La parola latina fascinum, da cui la nostra parola fascino indicante qualcosa di un’entità estranea che ci attrae irresistibilmente, indicava nei secoli classici (per lo meno tra I a.C. e IV d.C.) niente meno che un fallo di proporzioni apprezzabili, proprio per l’associazione di idee tra la voluminosa “fascina” di legno da ardere ai sacri altari e ciò che ci si aspettava dall’anatomia di un romanus antiquus degno di risparmiare chi si sottomette alla sua volontà e togliere la voglia di fare guerra (parcere subiectos et debellare superbos di virgiliana memoria, col suo de -che sottolinea l’atto di sfinito cedimento dall’alto verso il basso postcoitale- e bellare -perdere qualsiasi voglia di dare qualsivoglia battaglia- a coloro che rialzano verso l’alto –super– la testa).
Paul Veyne ed Eva Cantarella definiscono senza imbarazzo e con fondamento storico-scientifico l’imperium romanum, almeno dalla tradizione augustea, testimoniato dai sopracitati versi di Virgilio, una vera e propria fallocrazia di stampo patriarcale e maschilista.[1] Augusto voleva affermare Roma come atavica potenza nel mondo conosciuto e conquistato, e il mondo conquistato, per la maggior parte, parlava greco. Poemi, opere storiche, sculture, pitture, vasi, ogni aspetto della vita intellettuale e materiale aveva l’onere di dare una forma e una fama greca a Roma. A questo disegno partecipa anche un dio che viene dalla fine del mondo greco, dalle coste di un’isola dell’Ellesponto, da Lampsaco[2] per essere precisi, protettore dell’abbondanza delle attività produttive e commerciali di qualsivoglia tipo, dall’abbondanza dei pesci nelle reti a quella del raccolto nei campi, a quella dell’attività riproduttiva degli animali (uomini in primis) al fine di avere abbondanza di prole. Il suo nome è Priapo e sbarca a Roma, vento in poppa e fallo al vento, per volontà di Augusto, per prendere il posto di un dio latino e rendere greco e rispettabile il culto della fecondità. Il vecchio dio latino da pensionare si chiamava Matunus Tutunus, ed era un dio molto offensivo per la sensibilità censoria del princeps Augusto, poiché a lui era legata una tradizione matrimoniale non proprio ortodossa per il padre delle moralizzatrici leges Iuliae: appena entrata nella casa dello sposo, la sposa romana, vergine, doveva offrire la propria innocenza a Matunus Tutunus in cambio di fecondità e prosperità per la famiglia che stava per nascere, e doveva fare ciò strusciandosi su uno sgabello che, al posto della piatta seduta, presentava un prosperoso fallo. [3] Un dio latino così poco serio con le fanciulle romane che Augusto voleva sempre più tenere sottochiave fu prontamente scacciato dal tempio che occupava sul Celio da Augusto in persona, e spostato fuori dalle mura, dove la civile romanità non potesse vederlo. [4] Il suo posto non fu però subito preso da Priapo in uno sfavillante e marmoreo tempio, ma sottilmente distribuito per tutto il territorio come nei migliori film complottisti. Il culto del dio cominciò ad essere impiantato nelle campagne, nei villaggi e nei piccoli municipi con edicole, sacelli, statuine di legno sbozzato o terracotta, ognuno posto nei crocicchi di campagna, nei piccoli orti ad angolo dei vici di Roma e delle altre città italiche.
Queste statue presentavano tutte pochi ma essenziali attributi: una falce (che mostrasse l’appartenenza del dio alle attività agricole e quindi a tutto ciò che tirava fuori abbondanza dalla grande madre terra), una lunga veste, e, ovviamente, un fallo (e un fascino) di grande effetto ed efficacia. I reperti archeologici raffiguranti il dio mostrano (s)proporzioni significative: il fallo può arrivare ad essere anche ½ dell’altezza della statua, ma la media (almeno per i reperti visionati autopticamente dalla sottoscritta) si assesta ad 1/3 dell’altezza[5] Il culto, se all’inizio prese piede nelle piccole realtà, conquistò in breve una vita propria e si costruì una propria tradizione associandosi ai culti apotropaici latini.
