nostalgia, ricordo, rimpianto della Repubblica Democratica Tedesca; che può andare dal semplice revival modaiolo di vecchi marchi (soprattutto alimentari), abbigliamento e prodotti in genere della ex “Germania Est” al culto popolare; da una rappresentazione nostalgica del passato e dei suoi simboli fino ad un orientamento politico simpatizzante per il vecchio regime socialista del SED, paradossalmente mitizzato tanto dai partiti di estrema sinistra quanto da quelli di estrema destra.[1]
Se a Berlino gioca la carta della modernità, in provincia il Partito del socialismo democratico non riesce a fare a meno dell’«ostalgia», quell’indistinto senso di delusione e di identità perduta che ancora oggi, a dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino, fa di molti tedeschi dell’Est degli stranieri in patria.
P. Valentino, Corriere della sera, 14 gennaio 2002, p. 12, Esteri
…l’Ostalgia, nostalgia di quell’Est ingenuo e un po’ demodé che — se anche requisiva la libertà personale — assicurava però una vita tranquilla, un posto di lavoro, alcuni valori rispettati, se non dallo Stato almeno dai cittadini.
G. Dierna, “Liberismo e disincanto l’europa vista dall’Est” in La Repubblica, 2 luglio 2012.
Il termine ostalgia deriva dal tedesco Ostalgie, a sua volta portmanteau di Osten (“est”, riferito alla Germania Orientale) e Nostalgie (“nostalgia”); fu coniato nel 1992 ed è attribuito al cabarettista Uwe Steimle[2] che lo inventò come nome per il proprio programma televisivo Ostalgie trasmesso sulla rete televisiva regionale MRD. Dopo la riunificazione tedesca (Deutsche Wiedervereinigung) del 1990, quando i territori della Repubblica Democratica Tedesca nota come “Germania Est” vennero incorporati nella Repubblica Federale Tedesca. La Alltag, la vita di tutti i giorni dei tedeschi dell’est cambiò radicalmente: i prodotti a loro familiari scomparvero dagli scaffali dei supermercati, le vecchie serie televisive di ispirazione sovietica furono sostituite da quelle occidentali; dovettero confrontarsi con il mercato del lavoro, gli usi, i modi, l’abbigliamento dell’Ovest. Nonostante la maggiore libertà, la sensazione di smarrimento di fronte a cambiamenti così improvvisi fece insorgere in molti cittadini ex DDR la nostalgia per quel modo di vivere limitante ma in fondo rassicurante: questo sentimento fu definito con la parola Ostalgie. Per la scrittrice dell’ex DDR Christa Wolf, Ostalgie significava «riaffermare la nostra biografia.»[3]
Tipico arredamento di un soggiorno nell’ex Germania Est, DDR-Museum Berlin ( Commons ).
- [1]Ghislimberti, Tiziana. “Ostalgie, nostalgia del passato perduto. A proposito dell’identità tedesca orientale” in Metabasis — Rivista di filosofia on–line. Novembre 2007, anno II nº4. PDF.↩
- [2]
“Ostalgiker Uwe Steimle bezeichnet sich als Kleinbürger” in Hannoversche Allgemeine. 12/10/2012. Web.↩
- [3]Vannuccini – Predazzi (op. cit.) pag. 91.↩
- “Perché… a Berlino la nostalgia perde una ‘n’?” in Il Mitte 30/08/2012. Web.
- “ostalgia” in Neologismi. Roma: Treccani. Web.
- Tacconi, Matteo C’era una volta il muro: viaggio nell’europa ex-comunista. LIT Edizioni. 2009.
- Vannuccini, Vanna e Francesca Predazzi. Piccolo viaggio nell’anima tedesca. Milano: Feltrinelli, 2016. (pag. 90-91). ISBN 978-88-07-88410-8.
- “Ostalgie e Anti-Ostalgie, un viaggio nel cinema post-DDR (parte prima — parte seconda)” in Bolognina Basement. 11/2014. Web.
profumo di pioggia, caratteristico profumo emanato dalla pioggia sulla terra asciutta. Deriva dall’inglese petrichor, a sua volta dal greco pétrā (πέτρᾱ ) “macigno”, “pietra” e ichṓr, (ἰχώρ ) “icore”, “linfa”, nel senso di sangue degli dèi. Il termine petrichor fu coniato nei primi anni’60 dal biochimico e mineralogista australiano Richard Grenfell Thomas, al tempo impiegato in un progetto di ricerca presso CSIRO (ente australiano per la ricerca scientifica). Il primo articolo a descrivere scientificamente il fenomeno e ad utilizzare il termine petrichor fu scritto dallo stesso Thomas insieme alla collega chimica Isabel Joy Bear e pubblicato su Nature nel 1964 (“Nature of Argillaceous Odour” in Nature, vol. 201, n. 4923, marzo 1964, pp. 993–995).
Il profumo è generato dalla diffusione nell’aria da un composto organico presente nel terreno, la geosmina (il cui nome significa appunto “odore di terra”) dal caratteristico sentore di terra, fungo e muffa, e da un’essenza trasudata da alcune piante durante periodi di siccità e assorbito dall’argilla presente nel terreno e nelle roccie. I composti vengono espulsi in forma di aerosol per effetto dell’impatto delle gocce, dando origine al petricore.
