foto: reflectionless/Commons, 2008 [CC-BY-SA 2.0]

1 – Il Fordson con il kit “Snow Motor” utilizzato a Truckee (Sierra Nevada, California) per la consegna della posta, conservato al Heidrick Ag History Center di Woodland (Commons).

Questo filmato promozionale del 1929, girato per essere proiettato ad una fiera, mostra in azione un trattore Fordson “Model F” del 1926 con il kit di adattamento inventato e prodotto dalla Armstead Motorsnow Company di New York. Due grandi tamburi a vite consentivano al mezzo di avanzare su neve, ghiaccio e sul fango, trasformando il trattore (o qualunque altro veicolo a motore) in un mezzo inarrestabile. La trasformazione era reversibile: d’estate era possibile rimontare le ruote originali, ma chi può volere un trattore normale dopo aver provato questa cosa fantastica? Come mostra il video, il kit della Armstead Motorsnow Company era applicabile anche alle automobili: ciò avrebbe consentito di raccogliere gli amici che arrancavano nella neve e condurli sicuri a casa, o ancora meglio al pub.  Un trattore Fordson con il kit Snow Motor era in uso a Truckee, sulla Sierra Nevada in California, per la consegna della posta (foto 1): i locali soprannominarono la macchina snow devil (diavolo delle nevi) ed il nomignolo si estese poi a tutti i veicoli di questo tipo, sebbene mai adottato ufficialmente dal costruttore.

2 – Zil-2906

Questo tipo di veicolo, detto screw-propelled (propulsione a vite), fu sperimentato anche dall’esercito americano durante la seconda guerra mondiale (progetto poi abbandonato in favore del cingolato Studebaker M29) e durante quella del Vietnam (prototipi costruiti da Chrysler) per la costruzione di mezzi militari adatti a muoversi in terreni ostili come paludi, foreste, neve e ghiaccio. Durante la guerra fredda questa strada fu percorsa anche dai sovietici con il veicolo multiterreno Zil-2906 (sopra), sviluppato specialmente per il recupero dei cosmonauti atterrati in luoghi inaccessibili.

fucile d'assalto subacqueo APS (foto: R. Wilk CC-BY-SA 3.0)

(R.Wilk/Commons CC-BY-SA 3.0)

Questo fucile, dagli insoliti proiettili calibro 5.66 –lunghi ben 10 cm– è un TsNIITochMash “APS”, che sta per Avtomat Podvodny Spetsialnyy (Автомат Подводный Специальный, “fucile d’assalto speciale subacqueo”). Arma sviluppata appunto per il combattimento subacqueo, fu ufficialmente adottata dalla Marina sovietica nel 1975. La punta appiattita dell’ogiva creava una cavità idrodinamica che diminuiva l’attrito con l’acqua mentre la lunghezza conferiva stabilità al proiettile: la velocità di uscita risultava quindi superiore a qualsiasi altro dardo lanciato con i metodi tradizionali, aumentandone la gittata e la letalità. Poteva anche sparare fuori dall’acqua con una gittata utile fra i 50 e i 100 metri. In acqua, invece, le sue prestazioni variano a seconda della profondità: a 5 metri riusciva a mantenere forza sufficiente per causare ferite serie fino a circa 30 metri.
Nel 1989 la strana arma e il suo ancor più particolare munizionamento vennero mostrati “involontariamente” al mondo per la prima volta durante l’incontro fra George Bush e Michail Gorbačëv al Summit di Malta, uno degli ultimi atti della guerra fredda, poche settimane dopo la caduta del muro di Berlino Parte della scorta del presidente sovietico era composta da uomini delle operazioni speciali subacquee (gli “uomini rana”), armati appunto con il fucile APS.U

Valletta 2 dicembre 1989: il presidente degli Stati Uniti d’America George Bush e il segretario del partito comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv al Summit di Malta. Foto: JONATHAN UTZ / staff (Getty)

b-62

Rugged…simple in design
easy and safe to maintain…
design must minimize human error

