Berlino: il Muro alla porta di Brandeburgo, 12 gennaio 1989.

La Repubblica Democratica Tedesca[1] lo chiamava il “Bastione di protezione antifascista” mentre per l’Occidente esso era semplicemente il Muro di Berlino. Costruito in fretta e furia nella notte tra sabato 12 e domenica e 13 agosto del 1961, leggenda vuole che tanta solerzia fu dovuta all’ufficiale della DDR incaricato di costruirlo, cui la moglie aveva promesso una focosa notte di sesso se avesse completato la missione con successo. La volontà dei vertici della Repubblica Democratica Tedesca era di arginare il costante flusso verso l’Occidente, che dal 1949 al 1961 aveva visto 2,7 milioni di tedeschi dell’est cercare asilo a Berlino Ovest. In realtà la prima fortificazione era costituita per lo più da una recinzione di filo spinato, a cui si aggiungevano strade interrotte e divelte. Nelle settimane successive fu eretto il vero e proprio muro che nella sua costruzione avvolse anche abitazioni civili.

muro di Berlino 13 agosto 1961

Berlino: guardie di frontiera (Grenztruppen) della DDR chiudono il confine alla porta di Brandeburgo il 13 agosto 1961, il giorno in cui il “muro” fu eretto (Steffen Rehm).

Dopo il blocco di Berlino, inaugurato dai sovietici il 26 giugno del 1948 per forzare gli americani ad abbandonare la città e a cui gli americani risposero con il più grande ponte aereo della storia, i berlinesi vivevano un nuovo dramma. La Germania infatti era sia una nazione sconfitta e occupata dalle potenze alleate nella seconda guerra mondiale, sia il più importante e cruciale campo di battaglia della Guerra Fredda: in parole povere pagava il prezzo due volte, i berlinesi anche più degli altri. Il rischio di un conflitto nucleare con epicentro Berlino si corse nello stesso autunno del 1961: il 22 Ottobre E. Allan Lightner, un alto diplomatico statunitense fu bloccato dalle guardie della DDR al “Checkpoint Charlie”, il punto d’accesso a Berlino Est dedicato agli stranieri. Poiché gli accordi di Potsdam prevedevano per gli alleati la libera circolazione in tutti i quartieri di Berlino, Lightner si rifiutò di mostrare il passaporto e tornò indietro. Saputo dell’accaduto Lucius D. Clay, consigliere speciale del presidente Kennedy nonché l’ex generale che ideò il ponte aereo del 1948, ordinò ai soldati americani di scortare i diplomatici diretti a Berlino Est. Data la resistenza e l’insistenza da parte delle guardie della DDR nel voler controllare i passaporti, Clay ordinò di sostituire i soldati a bordo dei fuoristrada con dieci carri armati M48. Dinanzi al dispiegamento dei carri armati americani a 75 metri dal confine, l’Unione Sovietica rispose con altrettanti carri armati sovietici disposti alla stessa distanza dall’altro lato del Checkpoint Charlie. Per 16 tesissime ore americani e sovietici si puntarono i cannoni addosso, da una parte all’altra della frontiera. Temendo che la situazione potesse sfuggire di mano, Kennedy chiamò Clay per ricordargli che passare a Berlino Est senza passaporto non valeva un conflitto nucleare con Mosca; il presidente americano chiamò Chruščëv per tentare di calmare le acque, e a fronte della promessa di non invadere Berlino Est ottenne il ripristino del libero accesso alla zona orientale. Alle 11 del mattino successivo i sovietici ritirano per primi un carro armato e aspettarono finché anche gli americani non avessero ritirato uno dei loro; fu così che uno a uno i carri armati si ritirano dal Checkpoint Charlie in buon ordine.

JFK a Berlino

Il presidente USA John F. Kennedy parla a Berlino il 26 giugno 1963 (John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston).

Due anni più tardi, il 26 giugno 1963, fu di nuovo protagonista Kennedy che in visita a Berlino tenne il famoso discorso «Ich bin ein Berliner»;[2] anche se era chiaro l’intento retorico del discorso di Kennedy c’è chi aprì una discussione sulla celebre frase sostenendo che Kennedy avesse detto in realtà «Io sono un bombolone». La disputa nasceva dall’articolo “ein” (un) e da “Berliner” che nel Nord della Germania è il modo con cui si chiama il Krapfen: poiché si suol dire “io sono berlinese” e non “io sono un berlinese” allora per alcuni la traduzione letterale del discorso di Kennedy era “io sono un bombolone”. In molti negli USA diffusero questa versione dando per certo l’errore di Kennedy, mentre nella realtà l’utilizzo dell’articolo “un” non è formalmente scorretto, e inoltre dal contesto del discorso era abbastanza chiaro che non si riferisse al dolce ma alla città. La celebre frase di Kennedy a Berlino è famosissima, molto meno la frase spontanea che disse quando fu informato della costruzione del muro: «not a very nice solution, but … a hell of a lot better than a war“».[3] Archiviato il discorso di Kennedy il muro restò lì dov’era e si stima che dal 1961 al 1989 più di 600 persone furono uccise mentre tentavano la fuga verso l’Ovest, di cui almeno 136 proprio lungo il muro; al contrario si stima in almeno 5.000 persone il numero di coloro che riuscirono a fuggire. Poi quasi all’improvviso il muro crollò.

Prime operazioni di smantellamento del muro, 21 dicembre del 1989 (foto: U.S. Airforce).