Il “profumo di pioggia”, genericamente definito argillaceous odor o the smell of rain, era noto da molto prima che fosse coniato il termine petrichor: un articolo intitolato Sur l’Odeur propre de la Terre (“sull’odore proprio della terra”) fu presentato già nel 1891 dai professori Berthelot e M. André alla conferenza della Académie des Sciences francese e pubblicato nella rivista dell’accademia, Comptes Rendus (“resoconti”, al volume 112). Nello stesso anno il lavoro fu citato in Chemical News e in un articolo su Scientific American intitolato “The Odor of the Soil after a Shower” e scritto da T.L. Phipson, il quale citava il lavoro di Berthelot e M. André affermando di essersi occupato dell’odore misterioso già «da più di venticinque anni». In India l’aroma era già noto come “odore della terra” o matti ka attar e utilizzato in profumeria. In italiano continua ad essere comune l’espressione profumo di pioggia, anch’essa precedente a petricore («Dalla terra viene un forte profumo di pioggia. L’aria più fresca si agita e fa muovere le cime delle papaie.» 1938, Circoli rivista di poesia, pag. 70.).
- Phipson, T. L. “The Odor of the Soil after a Shower” in Scientific American, 16 maggio 1891. vol 64, nº 20, pag. 38. 308. JSTOR 26100386.
- Parkinson, Hanna Jane “I love the smell of rain after a heatwave. And now I love the word for it, too” in The Guardian, 19 aprile 2019.
- Ward, Colin “Isabel ‘Joy’ Bear” in CSIROpedia, 11 Aprile 2014.
- “Rainfall can release aerosols, high-speed video shows” Massachusetts Institute of Technology (MIT), in YouTube.
Foto: Eutah Mizushima/Unsplash
(scritto anche radical-chic) estremismo modaiolo; ostentazione per moda, esibizionismo o interessi personali di idee anticonformistiche e/o tendenze politiche affini alla sinistra radicale da parte di intellettuali e benestanti; l’appartenente alla borghesia che mostra tale atteggiamento. In italiano il significato del termine radical chic si è gradualmente esteso dal “concetto” (es. «…l’impegno, il politically correct e il radical chic…», Repubblica, 2004[1]) alla persona («Stavolta non è un dibattito da radical chic» Corriere della Sera, 23/10/2009), fino a diventare quest’ultima l’accezione più diffusa. È utilizzato anche come aggettivo (es. «le prediche radical chic di Jane fonda», Il Giornale, 7/3/1982).
Per estensione si riferisce anche allo stile di vita ed alla “moda” comunemente associata al radical chic, che dal punto di vista meramente esteriore è rappresentata da un «abbigliamento che viaggia fra lo sciatto e l’alta moda.»[2]
In tempi recenti, anche sulla scorta di un anti–intellettualismo crescente, il termine radical chic come altri analoghi (es. comunista col rolex, v. sotto) è spesso utilizzato con intento offensivo (in quanto considerato atteggiamento ipocrita) e in ambito sempre più generico per accusare di ipocrisia un ampio ventaglio di persone che va dall’intellettuale di sinistra al semplice moderato; mentre i populisti lo utilizzano per insultare chiunque non si allinei con la corrente populista del momento. Come dire: «se non sei con noi, sei radical chic.»
Origine
Leonard Bernstein (seduto al centro), con la moglie Felicia Montealegre (sinistra) and Don Cox (in piedi), “maresciallo di campo” del Partito delle Pantere Nere, nella casa dei Bernstein Park Avenue (Manhattan) durante famoso il party del gennaio 1970. Foto: New York Magazine.
«Natale Radical-Chic»: copertina di Candido del settembre 1975. All’epoca era organo ufficioso del MSI-DN, partito politico di ispirazione neofascista.
In italiano
L’espressione arrivò in Italia nel 1972 con un famoso articolo di Indro Montanelli, “Lettera a Camilla” pubblicato il 21 marzo sul Corriere della Sera, con il quale si rivolgeva alla collega Camilla Cederna (1911 — 1997) identificandola come rappresentante dell’italico «magma radical-chic» che cullava i «bombaroli» durante gli anni di piombo. La Cederna si era infatti occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato di coinvolgimento dell’attentato di Piazza Fontana del 1969.
Sinonimi ed espressioni affini
Esistono diverse espressioni che, se non perfettamente sovrapponibili, in linea generale hanno lo stesso significato di radical chic. Quasi tutte sono basate sull’accostamento ossimorico di un termine evocativo della tendenza politica vicina alla sinistra radicale ad un’altro che richiama invece all’agiatezza e alla borghesia (es. radicale → chic; comunista → Rolex; liberale → limousine, e così via).
- chic radicale, italianizzazione di radical chic (1982):
‘Chic radicale‘; e il termine è ormai entrato nel linguaggio comune per indicare lo snobismo sinistrorso delle classi più ricche.
Il Giornale, 7 marzo 1982.
- sinistra in cachemere: espressione nata verso la fine degli anni ’90, nella quale la pregiata lana cachemire viene citata come simbolo di lusso:
in Italia a tenere alta la bandiera dell’edonismo è la “sinistra in cachemire“.
L’Espresso, 1994, vol. 44. Pag. 128.
Il segretario del partito di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti (fino al 2006) fu soprannominato “compagno cachemere”[5] per la sua presunta abitudine di indossare maglioni pregiati.
