La mattina del 20 aprile del 1535 i cittadini di Stoccolma assistettero ad uno spettacolo incredibile: da sei a otto “soli” scintillavano nel cielo, attraversato da altrettanti aloni a forma di cerchio o arco. Secondo la vox populi, un segno soprannaturale che avvertiva della collera divina e forse l’imminente arrivo della conseguente punizione sottoforma di sventura. Per la Svezia era un particolare momento storico: nel 1521 il nobile svedese Gustavo Vasa era riuscito a muovere i contadini alla rivolta contro la Danimarca, dando inizio alla guerra di liberazione svedese che portò alla deposizione del re danese Cristiano II da reggente dello stato scandinavo dell’Unione di Kalmar. Il 6 giugno del 1623 Gustavo Vasa fu eletto re di Svezia con il nome di Gustavo I e uno dei primi problemi che il nuovo monarca dovette affrontare fu l’impoverimento del paese causato dalla guerra civile ed il grande debito (100 000 marchi) contratto con Lubecca, che aveva prestato alla Svezia uomini e denaro e ora chiedeva di essere ripagata. Gustavo I, allora, pensò bene di ripianare il debito appropriandosi delle ricchezze della chiesa cattolica in Svezia. Attingendo agli insegnamenti del protestantesimo e agli argomenti predicati a Stoccolma dal pastore riformista Olof Persson (aka Olaus Petri) e altri giovani ecclesiastici, portò avanti una battaglia contro la ricchezza secolare del clero, riuscendo nel 1527 a far approvare dalla Dieta di Västeras la confisca dei beni ecclesiastici e la trasformazione ex lege della chiesa svedese in un culto protestante di matrice luterana sotto il controllo del monarca. Questa innovazione imposta, la spoliazione dei beni della chiesa e la demolizione di chiese e monasteri crearono (ovviamente) un grande malcontento tra i cattolici e anche Olaus Petri — che inizialmente aveva dato un contributo sostanziale alla riforma — criticava aspramente i metodi del re nei suoi sermoni. Dulcis in fundo, gli emissari del re danese Cristiano II (il quale si era legato al dito quella cosa dell’indipendenza svedese) sobillavano la popolazione a rivoltarsi contro la monarchia svedese che aveva impoverito e isolato il paese.
Gustavo Vasa entra a Stoccolma

L’entrata di Gustavo Vasa a Stoccolma, dipinto di Carl Olof Larsson (1908).

In questo contesto di tensione, e in un epoca in cui era ancora molto forte l’interpretazione religiosa dei cosiddetti “prodigi” in senso soprannaturale, lo spettacolare fenomeno fu visto da molti come un presagio dell’imminente vendetta di Dio sul re Gustavo I, colpevole di aver imposto il protestantesimo e di aver iniziato la guerra contro gli ex alleati danesi. Anche il riformista Olaus Petri interpretò la moltiplicazione del sole come un segno divino e subito commissionò al pittore svedese Urban Målare un quadro che raffigurasse la scena da mostrare alla propria congregazione. Tuttavia il pastore era incerto su quale significato attribuirgli. Poteva essere un avvertimento per il re, che aveva fatto distruggere gli edifici sacri e aveva accentrato sotto di sé il controllo della chiesa? O al contrario un avvertimento per i controriformisti, che cospiravano invece contro la monarchia svedese? Sebbene seriamente turbato dall’evento, nell’estate successiva diede una risposta “democristiana” che non scontentava nessuna delle due fazioni, spiegando che c’erano due tipi di segni: uno prodotto dal Diavolo per indurre gli uomini ad allontanarsi da Dio, e un altro prodotto da Dio per indurre l’uomo ad allontanarsi dal maligno; ma siccome l’uno era irrimediabilmente difficile da distinguere dall’altro non era possibile trarne una conclusione certa. Dal canto suo Gustavo I liquidò pragmaticamente la vicenda concludendo che, siccome i soli “finti” erano presto scomparsi, il prodigio non doveva annunciare nulla di significativo.