Agli inizi del novembre del 1989 il governo della DDR era alle prese con la protesta aperta da parte della popolazione, soprattutto contro un progetto di legge sui viaggi. A seguito delle proteste in diverse città, il 9 novembre la legge era stata rivista prevedendo per i viaggi privati la concessione di un visto senza specifiche condizioni o tempi di attesa. Lo stesso giorno alle ore 19 al termine di una conferenza stampa, il segretario del Comitato Centrale Günter Schabowski diede notizia, senza porvi particolare attenzione, del nuovo regolamento sui viaggi privati. A quel punto il giornalista italiano Riccardo Ehrman, all’epoca corrispondente dell’ANSA da Berlino Est, chiese maggiori informazioni a Schabowski sulla nuova legge sui viaggi, consapevole di come l’intento della DDR fosse in realtà negarli come sempre. Per un’imprevedibile piega della Storia Schabowski non si era ben chiarito con il governo e quindi rispose alle domande del giornalista italiano affermando che: «si sarebbe potuto chiedere il permesso senza che ci siano condizioni, come motivi per il viaggio e rapporti di parentela»; che i permessi sarebbero stati rilasciati entro poco tempo; che il regolamento era in vigore «da subito, senza indugio». Alle ore 20 il telegiornale dell’emittente ARD aprì con la notizia che la Repubblica Democratica Tedesca aveva aperto i confini; poco dopo a Berlino Est una piccola folla iniziò a presentarsi al confine desiderosa di usufruire immediatamente delle nuove regole; prese di sorpresa le guardie di confine della DDR rimasero interdette sul da farsi e verso le 21:20 i primi cittadini dell’Est poterono passare a Berlino Ovest. Il comandante del valico faceva tuttavia apporre dei timbri per annullare la validità dei passaporti, privandone dei diritti gli ignari proprietari. Intorno alle 23:30 l’afflusso di persone divenne tale che il comandante, ancora senza indicazioni ufficiali, fece aprire la sbarra del confine; anche gli altri valichi di frontiera furono aperti e fu così che senza il minimo preavviso e grazie al malinteso di Schabowski, e alle domande di un giornalista italiano, il muro di Berlino smise di dividere la città.[4]

1 – Sede della STASI-HVA all’angolo tra Ruschestraße e Frankfurter Allee, Berlino-Lichtenberg. Dal 2003 è sete delleDeutschen Bahn, le ferrovie tedesche (foto: [CC BY-SA 3.0] Commons .

Proprio la sera del 9 novembre del 1989 mentre la folla dal Berlino Est assaltava la frontiera, un agente della CIA di stanza a Berlino[5] faceva il tragitto inverso in direzione di Normannenstraße dove vi era il quartier generale della STASI, il famigerato servizio segreto della DDR. L’edificio quella sera era popolato solo da “normali” impiegati; l’agente della CIA si fece accompagnare nei sotterranei di quello che fino a quel momento era una dei più grossi apparati di spionaggio in europa e nel mondo. A fronte del pagamento di 75.000 dollari in contanti, l’agente della CIA ricevette tre cassette contenenti 381 CD–ROM contenenti 340 000 schede, riguardanti 280 000 collaboratori della STASI nel periodo che va dall’autunno del 1951 al gennaio del 1988: l’operazione Rosenholz era riuscita e si poteva considerare il colpo del secolo dello spionaggio e per di più relativamente a basso costo. Se non fosse per un dettaglio fondamentale. Nei CD consegnati alla CIA vi erano le schede F16 contenenti i dati anagrafici e di registrazione dei collaboratori della HVA (Hauptverwaltung Aufklärung, agenzia di intelligence per l’estero dipendente dalla STASI), ma anche di persone a cui la STASI si era interessata senza che si possa parlare di collaborazione, e le schede con i nomi in codice dei collaboratori, dati personali, contatti e motivo del reclutamento. Mancavano però le schede F22 quelle relative alle attività svolte e con il numero di registrazione del collaboratore. In pratica la CIA era in possesso della scheda del signor Tizio e ne conosceva numero di registrazione e nome in codice “Caio” ma ne ignorava l’attività. Qualche ora dopo che l’agente della CIA se ne era andato, al quartiere generale della STASI arrivarono gli uomini della BFV,[6] il servizio segreto della Germania Ovest: anche loro ottennero dei CD–ROM ma contenevano solo le schede F22, quindi sapevano per esempio in che tipo di operazioni era coinvolto il collaboratore “Caio” ma ne ignoravano l’identità. Il servizio segreto della Germania Ovest era una creatura della CIA, quindi in linea teorica sarebbe stato facile unire i due dossier per avere il quadro d’insieme… eppure ne mancò la volontà. Per i tedeschi infatti il dossier era una nervo scoperto, si stima infatti che almeno dodicimila cittadini della Germania Ovest avessero collaborato con la STASI, e che molti di loro fossero personaggi noti del panorama politico e sociale; il dossier rischiava quindi di procurare non pochi imbarazzi al governo della Repubblica Federale.
Su come la CIA abbia ottenuto l’archivio Rosenholz molto probabilmente non si potrà mai sapere con certezza la verità, l’acquisto per 75 000 dollari è solo una delle ipotesi. C’è chi sostiene che il venditore fosse un agente del KGB, chi un agente della STASI al servizio della CIA, c’è chi sostiene che la CIA sia entrata in possesso dell’archivio nel 1991 e abbia aspettato un anno prima di informare i tedeschi, chi invece afferma che non sia arrivato in mano americane prima del 1993. Ciò che si sa di sicuro è che l’archivio Rosenholz rappresenta ancora una questione aperta tra gli Stati Uniti e la Germania.
Il muro di Berlino è stato per anni una ferita profonda per i berlinesi e per i tedeschi ed è difficile poter ricostruire con le parole ciò che è stato e ciò che ha comportato per la vita di migliaia di persone. Senza voler offendere la memoria collettiva dei berlinesi, si può però dire che un piccolo merito il muro di Berlino lo ha avuto: nel 1977 due amanti clandestini che si baciavano accanto al muro ispirò a David Bowie la canzone Heroes (sulla base dell’omonimo brano “krautrock” dei Neu! ’75 di due anni prima) che la rivista Rolling Stones ha inserito al 46º posto delle 500 migliori canzoni di sempre, inclusa anche nella colonna sonora del celebre film Christiane F. — Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Questo e molto altro è avvenuto a Berlino lungo un muro costruito in una notte di mezza estate.