- comunista col Rolex: questa espressione di introduzione recente (2017), analoga alla precendente, accosta il “comunista” al “Rolex”, appariscente e costoso orologio da polso tradizionalmente considerato simbolo di ricchezza. L’espressione nasce dal titolo di un brano pop-rap, intitolato “Comunisti col Rolex”, dei rapper italiani J-Ax e Fedez e pubblicato nel gennaio 2017 all’interno dell’album eponimo. Il termine poi è entrato anche nel linguaggio politico e giornalistico:
E se non fai la ola per i respingimenti «disumanitari», i salvinisti ti danno del comunista col Rolex.
Massimo Gramellini, “Com’è profondo il mare” in Corriere della Sera, 7 luglio 2018
- molotov & champagne fu il soprannome affibbiato negli anni ’70 (con un certo disprezzo da parte dei militanti di altri gruppi) a Potere Operaio, gruppo extraparlamentare di estrema sinistra composto dai figli dell’aristocrazia e dell’altissima borghesia prevalentemente romana.[6] Le “molotov” sono ordigni incendiari utilizzati nella guerriglia o nelle manifestazioni di piazza, mentre lo champagne è un vino spumante comunemente associato al lusso e alla festa.
- rivoluzionario da salotto: chi vorrebbe attuare una rivoluzione politica e sociale, ma dal “salotto”. Il termine è utilizzato già almeno dagli anni ’30 del Novecento, come dimostra un articolo su Il saggiatore:
Questi interrogativi che dovrebbero spingere gli occhi del borghese fino in fondo alla realtà di oggi, non sono posti, o sono appena accennati, per dare più colore alle fantasie europeiste del facile dicitore e rivoluzionario da salotto e da caffè.
da Il saggiatore pubblicazione di critica e filosofia, 1932. Pag. 414
Il “salotti borghesi” erano quelle riunioni mondane tenute a partire dall’Ottocento presso case private (nei “salotti”, appunto), solitamente a cadenza regolare, cui a membri della nuova borghesia e letterati prendevano parte per discutere di cultura e politica.
Inglese
- Abbiamo ovviamente radical chic, che nella sua lingua d’origine si riferisce però al concetto, alla moda di «ostentare opinioni radicali di sinistra» (Oxford Dictionary, op. cit.) ed allo stile di vita ad essa collegato, ma non alla singola persona come invece d’uso in italiano.
- Bolly bolschevist: (Regno Unito),[7] dove “Bolly” è abbreviazione di Bollinger, una marca di vino champagne. Il termine “bolscevico”, che nell’uso comune è sinonimo di “comunista”, è scelto più per l’effetto di allitterazione con “Bolly” (bol–, bol–) che per particolare riferimento alla dottrina del bolscevismo.
- champagne socialist:[8][9][7] è utilizzato nel Regno Unito e anche qui accosta il socialismo al costoso vino champagne. Si riferisce in particolare ai sostenitori del partito laburista che vivono nel centro di Londra e adottano un tenore di vita particolarmente elevato.
- chardonnay socialist: è la variante australiana e neozelandese e risale agli anni ’80, quando il vitigno chardonnay divenne molto popolare tra gli appassionati di vino in Australia.[10]
- Gucci communist: utilizzato in Sudafrica,[7] cita il marchio di abbigliamento di lusso “Gucci” in modo analogo a “comunista col Rolex”.
- latte socialist: (Irlanda) è il socialista che discute di politica mentre sorseggia comodamente caffè con latte[7] (in inglese latte è sinonimo di milky coffee, proprio il nostro “latte macchiato”[11]). Il termine è attribuito al politico irlandese Leo Varadkar, leader del partito democratico centrista Fine Gael e Primo ministro della Repubblica d’Irlanda dal giugno 2017. Il 21 ottobre 2017, intervistato durante una cena istituzionale del proprio partito presso il Burlington Hotel di Dublino, affermò riferendosi alla sinistra irlandese:
Some of them have tried to dismiss this budget as only providing a cup of coffee a week for people. [… ] I’d advise these latte socialists to think again about where they buy their coffee.[12]
- limousine liberal:[13] è un’espressione utilizzata negli U.S.A. dagli anni 1980[7] che accosta la limousine, autovettura di lusso, con la politica liberal che in inglese statunitense significa “progressista”, “socialdemocratico”[14]
- smoked salmon socialist: utilizzato in Irlanda, dove il “salmone affumicato” rappresenta il “piatto raffinato” per eccellenza.[15]
Francese
- bourgeois-bohème: abbreviato bo–bo, che associa la condizione sociale borghese all’atteggiamento bohèmien e risale alla fine dell’800. Si legge infatti nel Bel–Ami di Guy de Maupassant (1885):
Ce fut elle alors qui lui serra la main très fort, très longtemps ; et il se sentit remué par cet aveu silencieux, repris d’un brusque béguin pour cette petite bourgeoise bohème et bon enfant qui l’aimait vraiment, peut-être.
- gauche caviar: (“sinistra al caviale”) espressione risalente agli anni 1980[7] che accosta l’orientamento politico di sinistra con il caviale, cibo raffinato per antonomasia.
Tedesco
- Salonbolschewist o Salonkommunist: “bolscevico/comunista da salotto”,[16][7] equivalente all’italiano “rivoluzionario da salotto”.
- Toskana-Fraktion: [17] “partito della Toscana”, con riferimento alla frequentazione di luoghi di villeggiatura in Toscana da parte di politici e intellettuali.