Il quadro di Urban Målare, noto come Vädersolstavlan (dipinto del parelio), fu esposto nella cattedrale di Stoccolma (Storkyrkan) accompagnato da una iscrizione in latino:

Anno 1535 1 Aprilis hoc ordine sex cœlo soles in circulo visi Holmie a septima matutina usque ad mediam nonam antermeridianam
Anno 1535 1 aprile questo ordine di sei soli in circolo è apparso a Stoccolma dalla settima ora alla media nona del mattino



Nel XVII secolo si perse la memoria dell’evento: nel 1622 il diplomatico danese Peder Galt, incuriosito dal quadro e dalla enigmatica didascalia, chiese cosa rappresentasse ma nessuno seppe dargli spiegazioni. Il dipinto originale del 1535 andò perduto ma ne sopravvive una copia, un dipinto realizzato nel 1636 da Jacob Elbfas e conservato nella stessa cattedrale, accompagnato da un cartiglio che recita — in latino e in svedese:

Anno del Signore 1535
Il ventesimo[1] giorno del mese di aprile sono stati visti nel cielo sopra Stoccolma tali segni da quasi le sette alle nove del mattino

Vädersoltavlan, 1636

Il dipinto Vädersoltavlan di Jacob Elbfas del 1636, copia dell’originale di  Urban Målare, raffigura il fenomeno del 1535.



Cos’era successo in realtà a Stoccolma quella mattina di aprile del 1535? In realtà, un fenomeno atmosferico ben noto e piuttosto comune, sebbene in quell’occasione si fosse manifestato con particolare intensità: quello del parelio o “cane del sole”. I sottili cristalli di ghiaccio di forma esagonale sospesi nell’atmosfera, che solitamente costituiscono le nubi dette “cirri”, agiscono come prismi causando la rifrazione della luce solare che si manifesta con cerchi o archi di luce (detti “cerchi parelici”) e macchie luminose che sembrano altri soli che accompagnano quello vero (da qui, forse, l’espressione “cani del sole”, la cui etimologia rimane però incerta). Un fenomeno altrettanto spettacolare, ricordato come “il Miracolo dei sette soli”, si manifestò a Danzica nel 1661.

parelio a Fargo nel 2009

Un parelio molto evidente a Fargo, Fargo, North Dakota (USA) nel febbraio 2009.

Nonostante all’epoca fossero molto frequenti le interpretazioni catastrofistiche dei cosiddetti “prodigi” come segni soprannaturali dell’ira divina, il fenomeno era probabilmente compreso dagli eruditi come naturale già in età medievale: lo stesso titolo del dipinto Vädersolstavlan, significava in svedese “dipinto del sole atmosferico”, il che sembra suggerire la natura ottica-atmosferica del fenomeno. Nel XVII secolo il gesuita bavarese Christoph Scheiner (1573-75 – 1650), fisico ed astronomo, studiò approfonditamente il fenomeno dei finti soli e vi dedicò il trattato Parhelia. Il Vädersolstavlan di Jacob Elbfas del 1636 è tuttora conservato nella cattedrale di Stoccolma ed è considerato non solo la più antica raffigurazione di un parelio, ma anche il più antico dipinto di Stoccolma e di un paesaggio svedese: riscoperto nel XX secolo, oggi è considerato uno dei quadri più iconici della storia della città.
illustrazione parelio 1493

Illustrazione di un parelio, di Hartmann Schedel per Le Cronache di Norimberga (1493).



 