Note

  1. [1]Deutsche Demokratische Republik, meglio nota come DDR.
  2. [2]«Io sono un Berlinese».
  3. [3]«Non una bella soluzione ma…dannatamente molto meglio di una guerra».
  4. [4]Il muro fu poi materialmente abbattuto tra giugno e novembre del 1990.
  5. [5]La CIA aveva una vera e propria base a Berlino Ovest.
  6. [6]Bundesamt für Verfassungsschutz.

Bibliografia e fonti

Immagine in alto: il Muro alla porta di Brandeburgo, 12 gennaio 1989. Foto: Dipartimento della Difesa U.S.A.

L'autore
Avatar

Alessio Lisi

Facebook

Tarantino di nascita e pavese di adozione. Il resto è coperto dal segreto di stato dell'isola di Laputa.

dispositivo Saturnalia in un vigneto

 

Il vino è una bevanda meravigliosa perché ogni vignaiolo può creare un vino tutto suo. Dalla fioritura della vite al vino imbottigliato non passano solo mesi, ma innumerevoli variabili tra cui quella umana. Un mercato che è notevolmente cambiato dal secondo dopoguerra a oggi, e se c’è una cosa che ha dell’incredibile è che questa bevanda genera feroci guerre ideologiche tra chi innova e chi vuole rimanere fedele alla tradizione e le rispettive armate di fan. La più celebre di tutte in Italia è stata la querelle che ha contrapposto i Barolo’s Boys ai tradizionalisti sui metodi di produzione del Barolo. Di recente a generare un’aperta ondata di protesta e sdegno è stata “Gik“, il vino blu ideato in Spagna da una startup dell’Università dei Paesi Baschi, ottenuto grazie all’aggiunta di antociani (colorante naturale presente negli acini delle uve). Gik non può essere venduto ufficialmente come vino perché la legislazione europea prevede solo i “colori” bianco, rosso e rosato. Su internet è possibile vedere un video del Washington Post in cui la sommelier Morgan Fausett lo prova, lo giudica molto dolce e non ne sembra particolarmente entusiasta. Ma, piaccia o non piaccia, Gik sta ottenendo un successo esponenziale su scala mondiale, soprattutto tra i millenial e in Asia. E in Italia abbiamo startup che vogliono innovare il modo di fare il vino? Sì, e il progetto è totalmente diverso da quello spagnolo.

Saturnalia, in collaborazione con l’Università di Pavia, si pone l’obiettivo di utilizzare le immagini satellitari, i dati delle stazioni meteo e appositi sensori per proporre una gamma di servizi tra i quali:

  • fornire ai produttori un monitoraggio continuo, tramite diversi parametri, dello stato della vigna; consentendo tra le altre cose di procedere all’irrigazione o ai trattamenti fitosanitari solo quando è opportuno farlo, evitando così spreco d’acqua e trattamenti inutili;
  • fornire informazioni in anticipo al consumatore sulla qualità dell’annata prima della messa in vendita dei vini, oppure permettere di consultare l’annata migliore per quella tipologia di vino.

Saturnalia ha vinto nel 2016 il contest “Space App Camp” dell’ESA (Agenzia spaziale europea), mentre nel maggio 2017 è stata semifinalista del ChinItaly Challenge e a settembre è stata tra i finalisti del concorso “Space Moves!” dell’ESA. La startup punta a essere operativa entro il 2018, grazie anche al supporto del Consorzio Terre d’Oltrepò, e ha appena ricevuto un nuovo contributo da parte dell’ESA per riuscire a farla diventare operativa.

Perché Saturnalia piace così tanto all’Agenzia Spaziale Europea? Saturnalia utilizza una piattaforma che consente di scaricare dati dal Copernicus Data Hub dell’Agenzia Spaziale Europea, finalizzato al monitoraggio dell’ambiente. Oltre ad acquisire i dati dalle stazioni meteo, ovunque esse siano collocate, Saturnalia accede ai dati del satellite “Sentinel–2”. A questo proposito Fabio Dell’Acqua, docente all’Università di Pavia e uno dei membri del team, ha sottolineato: «I dati satellitari permettono la rilevazione multispettrale (13 bande spettrali) aggiornati ogni 3 giorni, e ci consente di capire diverse caratteristiche del terreno e della vegetazione, compreso contenuto di clorofilla e sviluppo dell’uva.»
satellite Sentinel 2

Il satellite Sentinel–2
(Rama/Commons CC-BY-SA 2.0/FR)


Al momento Saturnalia sta perfezionando il sistema procedendo all’analisi dei dati storici di quattro grandi eccellenze italiane: barbaresco, barolo, brunello di Montalcino e chianti.[1] Curare costantemente lo stato del vigneto, risparmiare acqua, evitare trattamenti antiparassitari inutili, conoscere come si prospetta la vendemmia: riuscirà Saturnalia in questa ardua missione? Se l’obiettivo è quello di aumentare la qualità del vino riducendo l’impatto ambientale, non possiamo non farle il più grande “in bocca al lupo” possibile.