Spagnolo
- hippie con osde: in Argentina è l’hippie con un’assicurazione sanitaria privata (OSDE è una delle maggiori agenzie assicurative sanitarie argentine).[7]
- izquierda caviar: “sinistra al caviale”, che deriva dal francese gauche caviar (v. sopra).[18]
- red set: è un’espressione di lingua inglese ma utilizzata in ambito ispanofono in Sudamerica (Cile)[18] che gioca sull’espressione →jet set, “alta società”, sostituendo però al jet il red (rosso), colore tradizionalmente associato alla politica di sinistra.
- whiskyerda:[18] portmanteu di whisky, nel senso di bevanda da intellettuali, e izquierda, “sinistra”.
Portoghese
- esquerda caviar: (Brasile), “sinistra al caviale” anch’esso dal francese gauche caviar (v. sopra).
Vedi anche: →gattopardismo.
Note
- [1]“Quanti complessi verso l’autorevole stampa straniera” Repubblica, 12/3/2004.↩
- [2]“Come creare un look radical chic” in Pianeta Donna. 25/4/2017. Web.↩
- [3]“chic” in Douglas Harper Online Etymology Dictionary. Web.↩
- [4]“chic” in Word Reference. Web.↩
- [5]Aldo Sofia “Il compagno Bertinotti, dal “Capitale” al popolo ciellino” TVSvizzera, 21/4/2016. Web.↩
- [6]Massimo Fini, “Molotov & Champagne” in Come Don Chishotte, 16/2/2005. Web.↩
- [7]
Oscar Rickett “From latte socialist to gauche caviar – how to spot good-time leftwingers around the world” in The Guardian, 23/10/2017.↩
- [8]
Matthew Moore, Sarah Graham, “Champagne socialists ‘not as left wing as they think they are” in The Telegraph, 14/7/2010.↩
- [9]
Ed Roobsky “So what’s the problem with champagne socialism?“↩
- [10]
“Meanings and origins of Australian words and idioms: C” in Australian National Dictionary Centre.↩
- [11]“latte” in Word Reference. Web.↩
- [12]
“Varadkar says he’ll move the time of his Ard Fheis speech so it doesn’t clash with Ireland–Denmark” in The Journal, 21/10/2017.↩
- [13]
“limousine liberal” in Urban Dictionary. Web.↩
- [14]“liberal” in Word Reference. Web.↩
- [15]“Smoked Salmon socialists and others” in Irish Times, 28/10/1998. Web.↩
- [16]
“Salonbolschewist“ nel dizionario Duden.↩
- [17]
“Kanzler kam erst spät zur Toskana–Fraktion” in Handelsblatt, 9 luglio 2003↩
- [18][spa] “Los rojos del redset…” in El Mostrador, 24/9/2014. Web.↩
Bibliografia e fonti
- Cortelazzo, Manlio e Ugo Cardinale Dizionario di parole nuove 1964 – 1984
. Torino: Loescher Editore, 1986. Pag. 142.
Wolfe, Tom “Radical Chic: That Party at Lenny’s” in New York Magazine, 8 giungo 1970.
- Wolfe, Tom Radical chic: Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto Roma: Castelvecchi.
- De Filippi, Giuseppe “Scoprire lo chic radicale era facile, per scoprirne le strategie ci voleva un genio” in Il foglio. 16 maggio 2018. Web.
“radical chic” in Oxford Dictionary. Web.
- “Cosa sono i radical chic” in Il Post, 24 agosto 2014. Web.
- “radical–chic” in Vocabolario Treccani. Web.
(o reguetón nella grafia ispanica) genere musicale da ballo caratterizzato dall’incontro del reggae — in particolare la sua declinazione più minimale, il dancehall giamaicano, e il raggae en español[1] cantato a Panama dagli anni ’70 — ma anche di altri stili afro-caraibici,[2] con gli stilemi tipici dell’hip hop di origine statunitense, inclusi i suoni elettronici sincopati e la tecnica oratoria musicale del rapping, con testi però in lingua spagnola o spanglish. Nato a Porto Rico negli anni novanta dapprima come genere underground, il reggaetón ha conosciuto una diffusione pressoché mondiale nella decade successiva, con Gasolina di Daddy Yankee a sancirne nel 2004 l’ingresso nelle hit parade nordamericane ed europee, fino a diventare definitivamente un genere mainstream.
La parola raggaetón altro non è che l’accrescitivo di raggae, formata con l’aggiunta appunto del suffisso –on che in lingua spagnola indica qualcosa di grande (letteralmente ‘grande reggae’[3]) e l’interfisso –t– che ha la sola funzione estetica di interrompere l’accumulo di vocali che si avrebbe altrimenti in sua assenza (in pratica, ‘raggaeón‘ non suonava benissimo).
Il termine raggaetón fu usato per la prima volta nel 1994 dagli artisti Daddy Yankee e DJ Playero, cui è attribuita la paternità, che lo utilizzarono nell’albunm Playero 36 per descrivere il nuovo genere emergente a Puerto Rico che univa i ritmi raggae (il dembow giamaicano) e hip hop con il rap e il cantato in lingua spagnola. La Academia Puertorriqueña de la Lengua Española si è espressa in favore della grafia reguetón, più vicina alle regole ortografiche della lingua spagnola.
