernobyl Forum[18] dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’ONU alle 30–60 mila stimate da un rapporto del Partito Verde Europeo,[19] fino alle centomila stimate da Greenpeace,[20] oltre ad un numero non precisato di malattie ed invalidità.[21] Lo stress dell’evacuazione forzata e lo sradicamento dalle proprie relazioni sociali, le paure per effetti sulla salute a lungo termine e l’emarginazione causarono depressione, disturbi psicosomatici e da stress post-traumatico, con conseguenti suicidi, alcolismo e uso di droghe.

A radioactive sign hangs on barbed wire outside a café in Pripyat.

18 – Filo spinato davanti al Cafè Pripyat’

Leningrad, Kursk, Smolensk, Ignalina: nonostante gli incidenti si susseguissero, nessuno di questi fu reso noto e nessuno si preoccupò di prendere misure adeguate per migliorare la sicurezza del reattore.

Di chi fu la responsabilità di tutto ciò? Le autorità sovietiche incolparono interamente il personale della centrale per salvare la faccia al Partito: nell’agosto del 1986 si tenne un processo-farsa a porte chiuse, per il quale la procura generale aveva già stabilito a tavolino le colpe e le pene dando precise istruzioni ai giudici.[22] Berezin viene incolpato di avere premuto troppo tardi il pulsante di scram, quando successive ricostruzioni dimostreranno l’inconsistenza di tale accusa. Il direttore Bryukhanov, l’ingegnere capo Fomin, il vicecapo ingegnere Dyatlov ed altri ritenuti responsabili furono condannati alla reclusione fino a dieci anni con lavori forzati; 67 persone furono licenziate e 27 espulse dal Partito Comunista. Considerato che nel sistema sovietico avrebbero potuto essere fucilati (se solo le autorità supreme avessero così disposto) andò loro abbastanza bene.

Iodio 131. Cesio. Spiegazioni da parte di altri scienziati che contestano ciò che hanno detto i primi; e sono furibondi e perplessi. Tutto questo, insieme a ciò che veicola le sostanze radioattive, per esempio la pioggia, ora ci scorre addosso.[1]Christa Wolf

Nonostante l’enorme mole di studi prodotti sull’incidente, ancora oggi non esiste una ricostruzione universalmente condivisa di ciò che accadde quella notte tra il 25 ed il 26 aprile del 1986. Sicuro è che le premesse per una catastrofe c’erano tutte: già nel febbraio del 1979, un rapporto segreto del KGB al Comitato Centrale riferiva che «alcuni cantieri di lavoro che stanno costruendo il blocco nº 2 della centrale di Černobyl’ lavorano senza alcun rispetto delle norme, delle tecnologie di montaggio e di costruzione definite.»[23] Il rapporto evidenzia elevati scarti (fino a 150 mm) nel montaggio degli elementi prefabbricati e una non corretta esecuzione dell’isolamento delle fondazioni: «Il danneggiamento dell’isolamento idraulico rende possibile un’inondazione della superficie della centrale in seguito alla risalita delle acque sotterranee e può anche portare a perdite radioattive nell’ambiente.» Inoltre, «le fabbriche di calcestruzzo operano senza alcuna regolarità, la loro produzione è di qualità scadente. La colata di calcestruzzo è stata più volte interrotta e ciò ha causato la comparsa di difetti…»[23]

rbmk-cut

19 – Sezione del reattore RBMK-1000 negli elaborati progettuali della centrale di Černobyl’ (chornobyl.in.ua).

Oltre all’approssimazione con cui vennero condotti i lavori e alle importanti discrepanze dal progetto,[24] di per sé il reattore RBMK era stato sviluppato con criteri di economia e presentava problemi noti ai progettisti: il coefficiente di vuoto positivo ed il comportamento anti-intuitivo dato dai terminali in grafite delle barre di controllo erano i più eclatanti. Già nel 1975 si era verificato un incidente minore alla centrale di Leningrad (San Pietroburgo) dovuto a queste vulnerabilità. Solo un anno dopo, un incidente simile si verificò al reattore nº 1 di Černobyl’. Poi a Kursk, a Smolensk, nel 1983 ad Ignalina in Lituania. Nonostante gli incidenti si susseguissero, nessuno di questi fu reso noto e nessuno si preoccupò di prendere misure adeguate per migliorare la sicurezza del reattore. Prassi diffusa nell’Unione Sovietica era che i funzionari di ogni ente e livello, preoccupati dell’avanzamento di carriera nella nomenklatura più di ogni altra cosa, tacessero o mentissero sulle complicazioni per non indisporre i superiori. Le autorità centrali, da parte loro, erano più interessate alla propaganda che a inezie come la sicurezza di un reattore nucleare da 3,2 GW e non esitavano a loro volta a mentire per preservare l’immagine di invincibilità del comunismo: «probabilmente — scrive Pavel Nică, giornalista moldavo inviato a Černobyl’ nell’87 – raccontare bugie è una malattia da cui non è facile curarsi, oppure si guarisce solo raccontando altre bugie».[9] Come se ciò non bastasse, il paese soffriva di una cronica arretratezza tecnologica[25] che, anche quando ce ne fosse stata la volontà, rendeva difficoltosa la risoluzione dei problemi. Insomma, le cause del disastro sono forse da ricercare non tanto (o non solo) negli errori di procedura commessi dagli operatori, quanto invece nei problemi endemici di un regime che iniziava a mostrare i suoi limiti e che di lì a pochi anni, tra il 1990 ed il 1991, sarebbe collassato. A “scoppiare” quella notte non fu solo il reattore, ma anche l’intero sistema sovietico.