  1. [1]L’ordine è meramente alfabetico.
L'autore
Avatar

Alessio Lisi

Facebook

Tarantino di nascita e pavese di adozione. Il resto è coperto dal segreto di stato dell'isola di Laputa.

Los Angeles as it appeared in 1871

Realizzata nel 1929 da Women’s University Club of L.A. e approvata dalla Historical Society of Southern California, questa mappa fu pubblicata nel 1929 e mostra una veduta a “volo d’uccello” della città di Los Angeles, California, come appariva nel 1871 (A) e i Ranchos spagnoli della California (B). I Ranchos erano territori che il governo dapprima spagnolo, e poi messicano, concedevano nell’Ottocento allo scopo di incoraggiare l’insediamento umano. Come d’uso all’epoca, la mappa è arricchita dalle cosiddette vignette con dettagli e note storiche del territorio (1–12). Vediamole ad una ad una:



Symbolizing a century and half of civic progress site of the original and the new city halls

«Simbolo di un secolo e mezzo di progresso, il sito dell’originale e del nuovo municipio»

1. Il Los Angeles City Hall fu costruito nel 1926 sul sito del vecchio municipio. È alto 138 metri e al momento della sua costruzione era l’edificio più alto della città.

Los Angeles City Hall 1931



The zanjas and waterwheels provided water and power

«Gli zanja e le ruote idrauliche fornivano acqua e forza motrice»

2. Gli zanja in California erano i canali di irrigazione[1] (termine di origine ispanica che significa fosso, fossato). Il canale principale, che fungeva da acquedotto di Los Angeles, si chiamava Zanja Madre e portava l’acqua dal fiume Porciuncula (oggi Los Angeles River) al pueblo originario. La ruota idraulica nell’illustrazione, in realtà, si riferisce probabilmente alla grande noria costruita intorno al 1860 al’inizio dello Zanja Madre per prelevare l’acqua dal fiume ed alimentare il serbatoio dell’acquedotto:[2]
Noria di Los Angeles, foto del 1863



Early vehicular traffic was confined to the spanish carreta

«Il primo traffico veicolare era limitato alle carretas spagnole»

3. Negli anni 1920 Los Angeles ebbe una crescita demografica esplosiva e all’epoca in cui fu realizzata e pubblicata questa mappa (1929) il traffico veicolare era già piuttosto congestionato per i tempi. L’illustrazione mostra una carreta spagnola, sottolineando che nel 1871 questi erano gli unici veicoli circolanti.

Los Angeles, 1922: traffico all'incrocio tra North Broadway e Sunset Boulevard

Los Angeles, 1922: traffico all’incrocio tra North Broadway e Sunset Boulevard.



 

«La vita nella hacienda era colorata  — Coronel residence, 7th & Alameda»

4. La hacienda era l’azienda agricola dell’America latina, che sopravvisse al collasso dell’impero spagnolo agli inizi dell’Ottocento. La vignetta (come suggerisce la didascalia) mostra la hacienda del californio Antonio Francisco Coronel, sindaco di Los Angeles nel 1953–54, e sembra ispirata ad una fotografia pubblicata su Overland Monthly nel 1895, dove Coronel è ritratto con la moglie Mariana:



The chinese dragon was a feature of the fiesta parades of the 90s

«Il dragone cinese era una caratteristica delle parate della fiesta negli anni ’90»

5. Interessante sincretismo che denota la multiculturalità della città californiana. La fiesta de Los Angeles era un festival che si tenne annualmente tra il 1894 e il 1916 della durata di quattro giorni, che includeva una parata da Old Plaza a Fiesta Park.[3]

Parata alla Fiesta de Los Angeles, 1906

Parata alla “Fiesta de Los Angeles” nel 1906.

Dalla metà dell’Ottocento nella città era presente una comunità di immigrati cinesi, che costituì lo storico quartiere di Chinatown. L’incontro tra le culture fece sì che a una fiesta americana, dal nome spagnolo (per la forte presenza ispanofona nell’area), includesse anche un elemento tipico della cultura cinese: il dragone. Durante la “danza del drago” un gruppo di danzatori porta una raffigurazione del tradizionale drago cinese, imitandone i movimenti sinuosi ed ondulati. La danza del drago entrò a far parte delle parate anche in altre città nordamericane:


Danza del Drago ad una parata sulla Fifth Avenue a Seattle, 1909

Danza del Drago a Seattle, nel 1909.