Il buon Priapo di Lampsaco, strappato alla sua isola, divenne un affare molto più grande di quello che aveva tra le gambe. Le statue, i sacelli, i tempietti divennero la dimora dei più disperati credo: culto della libidine maschile, culto della fecondità, culto dell’amabilità delle donne, culto di rabbia contro chi cercava di strappare a ogni buon romano le proprie origini e i propri sudati guadagni. Priapo conquista a Roma e in Italia soprattutto due valenze “aggressive”:
- Egli è difensore degli orti e dei campi, con la falce lucida, il membro dipinto di rosso paonazzo, e dei versi minacciosi appesi al pene o alla base dell’edicola, minaccia il ladro che si avvicina all’orto e che tenta di rubare ciò che il vilicus ha faticosamente fatto crescere. Se il ladro si avvicina non solo sarà malmenato dal padrone che lo coglierà in fragrante, ma sottoposto a sgradevoli prestazioni sessuali da parte del “grande” dio che ha osato sfidare: «Evita di farti prendere, perché una volta preso non te le darò di santa ragione,
né ti infliggerò crudeli ferite con la falce ricurva:
trafitto dalla mia verga, conto che ti allargherai talmente tanto
che penserai di non avere più una grinza nel culo.»[6] minaccia un carme che vuole imitare letterariamente una di queste rustiche e vitali iscrizioni; -
Egli diventa apotropaico difensore dei morti, tiene lontano il male dai sepolcri e i ladri dai mausolei; significativa un’iscrizione trovata all’entrata di un colombario (un sepolcro simile ai nostri “fornetti”, ma ad incinerazione) nei pressi di Roma, che recita: «Custode del sepolcro col pene sempre sull’attenti sono io il dio Priapo, signore della vita e della morte.»[7]
Nella sua triste aggressività possiamo scorgere tutto il mistero di una divinità che era arrivata a rappresentare il sentire del populus romanus: era il dio sì dell’abbondanza, ma soprattutto della conquista, era sì il dio della fertilità dei campi, ma soprattutto il difensore di quello che veniva ottenuto col duro lavoro, era sì il dio dal fallo sempre sull’attenti, ma soprattutto un dio che offriva protezione a tutti coloro che volessero godersi qualcosa o qualcuno, e mantenerne a lungo il possesso. In lui si concentra tutto quello che è la crisi dell’avvento dell’impero: enormi ricchezze nelle mani di poche famiglie aristocratiche; un lavoro schiavile intenso e intensamente sfruttato che toglie al piccolo proprietario terriero anche la sola prospettiva di guadagnare, come colono altrui, ciò che gli manca per la sussistenza; una società sempre più multietnica, variopinta, senza più alcuna regola che funga da modello per i rapporti interpersonali tra uomo, donna, bambino e anziano, in cui si fatica a trovare una qualche affettività o anche solo un rapporto di protezione dal caos delle identità e dei sentimenti; una religiosità, prima tutt’uno con le istituzioni e le gerarchie familiari, che non è diventata altro che forme solenni e politiche da una parte e filosofia tardoellenistica spicciola (Epicuro in pillole e Stoà in supposte) tra il vulgus. Il suo essere signore della vita e della morte tinge il suo rosso fallo della rabbia per una vita senza umanità ma che finisce con la morte umana. In definitiva Priapo, scelto da Augusto per diventare il nuovo dio, maschile e greco, della fecondità per la nuova middleclass romana diventa un simbolo per molti gruppi di persone a cui non era destinato:
Non mi ha fatto Prassitele o Scopas
non sono stato limato dalla mano di Fidia
ma un contadino mi sbozzò rudemente nel legno e mi disse “Sii Priapo!”
Priapea, X
tuona un carme. Un esempio sconvolgentemente eloquente sono i poeti dell’epoca augustea e immediatamente successivi, quelli che rifiutavano il regime dicendo che era più importante fare all’amore con le romane che alla guerra contro i Germani, i così detti elegiaci che, con forme alessandrine, ne faranno un loro eroe, e faranno anche un vero e proprio genere della poesia di versi spiccioli che adornano la base delle statue.
Sfogliando i Carmina Priapea, che portano anche i nomi di Albio Tibullo, padre degli elegiaci, che non vorrà mai essere protetto da Mecenate, e di un giovanissimo Virgilio (ancora molto fan del Catullo più aggressivo) prima della conversione alla causa augustea. Questi poeti combattono la loro battaglia intellettuale nientemeno che attraverso la voce di un dio dei crocicchi, un dio greve che sputa tutta la sua rabbia e gli improperi contro un mondo che cambia troppo in fretta e che lascia moltissimi smarriti, protettore di chiunque non si chiami Giulio, Iunio, Cornelio, ma voglia conquistarsi ugualmente un posto nel mondo con la forza sconvolgente della propria vitalità. I Carmina Priapea ci offrono spesso meravigliosi spaccati di vita. Priapo è qui il dio che accontenta il padrone del campicello con tre alberi di mele punendo il ladro[8] con la propria verga, quasi terribile manganello antifurto; è il dio delle prostitute[9] delle ballerine[10] che riescono a mantenere vivo l’interesse delle loro platee. Con i compensi della prostituzione esse spesso possono comprarsi la libertà e allora ringraziano con ex voto e con libagioni il dio che ha donato loro un po’ della propria capacità di tenere alto l’interesse dei loro clienti; è anche dio dei malati, che miracola uno dei forse più antichi casi di prostata conosciuti per testimonianza letteraria:
essendo il mio pene fortemente malandato
e temendo la mano del chirurgo,
avevo timore di affidarne la cura a dei legittimi e parecchio importanti
come Febo Apollo o suo figlio (Esculapio);
dissi allora: ‘presta soccorso o priapo a questa parte di me,
della quale, o padre, tu stesso sei parte;
una volta che sarà salva senza operazioni,
ti sarà posto qui nel tempietto un ex voto dipinto,
uguale alla vera per dimensione e per colore.