Sottogeneri e generi derivati
- alternative raggaetón: genere nato negli anni 2000 come reazione alla ripetitività del ritmo dembow e degli stereotipi gangsta considerati da alcuni ormai scontati e ritriti; rispetto al raggaeton presenta suoni più complessi e ricercati, maggiori influenze dalle musiche tradizioni afro-caraibiche, dalla world music e anche dal rock en español. I testi, altrettanto crudi, sono però più intellettuali ed impegnati su contenuti sociopolitici e antirazzisti.
- bachatón: sottogenere nato dall’ibridazione del raggaetón portoricano con le melodie della bachata dominicana.
- cubatón: sottogenere nato dall’ibridazione del raggaetón portoricano con elementi della musica tradizionale cubana; a differenza del reggaeton i testi trattano per lo più di temi positivi come la gioia di vivere cubana, l’amore, il ballo e la festa. Questo stile ha avuto origine a Cuba alla fine degli anni ’90 ma poi è stato ripreso anche in America latina.
- raggaecrunk: sottogenere nato dall’ibridazione tra il raggaetón e il crunk, sottogenere del southern hip hop nato a Memphis (Tennessee) e caratterizzato dalla presenza di fischi, beat molto potenti e una forte componente elettrorap.
- [1]Il raggae originariamente era solo in lingua inglese, basti pensare a Bob Marley.↩
- [2]come la soca trinidadiana, la bomba e la plena portoricane, la salsa cubana, il mambo e la bachata↩
- [3]Come in italiano, in spagnolo l’accrescitivo può indicare non son solo qualcosa di grande in termini di dimensioni fisiche, ma anche in quelli qualitativi: es. solterón, (scapolone); richazón, (riccone).↩
- “Dj Playero coloca la evidencia de que Daddy Yankee y él fueron los creadores de la palabra Reggaeton” in Rapetón, 10/12/2015. Web.
- “Ya no sería ‘reggaetón’ sino ‘reguetón’” El Mundo, 12/11/2006. Web.
- “reguetón” in Fundéu BBVA. 24/11/2010. Web.
Foto in alto: show del gruppo reggaetón argentino Chocolate Remix, impegnato su temi femministi e LGBT, 2013 (foto: Laura Brégoli/Commons CC BY-SA 3.0)
cementificazione, urbanizzazione selvaggia, soprattutto delle aree turistiche. Deriva dal toponimo della città ligure di Rapallo (foto sopra) con il suffisso deverbale –izzazione, la quale città fu una delle prime località di mare ad essere interessate da quello sviluppo edilizio incontrollato e speculativo che, in conseguenza del boom economico italiano, interessò diverse aree turistiche di richiamo.
A proposito di verde, Rapallo è la cittadina ligure che ne ha ancora di più. Constatazione consolante, dopo tutto quello che è stato detto sulla «rapallizzazione» cementizia in Liguria.
“Il Centro del Tigullio” in La Stampa, 16 giugno 1971, pag. 19
…non è più una geografia delle differenze a colpire il cronista-viaggiatore, ma quella di nuovi e assai più omologanti riti di massa di cui divengono simboli ‘la Lambrate sul Tigullio’ e il processo di ‘rapallizzazione’ delle coste.
“Della grande trasformazione del paesaggio” in Lanzani, A. et al. L’Italia e le sue Regioni. Treccani, 2015.
L’invenzione del termine è attribuita a Enrico Piccardo, operaio e consigliere comunale del Partito Comunista Italiano a Rapallo,[1] il quale lo avrebbe utilizzato per denunciare non solo la cementificazione in sé, ma un sistema trasversale di favoreggiamento della stessa che univa l’imprenditoria locale dell’edilizia e del suo indotto. Il termine fu poi utilizzato da diversi autori che ne favorirono la diffusione, tra i quali: lo scrittore Italo Calvino, che già nel 1961 lo utilizzò nel suo romanzo La speculazione edilizia riferendosi alla «squallida invasione del cemento» nella riviera ligure; il giornalista Giorgio Bocca, che ne fece uso negli anni Sessanta per denunciare la speculazione edilizia nella regione; il giornalista Antonio Cederna, anch’egli impegnato nella battaglia contro la cementificazione selvaggia, e Indro Montanelli che lo utilizzò in un celebre programma della RAI il 20 luglio 1973 dedicato al futuro di Portofino.
Il termine fu sin da subito contestato dai rapallesi, i quali ritenevano che mettesse in cattiva luce la propria città e che comunque Rapallo non fosse l’unico centro a soffrire per lo scempio cementizio. Nel 1989 fu infatti introdotto nel Dizionario italiano ragionato di Angelo Gianni l’analogo termine →riminizzazione da Rimini, altra città vittima della speculazione edilizia selvaggia. Nel 1994 l’allora sindaco di Rapallo, Gian Nicola Amoretti, scrisse agli editori dei più importanti dizionari italiani chiedendo di rimuovere il lemma rapallizzazione dai propri volumi in quanto «obsoleto, anacronistico e offensivo per i rapallesi.» La richiesta fu accolta dal linguista fiorentino Gianfranco Oli, compilatore del dizionario Devoto-Oli (ed. LeMonnier) che al termine del processo di revisione quinquennale: «Ho deciso di non inserire nuovamente la parola — spiegò il lessicografo ad Adnkronos (op. cit.) — perché ormai non viene più usato da anni e la sua fortuna è stata di breve durata, legata soprattutto al linguaggio giornalistico. Al posto di rapallizzazione meglio utilizzare semplicemente ‘cementificazione selvaggia’». Il termine continuò però ad essere registrato da altri dizionari e tuttora periodicamente riemerge nell’uso giornalistico, soprattutto in concomitanza con le frequenti alluvioni e mareggiate che affliggono la Liguria e i cui effetti dannosi sono resi più severi proprio dalla urbanizzazione indiscriminata.