The federal building site saw many vigilante hanging

«Il sito dell’edificio federale ha visto molte impiccagioni eseguite dai vigilante»

6. I vigilante erano gruppi di privati cittadini che eseguivano azioni di repressione alla criminalità. A metà dell’800 la corsa all’oro portò ad un forte e repentino incremento demografico nelle città californiane, soprattutto nelle boom–town minerarie, che però non disponevano ancora di strutture di governo adeguate. In un territorio in balìa della criminalità e della corruzione, i cittadini esasperati organizzarono gruppi di vigilantes che davano la caccia ai criminali, arrivando a compiere esecuzioni sommarie senza processo. Pur ottenendo qualche successo nella lotta al crimine, operavano loro stessi al di fuori della legalità sfociando spesso nella repressione violenta, nel banditismo, nella persecuzione razziale.


California's first gold discovered in Placerita Canyon, 1842

«Il primo oro in California scoperto a Placerita Canyon, 1842»

7. Il primo a trovare l’oro in California fu il rancher locale Francisco Lopez nel 1842 a Placerita Canyon.[4] Il filone che scatenò la corsa all’oro fu però quello scoperto sei anni dopo, nel 1848, dal carpentiere Jams W. Marshall nel fiume American: la notizia si diffuse molto rapidamente e migliaia di cercatori accorsero da tutto il mondo. Nacquero così intere città minerarie, le cosiddette boom–town, con banche, officine, saloon, bordelli.  La maggior parte di esse non sopravvissero alla febbre dell’oro che si esaurì in poco più di un decennio.



Battle of La Mesa 1847 at Union Stockyards ended Mexican rule

«La battaglia di La Mesa del 1847 agli Union Stockyards pose fine al dominio messicano»

8. La Battaglia di La Mesa del 9 gennaio 1847 fu lo scontro finale della campagna californiana durante la guerra Messico–Stati Uniti. La vittoria di questi ultimi decretò la fine del dominio messicano sulla California. L’illustrazione raffigura il monumento posto sul luogo della battaglia, nell’odierna Vernon, di fronte all’edificio dei Los Angeles Union Stockyards, un complesso per la produzione e il confezionamento della carne attivo costruito 1923 e attivo fino 1958 (ricordiamo che questa mappa è del 1929):

La Mesa Battle monument, L.A.Union Stockyards



The early pueblo in 1853 seen from Fort Moore

«Il villaggio originario nel 1853 visto da Fort Moore»

9. La metropoli americana di Los Angeles in origine era un villaggio spagnolo, fondato nel 1781 come “El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles”. Nel 1853 era ancora poco più che un villaggio e qui è raffigurato come si vedeva dalla collina di Fort Moore.

Banning House sulla cima della collina di Fort Moore, 1887.

La collina di Fort Moore, che sovrasta Los Angeles, nel 1887: all’epoca il forte originario era stato convertito in una residenza privata nota come Banning House.



prehistoric giant animals of La Brea Pits

«Animali preistorici giganti a La Brea Pits»

10. Gli spagnoli chiamavano questo luogo “La Brea” (asfalto, pece), “muchos pantamos de brea” (ampi pantani di pece) e “La Huesomenta” (deposito ossifero): oggi noto come La Brea Tar Pits o Rancho La Brea, era un gruppo di laghi naturali di catrame dove gli animali, attirati dalla possibilità di abbeverarsi, restavano invischiati. Ciò ha creato un immenso deposito paleontologico dove sono stati rinvenuti 600 000 reperti corrispondenti a circa 500 specie di animali, in particolare uccelli e mammiferi.[5] Il primo fossile scoperto a La Brea fu un dente canino di Smilodon fatalis, grande felide del pleistocene appartenente alla famiglia delle “tigri dai denti a sciabola”, ritrovato nel 1875 dal Maggiore Henry Hancock (1822 — 1883), agrimensore di Los Angeles. L’illustrazione raffigura infatti una tigre dai denti a sciabola accanto ad un lago di catrame.

Smilodon californicus e Canis dirus litigano su unacarcassa di Mammuthus columbi nelle cave di La Brea Tar.

Smilodon californicus (tigre dai denti a sciabola) e Canis dirus litigano su una carcassa di Mammuthus columbi nelle cave di La Brea Tar, illustrazione del 1913.[6]



 

San Gabriel Mission mother of Los Angeles

«Missione di San Gabriel madre di Los Angeles»

11. La Missione San Gabriel Arcángel fu fondata dai francescani spagnoli nel 1771 e fu una delle prime missioni cattoliche spagnole in California. Intitolata all’arcangelo gabriele, era soprannominata la “madrina del Pueblo di Los Angeles”.[7]


 

Cabrillo at San Pedro, Oct. 9, 1542. First white man to set foot on California soil.

«Cabrillo a San Pedro, 9 ottobre 1542. Primo uomo bianco a mettere piede sul suolo californiano.»

12. Questa figura — che si rifà probabilmente anche all’antico uso di decorare le carte nautiche con raffigurazioni di vascelli — ricorda il navigatore portoghese Juan Rodriguez Cabrillo, il primo europeo a navigare le coste dell’attuale California e a mettervi piede. A lui è intitolata la spiaggia di Cabrillo Beach, in San Pedro. In basse a destra si vede il logotipo dell’autore e l’anno di pubblicazione: «Gores 1929».