«Robusta, semplice nel design, facile e sicura da mantenere, la progettazione deve ridurre al minimo l’errore umano»: potrebbe essere lo slogan pubblicitario per una utilitaria o un elettrodomestico. Invece il “prodotto” è la bomba termonucleare B-61, destinata alla produzione in serie, che viene presentata in questo filmato del 1965 che sembra proprio uno spot pubblicitario, sebbene ad uso esclusivamente interno, almeno fino a quando il filmato fu declassificato e reso pubblico negli anni ’90 dall’amministrazione Clinton. Lo “spot”, che in buona sostanza doveva mostrare ai funzionari governativi come erano stati spesi i soldi pubblici, è declassificato e disponibile, insieme ad altre ormai storiche sequenze, su internet:

La Bomba B-61, il cui potenziale era regolabile tra i 0.3 ed i 340 kiloton, fu costruita in 3155 esemplari (più della tiratura della Lamborghini Diablo) e 9 versioni dai Los Alamos National Laboratory tra il 1965 ed il 1968, nel pieno della guerra fredda e della corsa all’armamento nucleare. Nonostante il trattato di non-proliferazione (NPT) siglato nel 1968, si stima che nell’86 vi fossero ancora ben 40 mila armi nucleari operative in tutto il mondo e nel 2006, nel solo arsenale USA, c’erano complessivamente 5737 ordigni includendo tutte le tipologie.

B-61_bomb

Una bomba B-61: «robusta e semplice nel design» (Commons)

 

 

american-grill-VladivostokUn soldato americano davanti ad un «American Grill», in un clima chiaramente freddo. Potrebbe essere stata scattata durante l’inverno nel North Dakota, ma le scritte a sinistra della porta sono in alfabeto cirillico… Infatti si tratta di un ristorante americano, ma a Vladivostok, in Siberia, nella Russia bolscevica: com’è possibile? Ebbene, nel 1918 (anno in cui fu scattata questa foto) il presidente Wilson inviò 5mila soldati americani (la “American Expeditionary Force Siberia” o “AEF Siberia”) a proteggere le proprietà americane (tutt’altro che rare all’epoca) ed il materiale ferroviario dalla rivoluzione di ottobre, ed aiutare a fuggire i militari della “legione cecoslovacca” che combattevano i bolscevichi: in pratica una forza di pace-keeping, anche se non fu esclusa a priori la possibilità di scontri con i rivoluzionari russi. Fu emessa anche una valuta provvisoria spendibile nei ristoranti: i cosiddetti “American Grill Roubles” (rubli americani), piccole banconote oggi rarissime. I soldati USA lasciarono definitivamente la Siberia nel 1920. Nonostante l’alleanza con Stalin nel ’41 per sconfiggere il III Reich, i rapporti già piuttosto tesi sarebbero sfociati nella guerra fredda, che avrebbe poi reso impossibile la presenza pacifica di soldati ed attività commerciali americane in terra sovietica per oltre mezzo secolo.

american-roubles

Il web ne è invaso. La maschera di Guy Fawkes, utilizzata dal protagonista di V for Vendetta, continua a imperversare in tutto il mondo occidentale. Come ha giustamente osservato Luigi Bernardi in una prefazione alla traduzione italiana del fumetto:

…è un fenomeno contraddittorio, legato a quello stesso mercato al quale giura di distaccarsi. Ma è un fenomeno con il quale ognuno è chiamato a fare i conti, indipendentemente dalla causa che l’ha originato. Volente o volente, nel rispetto o meno della volontà del suo autore, di un fumetto politico non si possono stabilire i limiti… 
Enrique Dans CC-BY-2.0

Enrique Dans/Commons [CC-BY 2.0]