Derivati
Invertendo il classico processo di derivazione, secondo il quale i sostantivi che terminano con il suffisso deverbale –zione sono solitamente derivati da un verbo (es. amministrare → amministrazione); la parola rapallizzazione ha generato anche un verbo che ne esprime l’azione, ossia rapallizzare, che compare già nel 1965 in un articolo de La Stampa:
Qui fu coniato un nuovo termine edilizio: rapallizzare. Significava: rovinare la vista del mare a chi sta dietro.
Giuseppe Faraci, “Portofino affascina sempre i turisti di tutto il mondo”. La Stampa, venerdì 25 giugno 1965. Pag. 13
Al participio passato di rapallizzare corrisponde l’aggettivo rapallizzato/a, che si riferisce ad un luogo che ha subito un processo di “rapallizzazione”.
Sul modello di rapallizzazione sono stati successivamente coniati termini simili, formati da un toponimo con l’aggiunta del suffisso –zione, che indicano il processo di cementificazione selvaggia in (o sul modello di) un dato luogo:
- negrarizzazione: dal comune di Negrar, in provincia di Verona (2007);[2]
- riminizzazione: da Rimini, città della costa romagnola (1986).
- [1]AA.VV. Bruno Gabrielli: città e piani. Milano: Franco Angeli, 2019. Pag. 211 — ISBN 978-8891778802.↩
- [2]“negrarizzazione” in Neologismi. Treccani, 2008. Web.↩
- Castoldi, Massimo e Ugo Salvi Parole per ricordare — Dizionario della memoria collettiva. Bologna: Zanichelli, 2003. Pag. 322. ISBN 88–08–08878–2
- Cortelazzo, Manlio e Ugo Cardinale Dizionario di parole nuove 1964 – 1984. Torino: Loescher Editore, 1986. Pag. 143
- “Addio alla rapallizzazione” in La Stampa, 30 novembre 1994, pag. 39
- “rapallizzare” in Grande Dizionario Italiano. Hoepli, 2018.
- P. Fallai «Rapallare» o «riminizzare»? La storia sfortunata di due neologismi in Corriere della Sera, 9 novembre 2018. Web.
- ”RAPALLIZZAZIONE”: SCOMPARE DAL DEVOTO-OLI in Adnkronos 29 novembre 1994. Web.
- R. Coluccia “Lingua e turismo indiscriminato” in Il Nuovo Quotidiano di Puglia, 20 agosto 2017. (consultabile su iunctura.eu , web.)
- “rapallizzare” in Dizionario Italiano Olivetti. Web.
- “rapallizzato” in Dizionario Italiano Olivetti. Web.
Foto in alto: panorama di Rapallo, 2008 — D. Papalini [CC BY-SA 3.0]
(neologismo) la fortuna, la sensazione, la capacità di fare felici scoperte per puro caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra. Deriva dalla italianizzazione del termine inglese serendipity, “parola d’autore” coniata nel XVIII secolo dallo scrittore inglese Horace Walpole, 4º Conte di Orford (1717 – 1797) e usata la prima volta in una lettera scritta il 28 gennaio 1754 a Horace Mann, un amico inglese che viveva a Firenze. La parola fu ispirata a Walpole dalla lettura della fiaba The Three Princes of Serendip nella quale i tre protagonisti, figli del re Giaffar di Serendip, trovano una serie di indizi che sono loro d’aiuto durante il cammino: scoperte descritte come intuizioni dovute sì al caso, ma anche all’acume e alla capacità di osservazione dei tre Prìncipi.
La fiaba citata da Walpole era la traduzione in inglese (attraverso una edizione francese) di un racconto italiano: Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, scritto da Cristoforo Armeno e pubblicato a Venezia nel 1537 dall’editore Michele Tramezzino. Il libro di Cristoforo Armeno era a sua volta la traduzione dal persiano del primo capitolo, il “padiglione nero”, del Hasht-Bihisht (Gli Otto Paradisi), poema di Amir Khusrow (vero nome: Ab’ul Hasan Yamīn ud-Dīn Khusrau, 1253–1325 CE) scritto intorno al 1302. La parola serendipità deriva quindi dal paese di “Serendip” (Serendippo, in arabo Sarandīb) che è l’antico nome persiano dell’attuale Sri Lanka, a sua volta (attraverso il latino Serendivis) dall’antico nome tamil Cerentivu, isola dei Cheras (una tribù locale).[1]
Cristoforo Armeno, Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, Venezia 1575
I “sette padiglioni”, illustrazione del XV secolo per il Hasht-Bihisht di Amir Khusrow.
Nella scienza si intende per serendipità il misto di casualità ed intuizione che porta il ricercatore a fare scoperte importanti mentre stava cercando altro. In economia la serendipità è una qualità riconosciuta, definita da Ikujiro Nonaka (professore emerito della Hitotsubashi University) come la capacità di «intercettare le riflessioni, intuizioni, impressioni personali dei singoli lavoratori e metterle al servizio dell’intera società, provandone l’efficacia nel contesto d’impresa» (“The Knowlege–Creating Company“, Harvard Businness Review (HBR), Nov.–Dic. 1991, p. 94).