Note

  1. [1]Gudde, Erwin G. California Place Names: The Origin and Etymology of Current Geographical Names, University of California Press, 2010. pag. 433
  2. [2]Water in early Los Angeles“. Water and Power Associates. Web.
  3. [3]Rasmussen, Cecilia “Downtown’s Fiesta Began as a Multicultural CelebrationLos Angeles Time, 27 aprile 2003.
  4. [4]Warren, Michael “California first Gold RushThe New 49’ers. Web.
  5. [5]Bergamo, Anita “L’eden osteologico di Rancho La Brea” in Pikaia — Il portale dell’evoluzione.
  6. [6]Robert Bruce Horsfall, da: William Berryman Scott, A history of land mammals in the western hemisphere, New York, MacMillan Publishing Company, 1913. Frontespizio.
  7. [7]Robert A. Bellezza. Missions of Los Angeles. Arcadia Publishing, 2013.
L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

stradale dalle parti di Nosadello

Ci sono paesaggi che aiutano molto la vena poetica di uno scrittore. Ma che succede quando ti trovi a descrivere una terra che «galleggia su tre elementi: acqua, letame e burro» e nella quale «l’attività principale è annoiarsi»? Se ti chiami Mirko Volpi, classe 1977, ricercatore in Linguistica italiana all’Università di Pavia, ma soprattutto orgogliosamente e annoiatamente Nosadellese, partorisci un libro come Oceano Padano (ed. Laterza, 2015), vero inno alla gente e alla vita che scorre in una parte di Pianura Padana, insieme all’Adda e alle rogge.


 Mirko, anzi, Professor Volpi, cos’è esattamente l’Oceano Padano? E come lo spiegheresti a un “foresto”?

Tecnicamente, almeno cioè per come ho provato a definirlo io, l’Oceano Padano è quella fetta di territorio verde e pianeggiante che va dall’Adda al Mincio, avendo come confine a sud il Po e a nord qualsiasi primo accenno di alture. È la zona più ricca e fertile della Lombardia pianeggiante ed è anche quella che – mi pare – fino ad oggi ha goduto di minori attenzioni in campo letterario, e non solo. È un territorio geograficamente e umanamente coeso, ben individuabile, con precise caratteristiche fisiche e, oso dire, “morali”. E cioè: la piattezza, benché non assoluta, le distese di verde, le rogge, i fontanili, i colori del cielo, le vacche, l’odore di letame; e poi il senso del dovere, la sacralità del lavoro, l’animo un po’ schivo ma soprattutto restio a manifestare qualsivoglia emozione o sentimento profondo. Il foresto, per carpirlo, per capirci, può fare due cose: leggere il mio libro o venire a vivere qui!

“Oceano Padano” ha avuto un grande successo… Su Facebook hai ventilato la possibilità di una trasposizione teatrale, con tanto di rotoballa sul palcoscenico… Riflessione annoiata sotto il portichetto o progetto concreto?

Si trattava di una boutade, di uno scherzo, non di un progetto concreto. Anche se mi piacerebbe moltissimo vedere un uomo di teatro che prende il mio testo e ne fa un monologo. Scriverlo magari no, ma seguirne la trasformazione in opera teatrale, quello sì, sarebbe divertente.

 La Catalogna vuole l’indipendenza, la Lombardia e il Veneto votano l’autonomia… invece Nosadello e Gradella resteranno sotto il giogo di Pandino?

Nosadello e Gradella sono le frazioni di Pandino da quando c’è l’Unità d’Italia, ahimè, e credo proprio che così sarà ancora per molto. Nel libro dico spesso scherzando, ma mica tanto, che i nosadellesi hanno sempre avuto un desiderio indipendentista. Questo riguarda la storia: Nosadello è sempre stato per i fatti suoi, diciamo così, parla un dialetto diverso e ha sempre avuto un vescovo diverso, così come Gradella. Questi fatti sono minimi, lo so bene, ma dicono molto delle specificità dei piccoli borghi lombardi e poi anche italiani. Nosadello (un piccolo pugno di terra, una manciata di anime) è addirittura diviso in Nosadello di Sopra e di Sotto, e un tempo lo era persino giuridicamente. La cosa importante però è non indulgere mai a sciocchi campanilismi. Le micro–differenze e peculiarità vanno conosciute, magari anche amate, non brandite.

Nosadello: inizio del centro abitato




 Hai già in programma una nuova fatica letteraria? Puoi darci un’anticipazione?

Purtroppo no, non sto scrivendo niente. Ho delle idee, quattro paginette di un file nuovo, e qualcuno (quasi nessuno, in realtà) che mi sprona a scrivere ancora. Vedremo, non ho fretta né ansie da pubblicazione. Magari non pubblicherò mai più. L’uomo padano sa quando deve tacere.


 

Oceano Padano

Oceano Padano

€ 13,00eBook: € 7,99

«Il vero abitante dell'Oceano Padano non ama il mare salato, non lo capisce, se ne tiene alla larga. "Cosa me ne faccio?", pensa davanti a quella spaventosa massa dal colore estraneo, dall'odore sospetto, che al posto di scorrere, rifluisce, ripiega lamentosamente su sé stessa, innaturalmente fa avanti e indietro senza costrutto sulla riva. "Cosa ci adacquo? Ci irrighi mica i campi, con questa...", torna a ripetersi l'uomo agricolo, l'archetipo eterno della Bassa: e si allontana da sabbia e alghe e conchiglie - elementi oscenamente sterili - come covando nel cuore un segreto sgomento. Lui ama solo le rogge, i pesci di fosso, le polle d'acqua sorgiva, gli infidi canali ombreggiati dai filari di ontani, le increspature dei fili d'erba delle verdissime distese: e nella sua mente - mentre riposa al tramonto con uno stelo di fiore in bocca - vede tutto ciò tramutarsi in foraggio, concime, latte, formaggio. Lavoro. Ricchezza.»