Al di là dell’attuale moda però una cosa è certa: aver scelto il volto stilizzato di Guy Fawkes per identificare il protagonista è un colpo di genio. Come sono arrivati gli autori Alan Moore e David Lloyd a Guy Fawkes? È lo stesso Moore a spiegarlo, in perfetto umorismo inglese, in un divertente articolo pubblicato sul nº17 di Warrior Magazine in occasione della prima pubblicazione di V for vendetta nel 1983. Alan Moore nel 1975, all’età di 22 anni, inviò ad un concorso per la D.C. Thomson la sceneggiatura di un anomalo terrorista, chiamato “The Doll”, che col volto truccato di bianco lottava contro uno stato totalitario attorno alla fine degli anni ‘80. L’idea fu bocciata e Moore l’archiviò senza tanti complimenti. Nel 1982 Dez Skinn lanciò una nuova rivista, Warrior Magazine per l’appunto, e chiese al disegnatore David Lloyd di creare una nuova serie mystery ambientata negli anni ’30. Lloyd accettò la serie ma pensò di ingaggiare Moore per la sceneggiatura. I due autori iniziarono un intenso scambio epistolare e telefonico ma nel ribollire di idee nessuna prendeva forma in maniera compiuta. Le prime idee erano incentrate su un fumetto d’avventura pulp. Moore propose un personaggio chiamato “Vendetta” che si sarebbe mosso tra i gangster e un mondo anni ’30 per il quale era necessario della «buona e solida ricerca». Stando alle parole di Moore Lloyd era stanco di fare tanta buona e solida ricerca e minacciò di mangiarsi un braccio se gli fosse toccato di disegnare ancora delle auto Dusenberger del 1928. Moore propose così di conservare la traccia dell’avventura pulp ma anziché ambientarla in un passato relativamente vicino la si sarebbe ambientata in vicino futuro. L’idea piacque sia a Skinn sia a Lloyd e almeno il punto del contesto storico fu smarcato. Il passo successivo fu la creazione del personaggio principale e dell’ambientazione. Volendo creare un prodotto tipicamente britannico che si differenziasse da quelli americani, Moore pensò di proseguire nella tradizione dei futuri “distopici” di autori britannici come Orwell e Huxley, rispolverando così la vecchia idea di “The Doll”: un eroe in lotta contro un regime totalitario. Moore stilò una lunga lista di concetti ma senza raggiungere un risultato concreto. In questa confusione creativa Moore abbandonò anche l’idea del nome “Vendetta” per il personaggio per impantanarsi in tanti altri nomi tra cui, dimenticabile a suo dire, “L’Asso dell’Oscurità”. Il nome non era ancora stato scelto ma almeno gli autori avevano concordato quale fosse l’ambientazione da cui partire. Un importante svolta si ebbe quando Dez chiamò i due e li informò che parlando con il suo socio avevano trovato un titolo perfetto per la storia: V for Vendetta. L’idea piacque molto a Moore e Lloyd e da quel nome presero molti spunti per la storia. Rimaneva però un grosso problema: come raffigurare il protagonista? Per quanto si sforzassero i due rimanevano impantanati in cliché da supereroi che non volevano assolutamente adottare. Moore racconta che in una poco comprensibile, per via della pessima grafia, lettera Lloyd scrive:

«Oggetto. La sceneggiatura: mentre scrivevo queste righe, ho avuto un’idea sull’eroe, che è un po’ ridondante ora che abbiamo [parte illeggibile] ma ciò nonostante… stavo pensando, perché non lo ritraiamo come un resuscitato Guy Fawkes completo di una di quelle maschere di cartapesta, con tanto di mantello e cappello a cono? Avrebbe un’aria davvero bizzarra e darebbe a Guy Fawkes l’immagine che si è meritato in tutti questi anni. Non dovremmo bruciare quel tizio ogni 5 Novembre, dovremmo festeggiare il suo tentativo di far saltare in aria il Parlamento