Priapea, XXXVII
È dio delle giovani donne curiose di esplorare la sessualità e delle non più giovani che non vogliono perderla e che, seppur talvolta di malavoglia, aiuta donando il suo potere di attirare il fallo maschile o lasciandosi stuprare attraverso la propria effigie, o ancora offrendo rifugio nel suo tempietto ai giovani amanti che non vogliono farsi scoprire.[11] Il dio chiede poco, nell’economia del culto, in cambio. La tradizione vuole che, in cambio della sua protezione, gli si offrano cose semplici, anche in questo difendendo uno status rappresentativo dei suoi adepti: libagioni con i prodotti di quegli orti e quei campi che protegge, mele, grano, primizie, corone di fiori per il suo membro dalle fanciulle e dalle donne che aiuta, e solo quando possibile, il sacrificio di un piccolo animale, anche quello di provenienza domestica; i dati archeologici testimoniano in più una grande quantità di ex voto anatomici, soprattutto fallici, che sembrano indicare una forte credenza in Priapo quale dio della guarigione, e anche una sua efficacia relativa nel campo medico/miracolistico. In conclusione il culto di Priapo ha esercitato, dalla sua venuta a Roma, un grande fascino umano per la società dell’epoca augustea e per le società successive fino all’affermarsi del cristianesimo, un fascino che, in un piccolo particolare, è riuscito a sopravvivere fino ad oggi…
Tirate fuori dalla tasca dei pantaloni le chiavi della macchina, il portachiavi magari è vecchio e vostra madre, santa donna, «perché non si sa mai», vi ha regalato un cornetto rosso da legarci insieme. Chiedetevi perché, secondo la versione ufficiale, un corno del diavolo debba portarvi fortuna nella vita e difendervi dal malocchio… troverete che invece l’arnese che avete in mano, signori, assomiglia (anzi, ne è il rimasuglio) al fallo di Priapo. Strappato alle statuette e ai bronzetti ancora con la tintura rossa sopra, magari un po’ limato, affinché un vescovo Ambrogio che ve lo vedesse a messa nel IV secolo d.C. non capisse che strana origine avesse quella specie di stanga appuntita che qualche vostro avo si portava sempre appresso, eccolo è riuscito a sopravvivere spacciandosi per un corno. Una piccola fictio che ci ha conservato indenne attraverso i secoli il fascinum di un dio simbolo della vitalità umana
Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma. |
Amore e sesso nell’antica Roma |
Note
- [1]E. Cantarella, Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, Milano: Feltrinelli, 2011. pp. 20-25;↩
- [2]P. Fedeli, “Introduzione”, in E. Sella (a cura di), Inni a Priapo, Roma: Salerno Editrice, 1997, p. 8;↩
- [3]D.Puliga, Percorsi della cultura latina. Per una didattica sostenibile, Firenze: Carocci, 2004↩
- [4]C. Vivaldi (a cura di), Carmi Priapei, Roma, 1996, p.10;↩
- [5]Un esempio: per una statua con rappresentata una figura virile di 1,50 m si poteva avere un fallo che andava dai 35 ai 65 cm per le statue di legno, le dimensioni potevano scemare, anche se non significativamente, per le statue di marmo o di terracotta, che avevano problemi di “statica” non avendo la materia prima l’elasticità del legno.↩
- [6]Priapea, XI;↩
- [7]CIL VI, 3708:↩
- [8]Priapea, XI;↩
- [9]Priapea, XXXIV e XL;↩
- [10]Priapea, XXVII;↩
- [11]Priapea, XIV;↩
Immagini
- foto: W. Sauber. Statua di Venere e Priapo (dettaglio), Museo Romano di Weißenburg (Baviera) [CC-BY-SA-3.0] Commons
- Classical Numismatic Group, [CC-BY-SA-2.5] Commons
- foto: M.L. Nguyen. Museo Archeologico Nazionale di Napoli [PD] Commons
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