Vedi →

Foto in alto: uno stradale dalla parti di Nosadello.

L'autore
Avatar

Roberto Guarnaschelli

Ingegnere, classe 1972, vive in una cascina immersa tra le nebbie padane, in compagnia di sette cani, tre gatti e una consistente dose di misantropia. Il suo sogno nel cassetto è fare il giro dei bar di Pyongyang con Antonio Razzi e Sasha Grey.

«Lo vuoi un palloncino?» La frase cult del clown più terrificante del cinema, che proprio in queste settimane ha fatto il proprio trionfale ritorno grazie al remake diretto da Andy Muschietti. IT è sicuramente uno degli incubi più terrificanti che ci portiamo dietro dall’infanzia. Ma c’è qualcosa di più profondo dietro l’atavica paura che proviamo per quel grottesco pagliaccio. La coulrofobia.

Quadro del Clown Tragico in The Sims

Il quadro del “Clown Tragico” in The Sims.

Avevo sette anni quando venni introdotta al luminoso mondo dei videogiochi. Il primo amore fu Diablo, un action rpg, nel quale nei panni di un eroe si affrontavano immonde creature e demoni infernali al fine di riportare la pace. Una cosa tranquilla insomma. Il secondo fu The Sims, il simulatore di vita reale della Maxis che ti permetteva di creare e gestire dei personaggi virtuali. Fu lui a darmi più problemi dei Maligni. Nella seconda espansione infatti tra gli oggetti acquistabili per arredare la casa vi era un quadro raffigurante un clown che nascondeva però un “easter egg” inquietante: in un momento imprecisato, che fosse giorno o notte, a prescindere dalla felicità o meno del Sim, il “Clown Tragico” (questo il suo nome) usciva con una capriola dal quadro accompagnato da una musichetta degna di un film di Dario Argento. A questo seguiva un inquietante messaggio:

Si dice che la miseria ami la compagnia. Ma non vedo miseria in questa casa. Ecco, adesso vedo arrivare la compagnia! Quindi, perché non dici “Ciao!” al Pagliaccio Tragico? Non avrai mai voglia di dirgli “Addio”. O …forse sì?

Il Clown Tragico

Il messaggio del “Clown Tragico”.

Ricordo ancora la corsa che feci per scappare dal computer. L’immagine di quella figura esile e triste, il trucco pesante, grottesco che ne deturpava il viso non mi ha più abbandonata. Forse era già latente ed attendeva solo il momento giusto per palesarsi o forse devo davvero la colpa ad un gioco per il computer ma da allora non sono più riuscita a vedere un clown, fittizio o reale che fosse. La Coulrofobia, dal greco “paura per coloro che camminano sui trampoli”, è questo, l’atavico terrore per i pagliacci.

clown

Un clown (Levi Saunders/Unsplash ).

Gli psicologi affermano che almeno una persona su sette soffre di questo disturbo. E le persone che ne soffrono possono avere veri e propri attacchi di panico trovandosi al cospetto di uno di questi buontemponi da circo. L’intensità dell’attacco varia da persona a persona: per qualcuno si manifesta un rifiuto di sostenerne la presenza, rabbia, per altri si arriva addirittura a senso di nausea, fiato corto, svenimento. Qualche pomeriggio fa ero assieme ad un mio amico al Toys, che si sta ovviamente addobbando e preparando per Halloween. Mentre con Lorenzo stavamo ammirando la sezione dei Lego, ignorando coloro che si provavano i costumi ci trovammo dinnanzi ad un signore vestito da clown. Un mosaico di colori che stonavano tra loro, un trucco appena accennato, un cappello sul capo che ondeggiava ad ogni movimento dell’uomo. Rimasi paralizzata. Mani che formicolavano, cuore che palpitava con veemenza nel petto, senso di vuoto e smarrimento. Ci vollero quindici minuti per farmi uscire dal Toys. Al solo pensiero ho i brividi ancora adesso.

Gli studi affermano che, in alcune persone, il problema si manifesti a causa del trucco eccessivo che cela la vera identità e i sentimenti di chi indossa la maschera. Infatti, secondo gli psicologi, la paura è legata al primordiale istinto di sopravvivenza che ci spinge a tenerci lontani da chi non si manifesta per ciò che non è realmente. Ma la spiegazione medica nulla toglie al re dei clown terrificanti: IT. Stephen King ha dato vita ad un essere di pura malvagità che racchiude in sé le più profonde e radicate paure dell’uomo. Il tutto condito da un’antropomorfizzazione che avviene attraverso un clown, di nome Pennywise.

Tim Curry/Pennywise

“Pennywise” (Tim Curry) nella miniserie It di Tommy Lee Wallace (1990).

Lui, con i suoi palloncini, il suo modo di tormentare i bambini della città di Darry è sicuramente tra i primi colpevoli dei casi di Coulrofobia. E se pensavamo di esserci salvati, evitando la miniserie del 1990 che vedeva nei panni del cattivo un allucinato Tim Curry, siamo costretti oggi, ben ventisette anni dopo (lo stesso lasso di tempo che impiega “IT” per risvegliarsi dal suo torpore) a ritrovarci un nuovo adattamento. Ancora più cupo, inquietante e con un antagonista ancora più desideroso di turbare i nostri incubi. Persino la nuova stagione di American Horror Story, serie tv prodotta dalla 20th Century Fox, affronta il tema della coulrofobia. Che sia l’anno dei clown? Spero decisamente di no.