Fu il colpo di genio. Moore pensò che Lloyd fosse meno sano di mente di quel che riteneva e allo stesso tempo che quella fosse l’idea migliore che avesse mai sentito. In effetti è difficile comprendere per chi non è inglese la portata di quella idea: sono tre secoli che in Inghilterra si festeggia il fallito complotto delle polveri e in cui ogni 5 novembre vengono bruciati fantocci coi tratti di Guy Fawkes e sparati fuochi d’artificio per ricordare l’evento (→Guy Fawkes). Nell’irriconoscibile Inghilterra che i due immaginavano l’antieroe sarebbe risorto in una nuova luce, questa volta a differenza della storia reale, positiva. Ovviamente per gli autori le difficoltà non finirono lì. Lloyd propose a Moore di eliminare gli effetti sonori e di non usare mai i balloon con i pensieri; Moore ne era affascinato e allo stesso tempo preoccupato perché non sapeva come caratterizzare i personaggi senza quei balloon. Moore alla fine accettò la sfida e anzi rilanciò che avrebbe eliminato anche qualsiasi didascalia: il fumetto si sarebbe basato interamente su immagini e dialoghi (e monologhi). Anche il resto dell’opera fu ideata grazie ad un intenso scambio di idee dei due autori che si sono così influenzati a vicenda. Il risultato è semplicemente una pietra miliare.

Londra, 5 novembre 2014: manifestanti indossano la maschera di “V for Vendetta” durante la Million Mask March (Anadolu Agency/Getty Images)

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La foto alla base del meme “doge” da cui deriva il Dogecoin (da “Know Your Meme”)

La criptovaluta o crittovaluta è una valuta digitale decentralizzata la cui implementazione si basa sui principi della crittografia sia per convalidare le transazioni che per generare la stessa moneta. Detta così sembra complicata –ed in effetti lo è– ma per l’utente finale non è poi così difficile da usare: in pratica la moneta fisica è sostituita da codici talmente complessi da poter essere difficilmente falsificati e le transazioni sono garantite da un sistema di cifrature a chiave pubblica e privata e da una validazione peer to peer da parte dei “nodi”, gli elaboratori che partecipano alla rete della criptovaluta. La generazione della moneta avviene in maniera assimilabile all’estrazione dei metalli preziosi ed è infatti detta mining: la “contropartita” è l’utilizzo della propria potenza di calcolo per risolvere complessi problemi detti “blocchi” (la cui complessità è preimpostata dai protocolli della valuta) ed ottenere come i risultato la “estrazione” dei codici corrispondenti ad un certo numero di nuove monete. La prima criptovaluta ad essere creata fu nel 2009 il famoso Bitcoin, tutt’ora la moneta virtuale più nota ed utilizzata. Il principio si estese però e ad oggi dovrebbero esistere oltre 60 diverse criptovalute. Una di queste è il dogecoin, caratterizzato dal logo che riporta l’effigie di un cane di razza Shiba Inu ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, con la passione per i cani o la militanza animalista non c’entra nulla: deriva infatti da un “internet meme” e sottolinea lo spirito umoristico che ha caratterizzato la nascita di questa moneta virtuale.

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Un esempio del meme “doge” (da Know Your Meme).

Un “internet meme” è un’idea, in genere espressa attraverso una immagine divertente, che si diffonde rapidamente diventando celebre in pochissimo tempo. Un esempio è il classico trollface (nato da uno sketch pubblicato da un utente di Deviantart) o il manifesto “Keep Calm” risalente alla seconda guerra mondiale, recentemente riscoperto dagli amanti del minimalismo. I meme, caratterizzati prevalentemente da un umorismo demenziale che rasenta il non-sense, nascono in continuazione e -salvo casi di sorprendente longevità- svaniscono in fretta: fortunatamente a preservarne la memoria e il significato (che già dopo pochi mesi più diventare inafferrabile) si prodiga il sito Know your Meme, archivio-osservatorio della effimere tendenze della rete. Lo stesso sito aveva premiato nel 2013, come “miglior meme dell’anno”, il cosiddetto “doge” ovvero una foto nella quale il sopraccitato cane sembra avere una espressione buffa, accompagnata dalla scritta «wow» o sgrammaticati monologhi attribuiti all’animale, rigorosamente nel carattere Comic-Sans (uno dei più odiati sul web, ma questa è un’altra storia). Non c’è un significato: è una cosa totalmente priva di senso, ma che gli utenti anglofoni della rete devono aver trovato irresistibilmente divertente, tanto da decretarne il successo.