- [1]Parameswaran, M. Early Tamils of Lanka — Ilankai Kuala Lumpur, 2000. P. 16. (Scribd)↩
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(verbo) spalmare, soprattutto in senso figurato, anche diffondere, disseminare, impiastricciare, palpare, spiaccicare, sporcare e simili, o anche fare in fretta, sorvolare sulla qualità; nella forma riflessiva (smarmellarsi): accasciarsi, ammosciarsi (Beccaria). Da marmellata, formato sul modello dei verbi parasintetici denominali con il prefisso s– (come in sbiancare), con richiamo metaforico all’atto di spalmare (come si farebbe con) la marmellata, e/o alla consistenza semiliquida, eterogena ed appiccicosa della stessa.
Il termine è stato usato dal 2007 al 2010 nella serie televisiva Boris come tecnicismo fittizio nel gergo professionale del set di una fiction, in particolare tra regista René Ferretti (interpretato da Francesco Pannofino) e il direttore della fotografia Duccio Patanè (Ninni Bruschetta). Nella finzione della serie il regista Ferretti era solito infatti chiedere al direttore della fotografia di “smarmellare”, ossia “aprire” al massimo i proiettori in modo che la luce si diffonda ovunque, soluzione luministica “facile” spesso adottata nelle produzioni televisive di largo consumo e qualità mediocre:
Renè: «Alfredo? Allora senti, è molto semplice: basito lui, basita lei. Macchina da presa fissa, luce un po’ smarmellata e daje tutti che abbiamo fatto.»
Da qui, è in seguito entrato davvero nel gergo cine-televisivo con riferimento alle luci ed anche nel linguaggio comune, con diversi significati a seconda del contesto.
Il lessico attinge a vari registri, e sono presenti anche forestierismi e tecnicismi legati prevalentemente all’ambito televisivo e cinematografico come “steady-cam”, “combo”, “fegatelli”, ma soprattutto il neologismo, già visto precedentemente e usato come pseudo tecnicismo, “smarmellare” che è diventato subito un tormentone linguistico…
Raffaella Tonin, Francesca La Forgia: “Il parlato delle serie televisive: il caso di Cuéntame e di Boris“ (2016)
La diffusione del neologismo smarmellare è sicuramente dovuta alla serie Boris (non ci sono occorrenze in rete prima del 2007), ma sicuramente era già usato anche in precedenza sebbene non comune. È utilizzato infatti già nel 1994 da Tommaso Labranca con il significato di palpeggiare:
E mentre suggevo il finnico banano di Hans, il compare mi smarmellava il rigoglioso tettame.
Tommaso Labranca Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (1994)
- Grossman, Maria, Franz Rainer et al. La formazione delle parole in italiano. De Gruyter, 2004. Pag. 173.
- Tonin, Raffaella e Francesca La Forgia: “Il parlato delle serie televisive: il caso di Cuéntame e di Boris” Università di Bologna, 2016.
- Beccaria, Gianluigi L’italiano in 100 parole. BUR, 2015.
- Moz, Lorenzo “Luminìstica” in Moz, 2016. Web.
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(dall’inglese, lett. “copia di neve”) catch structure, particolare tipo di cliché consistente nel riuso della struttura di una frase ben nota (es. una citazione o uno slogan), modificata per essere adattata ironicamente ad un nuovo contesto o per creare un nuovo messaggio differente da quello originale. La frase originale, pur modificata nei termini, resta riconoscibile nel pattern (es: «50 sfumature di grigio» → «50 sfumature di vino») sfruttando così la popolarità dell’enunciato originale. La facilità con cui è possibile creare infinite varianti scherzose, porta però all’abuso di questo modello e di conseguenza alla mancanza di originalità.
L’espressione snowclone fu coniata nel 2004 dal professore di economia e sceneggiatore televisivo Glen Withman in risposta al linguista Geoffrey K. Pullum relazione ad un caso specifico, ossia una frase apparsa su The Economist dell’11 ottobre 2003:[1]
Con questa affermazione, basata su una leggenda metropolitana secondo la quale il vocabolario degli eschimesi avrebbe 40, 50 o addirittura 100 parole (a seconda delle versioni) per descrivere la neve, l’autore intendeva scherzare sulla presunta attitudine tedesca allo zelo, suggerendo che se per gli eschimesi la neve è tanto importante da avere numerosi vocaboli per descriverla, allora per lo stesso motivo i tedeschi dovrebbero avere molte parole per la Bürokratie (sottinteso: essendo questa la loro principale preoccupazione). A parte il fatto che non è vero che gli eschimesi abbiano così tante parole per descrivere la neve, è vero però che sostituendo i “tedeschi” con qualunque altro popolo, gruppo o categoria di persone, e la “burocrazia” con qualunque concetto cui questo gruppo si ritiene debba essere particolarmente interessato, è possibile replicare il modello all’infinito. Si legge infatti, ad esempio, su Edmonton Sun nel 2007:
Si tratta quindi di un phrasal template[3] o catch structure,[4] cioè una struttura dalla quale si possono generare nuove frasi ad effetto semplicemente sostituendo alcune parole al suo interno.