Bill Skarsgård/Pennywise

Pennywise (Bill Skarsgård) nel film It di Andrés Muschietti (2017).

Sono l’incubo peggiore che abbiate mai avuto, sono il più spaventoso dei vostri incubi diventato realtà, conosco le vostre paure, vi ammazzerò ad uno ad uno. »It/Pennywise

Il mio di incubo lo sei di sicuro, caro It.


Immagine copertina: Desertrose7/Pixabay

viaggio in Albania

Quello che segue è un diario di viaggio scritto a posteriori, sulla base di quanto io e Caterina ricordavamo della nostra otto giorni albanese. Nessuna pretesa di dare consigli, né tantomeno di surrogare una guida turistica, solo il desiderio di condividere le nostre esperienze in un Paese tanto vicino e al tempo stesso tanto lontano. L’Albania non è posto per chi ama troppo la comodità. Roba tipo Club Méditerranée non ne esiste, per intenderci, il che le fa guadagnare molti punti nella mia personale classifica. É invece un luogo in cui è possibile muoversi a stretto contatto con la gente del posto, condividendo la sua realtà quotidiana, cosa che, dal mio modestissimo punto di vita, rende ogni esperienza di viaggio degna di essere vissuta. Noi ci abbiamo messo un paio di giorni a “prendere il giro”, ma poi ci siamo ambientati piuttosto bene. Ovviamente non è stato tutto perfetto. Ci sarebbero piaciute, per esempio, strade più percorribili e un po’ meno approssimazione, ma alla fine anche questo entra a far parte di quel bagaglio di ricordi e esperienze che contribuiscono a rendere questo viaggio, come ogni altro viaggio, unico e irripetibile. Mio fratello, alla vigilia della partenza, mi aveva predetto che sarei tornato a casa senza portarmi nulla di particolare. Si sbagliava. Porterò sempre negli occhi tutti i toni di azzurro del mare di Palasë e di Ksamil, e le loro spiagge quasi deserte. Non dimenticherò la schietta gentilezza con cui siamo stati accolti quasi ovunque, e persino le Mercedes del traffico tentacolare di Tirana mi evocheranno nostalgie. Tanto che sarò costretto a tornarci.



continua

Raccontare di cose meravigliose, insolite o poco conosciute ed offrire loro asilo, salvandole così dall’oblio di una desertificazione della rete cui sopravvive solo ciò che viene globalmente condiviso da blog e social network: questo è il compito di Laputa. 

L’abbiamo scritto nella pagina dedicata al nostro Municipio e ne abbiamo fatto la nostra missione. Questa era anche un po’ la missione di Prismo, che in fondo come noi parlava delle cose che interessavano ai suoi autori, «dalla politica ai videogiochi, dalla fantascienza all’arte contemporanea, dal cinema d’autore alle saghe miliardarie». Purtroppo, per via degli impegni che gran parte della redazione ha con Tascabile, rivista online edita da Treccani, Prismo ha oggi annunciato la cessazione delle pubblicazioni. Nell’augurare il meglio ai suoi autori per la nuova avventura, vogliamo rendere tutto il nostro omaggio a Prismo e fargli sapere che ci mancherà, e ci mancheranno i suoi eccellenti articoli che più volte abbiamo citato, condiviso, “ritwittato”. Continueremo a conservare una speranza di rivederlo online prima o poi, perché si sa, in fondo i gatti han ben più di una sola vita. Quindi…

…so long and thanks for all the fish, Prismo!



 

Fortune

I “biscotti della fortuna” (fortune cookies) sono biscotti croccanti costituiti da una cialda dolce contenente un bigliettino con un motto, una frase profetica o divinatoria: sono usualmente serviti a fine pasto nei ristoranti cinesi in occidente (Nord America ed Europa) e per questo associati, nell’immaginario collettivo, alla tradizione cinese. In realtà sono stati inventati in America agli inizi del 1900, in seno alle numerose comunità di immigrati sino–nipponici sulla West Coast degli Stati Uniti. In particolare, la paternità del biscotto come lo conosciamo oggi è contesa tra San Francisco e Los Angeles, in California, anche se probabilmente si ispira ad una tradizione giapponese: il tsujiura senbei, un biscotto di sesamo e miso alla brace la cui esistenza è documentata già dal XIX secolo, solitamente accompagnato da biglietti con profezie.

Nei biscotti della fortuna californiani si trovano solitamente citazioni pseudo–filosofiche di un certo Fu Ling Yu: parodiando gli aforismi di Confucio, il Maestro dei biscotti di San Francisco propone frasi scherzose, triviali, con doppi sensi nemmeno troppo celati (tipo «meglio un pollo nel cespuglio che in mano») e decisamente troppo moderne per essere opera di un antico filosofo cinese (tipo «pagare gli alimenti è come fare benzina all’auto di un’altro»).

Chi è quindi questo Fu Ling Yu? Qualcuno azzarda che sia proprio il tizio che, agli inizi del secolo scorso, inventò i fortune cookies. La realtà, però, è che non esiste nessun Fu Ling Yu: il nome è di fantasia e si pronuncia come l’inglese fooling you, «ti sto prendendo in giro».

Produzione dei fortune cookies a San Francisco

Produzione dei fortune cookies a San Francisco (foto: E. Spartà).