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2 – Un “dogecoin”: la moneta fisica non esiste, immagini come questa sono utilizzate solo come logo (da Reddit).

Nel novembre 2013, in piena “bitcoin-mania” (la 3ª bolla speculativa nella storia della criptovaluta[1]) tale Jackson Palmer, addetto al marketing presso Adobe e appassionato di crittomonete, per scherzo scrisse su Twitter «Sto investendo in Dogecoin, sono abbastanza sicuro che sarà il prossimo successone»; di li a poco aprì il sito dogecoin.com e vi pubblico solo l’immagine di una moneta con l’effigie del cane Shiba Inu reso celebre dal meme. La cosa sarebbe finita lì se non fosse stata notata da uno sviluppatore di software che lavorava per IBM e si dilettava in criptovalute, tal altro Billy Markus il quale aveva sviluppato una moneta chiamata “Bells” ispirata al gioco Animal Crossing per Nintendo e trovò l’idea di Palmer divertente. Così, senza alcuna pianificazione, nacque il Dogecoin, la più “nerd” tra le valute “nerd”.

Come si usa?

Non ci addentriamo nelle spiegazioni tecniche, di cui potete trovare ampia documentazione in rete (a partire dal sito ufficiale: dogecoin.com), ma per utilizzare i Dogecoin è necessario un software gratuito e open-source che funge da “portafoglio”, come Wowdoge o Multidoge. Il portafoglio crea degli “indirizzi” (sequenze alfanumerici di 34 caratteri) che servono a ricevere le transazioni, un po’ come l’IBAN della banca. Una volta installato il programma, è relativamente semplice comprendere il funzionamento dello stesso e del sistema. Se no, su internet si trovano tutte le istruzioni necessarie.

Come si ottengono i Dogecoin?

Come tutte le criptovalute i Dogecoin possono essere “estratti” mediante il mining, ma richiede computer discretamente potenti e una certa dimestichezza con gli stessi: non è detto che il gioco valga la candela, meglio lasciarlo fare ai più “smanettoni”.[2] Sebbene sia possibile acquistarli, personalmente sconsiglio vivamente di investirci denaro vero, se non siete esperti. Le criptovalute sono soggette a imprevedibili oscillazioni del valore, da un giorno all’altro potrebbero non valere più nulla ed inoltre esiste il rischio di perderle per un crash del computer (fatevi sempre un backup del portafoglio, basta esportare le chiavi private) o un’intrusione di hacker. Prendetelo come un gioco e nulla più. Il modo più semplice per farci un po’ di pratica è ottenerli gratuitamente visitando i cosiddetti faucet (rubinetti), ovvero siti che regalano piccole somme in criptovalute facendovi vedere un po’ di pubblicità: ad esempio Freedogecoin (che fino ad ora si è dimostrato affidabile e sicuro) dove ogni ora è possibile partecipare del tutto gratuitamente ad una “lotteria istantanea”, vincendo un quantitativo variabile di criptomonete. Se vi fermate qui, non rischiate nulla se non di perderci un po’ di tempo libero. Se volete andare oltre… fatelo a vostro rischio.

dogecoin banner

Note

  1. [1]Cfr. “La timeline dei primi 5 anni di BitcoinMotherboard 10-1-2014.
  2. [2]Smanettone, sul dizionario Garzanti.

Fonti

Documentazione e software

  • Sito ufficiale Dogecoin: ci sono anche link ai forum sul Dogecoin (Community) ed ai negozi online che accettano i Dogecoin.
  • Multidoge: un portafoglio “lightweight” gratuito ed open source, basato su Multibit, per Linux, OSX e Windows.
  • WowDoge: un altro portafoglio “lightweight” gratuito ed open source, per Linux, OSX e Windows.

Disclaimer

Le risorse esterne (link) in questo articolo puntano a siti di terzi non collegati con Laputa. Non ci assumiamo perciò alcuna responsabilità su di essi in quanto il loro contenuto potrebbe variare nel tempo senza preavviso.