Pullum rilevava che, se il modello «se gli eschimesi hanno N parole per la neve, allora…» era un espediente molto frequente tra gli «scrittori privi di immaginazione»,[5] non era l’unico esempio: identificò ad esempio una infinità di varianti del celebre slogan «Nello spazio nessuno può sentirti urlare» del film Alien del 1979 mentre Glen Withman registrò nel 2004 un uso smodato della formula «X is the new Y», derivata probabilmente dall’errata citazione di una frase della celebre giornalista di moda Diana Vreeland («I adore that pink! Is the navy blue of India» New York Times, marzo 1962[6]); che nel 2013 avrebbe generato anche il titolo di una popolare serie TV, Orange is the new black. In questo caso si vuole suggerire che la nuova tendenza (“X”) abbia sostituito un classico (“Y”): ad esempio, «rock is the new jazz» (The Guardian, 31/03/2017).
Il problema di queste frasi-clone è che sono spesso talmente ritrite da non essere più né originali, né divertenti, tanto che Pullum le definì «frasi in kit per scrittori pigri»[6] o ancora «cliché adattabili da montare».[7] Queste locuzioni erano però troppo lunghe e Pullum rilevava la mancanza di un termine preciso (e conciso) per definire «un’espressione o frase multi-uso, personalizzabile, immediatamente riconoscibile e ben rodata che, citata a proposito o a sproposito, può essere utilizzata in una gamma illimitata di varianti scherzose da giornalisti e autori dotati di scarsa inventiva».[6] La parola cliché è infatti troppo generica (è cioè un “iperonimo”), perché si tratta di un particolare tipo di cliché, ma non è nemmeno una “allusione letteraria”, perché «queste cose non hanno alcun modo di essere [considerate] letterarie».[6]
Fu quindi Glen Withman sul blog Agoraphilia a proporre il termine snowclone[8][9] letteralmente “clone di neve”, evidente allusione alla frase «se gli eschimesi hanno N parole per la neve…» da cui aveva avuto inizio la discussione. Con la “benedizione” di Pullum, snowclone divenne il nome comune di questo tipo di cliché: «Hearing no other nominations, I now hereby propose that they be so dubbed. The clerk shall enter the new definition into the records».[9] La voce snowclone è stata in seguito registrata da Wikipedia (in inglese) il 4 novembre 2005.
Esempi
Anche la lingua italiana corrente, soprattutto nell’uso giornalistico, presenta svariati snowclone. Ad esempio:
- se gli eschimesi hanno [N/molte] parole per la neve, allora … – lo snowclone per antonomasia è ampiamente utilizzato anche in italiano: «gli eschimesi hanno molte parole per la neve come gli irlandesi per la pioggia» (da una guida turistica).
- 50 sfumature di… qualunque cosa: dal titoli dei romanzi della trilogia 50 sfumature (Fifty Shades) di E.L. James, da cui furono tratti tre film omonimi.
- ed è subito… es. «ed è subito teatro»: dalla citazione della poesia Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo (1930).
- è…, bellezza! es. «È la cultura, bellezza!» (Repubblica, 27-12-2008 ), da una battuta del film L’ultima minaccia (Deadline – U.S.A. 1952, regia di Richard Brooks): «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!»
- …, chi era costui? Dalla citazione di una battuta di Don Abbondio ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: «Carneade! Chi era costui?»
- …? No grazie! Dal motto del Movimento Anti-Nucleare: «Energia nucleare? No grazie» (1975).
- …, questo sconosciuto. Dal titolo del saggio di Alexis Carrel: L’uomo, questo sconosciuto (1935).
Note
- [1]Language Log, 21/10/2003 (op. cit.)↩
- [2]cit. in McFedries (op.cit)↩
- [3]Liberman in Language Log, 15/01/2004 (op. cit.)↩
- [4]Crystal, David, The Encyclopedia of the English Language Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 178.↩
- [6]Pullum in Language Log, 27/10/2003 (op. cit.) Pullum in Language Log, 27/10/2003 (op. cit.)↩
- [6]cit. in Zimmer, Benjamin“On the trail of ‘the new black’ (and ‘the navy blue’)” in Language Log, 28/12/2006↩
- [7]«some-assembly-required adaptable cliché frame», che riprende la dicitura some assembly required (necessita di assemblaggio) spesso riportata sulle confezione dei kit di montaggio. Cfr. Pullum in Language Log, 16/01/2004 (op. cit.)↩
- [8]Whitman in Agoraphilia (op. cit.)↩
- [9]Pullum in Language Log, 16/01/2004 (op. cit.)↩
Bibliografia e fonti
- E. C. Traugott in AA.VV. Grammaticalization – Theory and Data. John Benjamins Publishing, 2014. Pag. 98.
- “Pilling cliché upon cliché – the snowclone” in New Scientist, vol. 192, 2006. Pag. 80.
- McFedries, Paul The complete idiot guide to weird word origins: over 500 strange stories of the world’s oddest word and phrases. Penguin, 2008. Pag. 167-168. ISBN 978-1592577811
- Pullum, Geoffrey K. “Bleached conditionals.” in Language Log. University of Pennsylvania. 21/10/2003. Web.
- Pullum, Geoffrey K. “Phrases for lazy writers in kit form” in Language Log. University of Pennsylvania. 27/10/2009. Web.
- Liberman, Mark. “Phrases for lazy writer in kit form are the new clichés” in Language Log. University of Pennsylvania. 15/01/2004. Web.
- Whitman, Glen “Snowclones” in Agoraphilia. 16/01/2004. Web.
- Pullum, Geoffrey K. “Snowclones: lexicographical dating to the second.” in Language Log. University of Pennsylvania. 16/01/2004. Web.
Foto in alto: Pxhere [PD].