Note

  1. [1]Wolf, Christa Guasto — notizie di un giorno. Roma: Edizioni E/O , 1997. Pag. 34 e 47. ISBN 88-7641-308-1
  2. [2]Dette anche “barre di moderazione”: nell’articolo evitiamo questo termine per evitare confusione con il “moderatore” che ha funzione opposta.
  3. [3]Elemento con proprietà intermedie tra quelle dei metalli e dei non metalli.
  4. [4]AAVV The First Reactor Washington DC: U.S. Department of Energy, 1982. Pag. 14.
  5. [5]Wellock, Tom “Putting the Axe to the ‘Scram’ MythU.S.NRC Blog US Nuclear Regulatory Commission. 3 Mar. 2016. Web.
  6. [6]Fermi, Enrico “Experimental production of a divergent chain reaction“. 1951.
  7. [7]cfr. World Nuclear Association (op. cit.)
  8. [8]Il cosiddetto “controllore” o “dispacciatore”.
  9. [9]cfr. Nică (op. cit.)
  10. [10]SEU, Slightly Enriched Uranium.
  11. [11]Riferimento all’artemisia (Artemisia vulgaris), pianta erbacea molto comune nella zona
  12. [12]Altieri, pag. 45 (op. cit.)
  13. [13]Medvedev, pag. 52 (op. cit.)
  14. [14]WNA (op. cit.)
  15. [15]Lewins, pag. 20. (op. cit.)
  16. [16]in L’espresso nº 28 anno LIII, 19 luglio 2007, p. 107.
  17. [17]Ebel, Robert E.; Chernobyl and its aftermath: a chronology of events (1994 ed.). Washington D.C; CSIS. ISBN 978-0-89206-302-4.
  18. [18]Rapporto del Chernobyl Forum, incontro istituzionale promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica tenutosi a Vienna tra il 2003 ed il 2005, cui parteciparono altre organizzazioni dell’ONU, Banca Mondiale, autorità della Russia, Bielorussia e Ucraina: “Chernobyl’s Legacy: Health, Environmental and Socio-Economic Impacts and Recommendations to the Governments of Belarus, the Russian Federation and Ukraine” (PDF), International Atomic Energy Agency, pp. 16-17.
  19. [19]Rapporto “TORCH” (PDF) ovvero The Other Report on Chernobyl.
  20. [20]Chernobyl, il costo umano di una catastrofe” (PDF) 2006.
  21. [21]L’incidenza di tumori alla tiroide ha avuto un’incremento drammatico nelle aree di Russia, Bielorussia ed Ucraina (curabili nel 90% dei casi), tuttavia ci sono discordanze sul numero di casi attribuibili all’incidente. Gli studi epidemiologici non hanno evidenziato fluttuazioni significative di altre patologie in conseguenza dell’incidente.
  22. [22]Nică, pag. 23 (op. cit.)
  23. [23]Dundovich, pag. 75–76 (op. cit.)
  24. [24]Nică, pag. 32 (op. cit.)
  25. [25]Dundovich, pag. 73 (op. cit.)

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. Archivio Vlaskin Ivan Ivanovich, © Pripyat.com.
  2. United States Department of Energy [PD] Commons.
  3. Annuale/Quark48, 2008 [CC-BY-SA 2.0] Commons.
  4. Yu. Yevsyukov, 1986, dal libro “Припятъ” (Pripyat) Kiev: ed. Mistectvo, 1986  (da chnpp.gov.ua)
  5. [PD] Commons.
  6. Bkleinf2, 2011, Idaho National Laboratory Arco [CC-BY-SA 3.0] Commons.
  7. © ChNPP Chernobyl Nuclear Power Plant (chnpp.gov.ua).
  8. calflier001, Set. 2013 [CC-BY-SA 2.0] Commons.
  9. 1986, Pripjat; dall’archivio dell’organizzazione dei liquidatori “Zemlyaki”.
  10. © ChNPP Chernobyl Nuclear Power Plant (chnpp.gov.ua).
  11. Chernobyl Wiki [CC-BY-SA 3.0] Wikia.
  12. [PD] Commons.
  13. Alexey Akindinov, “Chernobyl. L’ultimo giorno di Pripjat” (dipinto) [CC-BY-SA 4.0] Commons.
  14. U.S. Department of Energy.
  15. da un filmato dell’epoca, 1986.
  16. Chernobyl Wiki [CC-BY-SA 3.0] Wikia.
  17. Chernobyl Wiki [CC-BY-SA 3.0] Wikia.
  18. D. Markosian. One Day in the Life of Chernobyl, VOA News, 28-12-2011. [PD] Commons.
  19. ISTC “Ukritie”/chornobyl.in.ua.
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Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.