© Prussiani VS Alieni - Prussiani

Siamo nel 1789. L’attenzione del Mondo è puntata sulla rivoluzione francese e nessuno si accorge che l’esercito prussiano sta respingendo una minaccia aliena.

«Il pingue Re Federico Guglielmo II ha il peggior risveglio della sua vita. Una notizia inquietante riecheggia per il palazzo reale: tutti i cavalli di Prussia sono spariti. Non poteva succedere cosa peggiore allo stato che fa del proprio esercito un vanto… Dopotutto un esercito del XVIII secolo senza i cavalli non è un vero esercito! Chi li ha fatti sparire? Chi può aver rubato tutti quegli animali in una notte sola? I servizi segreti non ci mettono molto a scoprire che il colpevole è arrivato dal cielo. A rapire tutti quegli equini sono stati spietati alieni provenienti dalla Luna! Non ci sono storie: quei cavalli vanno recuperati, e subito! Come fare? I prussiani hanno un corpo speciale, una task force segreta composta da soli sei uomini, o meglio, tre uomini e tre donne. Tutti soldati scelti tra i migliori militari del regno di Prussia. Ognuno di questi agenti scelti è al comando di un robot.»

Questa è la singolare (e delirante) idea alla base del graphic novel Prussiani vs. Alieni, il romanzo a fumetti scritto da Davide La Rosa e disegnato da Riccardo Pieruccini (si, lo sappiamo che storicamente  Gli autori, con il supporto del team Coffe Tree Studio, avevano deciso di autofinanziarsi con la tecnica del crowdfounding o “finanziamento collettivo”, tramite una campagna di raccolta fondi in rete. Al primo tentativo non si era raggiunta la quota necessaria, ma il pubblico –che nel frattempo si era affezionato agli ormai rassegnati prussiani, conosciuti dalle bozze diffuse in anteprima per tutta la durata della campagna– chiedeva a gran voce una seconda possibilità per i simpatici baffuti. Dal canto loro, i prussiani hanno sempre un “piano B” ed ecco infatti che oggi, 10 novembre, tentano il tutto per tutto: nuova campagna di crowdfunding, ma questa volta la storia sarà divisa in due volumi così da affrontarne metà per volta e dimezzare il budget richiesto. Gli appassionati avranno solo venti giorni di tempo per sostenere gli amici ed assicurarsi un posto nella tormentata storia dell’Europa della fine del XVIII secolo. Noi di Laputa non potevamo esimerci dall’offrire allo staff di Prussiani vs. Alieni tutto il nostro sostengo: non solo perché attratti dalle cose meravigliose ed insolite –e questo mix di fantastoria, steampunk vittoriano e robottoni di ispirazione anime anni ’80 lo è senza dubbio– ma anche perché non vogliamo che i simpatici prussiani finiscano in un cassetto per sempre: se anche voi vi sentite di aiutarli, potete assicurarvi una copia del volume su Indiegogo. Vogliono salvare il mondo, non lasciamoli soli.

Gli autori

© Prussiani VS AlieniDavide La Rosa nasce a Como il 23 Giugno 1980 (sì, Como c’era già negli anni 80). Fa un mucchio di cose di scarso interesse fino al 2001 quando si iscrive alla scuola del fumetto “La nuova Eloisa”. Dal 2002 è cofondatore di Fumetti Disegnati Male, rivista tuttora attiva, come attivo è il suo blog, Mulholland Dave dove pubblica una secchia di fumetti scritti e disegnati – appunto – male. Dal 2010 inizia a pubblicare con Nicola Pesce Editore con il quale ha pubblicato tre libri. Dal 2011 lavora come sceneggiatore per la Star Comics con la quale ha creato e pubblicato la serie Suore ninja. Ha inoltre collaborato con la trasmissione Voyager di Rai2 e per la rivista del CICAP, Query. Fa anche altre cose e ha 3 gatti. Morirà il primo mercoledì utile.

© Prussiani VS AlieniRiccardo Pieruccini nasce a Lucca nel 1979. Quando si rese conto che erano gli anni ’80 – dopo aver visto un video di Mc Hammer – decide che avrebbe dedicato anima e corpo ai cartoni animati robotici che in quel periodo arrivano a fiumi dal Giappone. Il passaggio dagli anime ai fumetti fu la sua iniziazione: letture, esperimenti, duro esercizio e formazione lo portarono a laurearsi in Pittura all’Accademia di belle Arti di Firenze e diventa allievo di Simone Bianchi (Marvel), per il quale lavorerà dal 2011. Nel 2001 vince il Pierlambicchi d’Oro ma la ferma convinzione che prima o poi riuscirà a pilotare un robot alto 50 metri e costoso quanto il PIL della Lombardia per puro sfizio lo spinge a darsi al fumettismo per non morire di fame nel frattempo. Ha collaborato con Marvel (supplier nelle serie Thanos Rising, New Avengers, Original Sin), Star comics (penciler in Cornelio, The Secret) e Rainbow (penciler, Winx), alternando lavori di illustrazione per film (Gabriele Salvatores) e pubblicità, e ha insegnato comics e sketching alla Florence Design Academy dal 2007 al 2011. Oggi, nonostante disegni prussiani con robottoni assieme a Davide la Rosa, pare sia ancora in salute.

Tutte le immagini © Prussiani VS Alieni (tranne il logo di Laputa). Ringraziamo gli autori e Coffe Tree Studio per la concessione.

Heysel_plan

1 – Mappa dell’Heysel: il settore Z occupato dai tifosi italiani nella parte laterale viene invaso dagli hooligan inglesi (Commons).

Margaret_Thatcher_1984

2 – Margaret Thatcher negli anni ’80

Era la finale di Coppa dei Campioni del 1985, la partita che ogni tifoso di calcio sogna di vedere con la propria squadra in campo. Il 29 maggio 1985 la finale si tenne allo stadio Heysel di Bruxelles (oggi “Stade Roi Baudouin”) tra Juventus e Liverpool. I tifosi inglesi prima della partita iniziano a premere contro il famigerato settore Z occupato dai tifosi juventini. Con la polizia belga totalmente impreparata a fronteggiare gli eventi scoppia il caos che alla fine porterà al tragico bilancio di 39 morti, dei quali 32 italiani, e seicento feriti. Il governo britannico guidato da Margaret Thatcher propose alla UEFA di sospendere a tempo indeterminato le squadre inglesi dalle competizioni europee [1]; la proposta fu accolta e rimase in vigore fino al 1990. Pochi giorni prima dell’Heysel vi era già stata la tragedia di Bradford in cui durante un partita di calcio di una serie minore inglese erano morte 56 persone a causa di un incendio. La Thatcher opta per la repressione e nel 1985 viene emanato lo Sporting Event Act che limitava l’acquisto e il consumo di bevande alcoliche all’interno di impianti sportivi, a cui segue nel 1986 il Public Order Act che permetteva di vietare l’ingresso negli impianti sportivi ai tifosi considerati violenti o comunque con atteggiamenti considerati “allarmanti”, stabilendo per questi l’obbligo di firma nei comandi di polizia[2]. In tutti gli stadi, di cui molti vecchi se non fatiscenti, furono erette barriere di metallo in cui relegare i tifosi ospiti ed impedire il contatto con gli altri settori.

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3 – “Sheffield Wednesday Football Ground”, lo stadio di Hillsborough, nel 2008 (foto: M. Knapton CC BY-SA 3.0)

Il 15 aprile del 1989 durante la semifinale di FA Cup, il secondo trofeo sportivo più antico del mondo, a Hillsboroug i tifosi del Liverpool in ritardo nell’ingresso allo stadio finirono per concentrarsi all’inverosimile in un settore. Lo spazio esiguo e la marea di persone che volevano entrare crearono il caos che costò la vita a 96 persone, soprattutto ventenni, rimaste schiacciate contro le barriere di metallo. Quella di Hillsboroug fu una tragedia orribile, la più grande tragedia sportiva britannica e come si seppe anni dopo a causarla non furono gli hooligans ma le gravi mancanze delle polizia che tentò poi di scaricare le colpe su di loro. I giornali incolparono i tifosi e per anni la verità non venne a galla. Nel 2012 il primo ministro britannico David Cameroon riconobbe le colpe della polizia e chiese scusa alla memoria delle vittime e alle loro famiglie per una doppia ingiustizia durata vent’anni. A seguito della tragedia il governo inglese commissionò un’inchiesta al giudice Peter Taylor mentre venne emanato il Football Spectators Act che prevedeva il divieto a partecipare a eventi sportivi per le persone condannate per reati legati alle partite di calcio; fu stabilito inoltre che per entrare negli stadi fosse necessario un documento di identità e fu anche creato un team poliziesco ad hoc, la “National Crime Intelligence Service Football Unit”, per monitorare e contrastare il fenomeno hooligans. Nel 1990, la Thatcher ormai non era più primo ministro, il rapporto Taylor fu consegnato e la conclusione fu soprattutto una: il pericolo maggiore era concentrare tanti tifosi in spazi stretti e in piedi.

Amicizia

4 – Fans del Liverpool compongono la scritta “amicizia” il 6 aprile 2005 sugli spalti (“kop”) dello stadio di Anfield (Liverpool), in occasione del primo incontro con la Juventus 20 anni dopo la strage di Heysel del 1985 (foto: P. Chambers CC BY-SA-3.0)

E qui avvenne la svolta. Le società di calcio furono obbligate ad una completa ristrutturazione degli impianti con la eliminazione delle barriere tra il campo e la tribuna; la capienza minima prevista fu stabilita in 20mila posti con l’installazione di seggiolini in tutti i settori; gli impianti furono dotati di telecamere a circuito chiuso; alle società fu affidata la sorveglianza all’interno degli impianti attraverso la presenza di stewards privati in collegamento via radio con la polizia (presente solo all’esterno); fu vietato alle società di intrattenere rapporti con i propri tifosi, salvo per la collaborazione finalizzata a prevenire incidenti.

Le misure di repressione della violenza ovviamente non furono abbandonate. Oltre alla squadra speciale per monitorare il fenomeno è stato creato un “numero verde” a cui telefonare per segnalare episodi violenti o persone sospette. Nel 1991 fu emanato il Football Offences Act che permette alla polizia di arrestare e far processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale come ad esempio per linguaggio osceno o cori razzisti. Tutte queste misure portarono così al trasferimento della violenza dall’interno degli impianti all’esterno tanto che la violenza degli hoolingans infatti non cessò spostandosi dall’Inghilterra all’Europa, come in occasione dei Mondiali di Francia nel 1998 e gli Europei di Belgio e Olanda nel 2000. In seguito a quegli incidenti il governo Blair conferì poteri enormi a Scotland Yard che ora può sequestrare il passaporto impedendo la trasferta anche a chi è solo “sospettato” di atteggiamenti violenti. Il fenomeno quindi non è scomparso o debellato ed è tuttora fronteggiato ma gli inglesi perlomeno sono riusciti a eliminare la violenza dagli stadi e a impedire che si ripetano le tragedie degli anni ’80. Il modello inglese quindi non è solo repressione: questa è invece solo una parte necessaria di una serie di provvedimenti volti a fare degli stadi un posto sicuro e confortevole dove assistere allo spettacolo del calcio.

E in Italia? Si parla spesso di modello inglese e di Thatcher senza considerare come la soluzione non sia unica ma passi per una serie di iniziative che comportano tempo, investimenti e leggi che funzionino. Come minimo siamo indietro di vent’anni.

Note

  1. [1]Il Liverpool avrebbe scontato un anno in più di squalifica dopo la fine “dell’embargo”.
  2. [2]Questa misura è già in vigore anche in Italia.