Note e riferimenti

  1. [1]Il cambio di data, dal 1 aprile della iscrizione originaria al 20 aprile di quella del XVII secolo, potrebbe essere dovuta alla differenza tra il calendario gregoriano e quello giuliano precedentemente in vigore, sebbene l’impero svedese avesse adottato il gregoriano solo nel 1699.
  • Bolin, Sture “GUSTAVO I Erikson Vasa, re di Svezia” in Enciclopedia Italiana. Treccani, 1933.
  • Walter, François Catastrofi – una storia culturale. Angelo Colla Editore, 2009. Pag. 85. ISBN 978-88-89527-26-9
L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Schwalbach, Germania Ovest, una cittadina nel Saarland vicino al confine con la Francia. Era il 1° aprile del 1989 e mancavano 222 giorni al cosiddetto “crollo” del Muro di Berlino. Un funzionario del comune in vena di burle compilò una richiesta di asilo politico a nome di un rifugiato polacco, tale “Karol Wojtyla”, classe 1920, professione: Papst (Papa). Nella motivazione della richiesta il malcapitato riferiva di essere fuggito da Roma, dove era stato «costretto a diventare rappresentate ufficiale della mafia vaticana», ed essere arrivato a Schwalbach in autostop. In seguito l’impiegato burlone fu spostato in un altro ufficio e chi lo sostituì si trovò sulla scrivania una richiesta di asilo da parte del signor Karol Wojtyla, professione pontefice, in fuga dalla mafia vaticana.[1]
Forse il nuovo funzionario restò un po’ perplesso, ma fece quello che avrebbe fatto un Bürokrat tedesco: mandò avanti la pratica. Così, al papa autostoppista fu concesso dapprima un permesso di soggiorno provvisorio (ironia della sorte: con atto numero 666) e, nonostante non si fosse presentato alla visita di controllo, fu in seguito assegnato a un centro profughi nella Renania-Palatinato dove lo avrebbero però atteso invano. Apparentemente, in tutto questo, nessuno si accorse  che la fototessera allegata alla pratica non raffigurava nemmeno Giovanni Paolo II ma un altro celebre polacco, tale Lech Wałęsa, attivista politico, fondatore di Solidarność (chi ha vissuto gli anni della guerra fredda si ricorderà questo nome), il sindacato che proprio nell’aprile dell’89 avrebbe ottenuto il riconoscimento legale di partito politico e che l’anno successivo porterà lo stesso Wałęsa alla presidenza della Polonia. Ci vollero molti mesi prima che qualcuno si accorgesse della beffa e la storia uscisse sulla stampa locale.[1]
Lech Wałęsa

Lech Wałęsa



Forse la scelta dei personaggi, nella mente dell’ideatore, celava una certa polemica anticattolica (Wojtyła era il Papa, ma anche Wałęsa era un convinto cattolico) e anticlericale (nel riferimento alla «mafia vaticana»), forse l’ironia era più di matrice politica (sia Wojtyła che Wałęsa erano anticomunisti); o forse la nazionalità dei due tradiva un sentimento anti-polacco, cosa che all’epoca accomunava le due Germanie ancora divise: ad est perché li si collegava al sindacato Solidarność che, essendo filocattolico e antisovietico, era inviso ai sostenitori della Deutsche Demokratische Republik ed alla propaganda di regime; ad ovest invece perché i polacchi erano vittima di uno stereotipo razzista che li vedeva come poveraglia dell’est venuta a rubare il lavoro e le automobili — all’epoca infatti erano molto comuni tra i tedeschi occidentali battute tipo «Komm nach Polen: dein Auto ist schon da![2]» (vieni in Polonia: la tua auto è già qua). O, infine, nulla di quanto sopra: forse fu un Aprilscherz, un semplice “pesce d’aprile” fine a sé stesso.


  1. [1]cfr: Vannuccini, Vanna e Francesca Predazzi Piccolo viaggio nell’anima tedesca. Milano: Feltrinelli, 2017.
  2. [2]Möller, Stephen Viva Polonia: Als deutscher Gastarbeiter in Polen (2018)

piccolo viaggio nell'anima tedesca (copertina)


L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

La “festa della donna” nacque negli USA nel 1909 ma non ha nulla a che vedere con la macabra storia dell’incendio di una fabbrica come si sente raccontare ogni anno in occasione di questa ricorrenza. Il 3 maggio del 1908 la socialista Corinne Brown presiedette infatti la conferenza domenicale del Partito socialista di Chicago nel Garrick Theater. Quella giornata, cui parteciparono moltissime donne, fu chiamato “Women’s Day”. Visto il successo dell’evento, alla fine dell’anno il Partito socialista americano raccomandò a tutte le sezioni locali di riservare l’ultima domenica di febbraio 1909 ad una manifestazione in favore del diritto di voto alle donne (women’s suffrage): fu così che la prima “giornata della donna” si tenne il 23 febbraio di quell’anno negli Stati Uniti. Da allora, questa data fu fissata appunto il 23 febbraio di ogni anno – non l’8 marzo – e divenne a poco a poco internazionale. Nel 1913 arrivò anche in Russia per iniziativa del partito bolscevico e fu qui che slittò all’8 marzo, data oggi conosciuta, per una “confusione” di calendari: era il 23 febbraio del 1917, proprio nella giornata internazionale della donna, quando a San Pietroburgo si tenne una grande manifestazione delle donne che invocavano la fine della prima guerra mondiale (foto). I cosacchi tentarono con scarso successo di reprimere la manifestazione, scatenando per reazione una serie di sollevazioni popolari con l’appoggio delle forze armate, che portarono al crollo dello zarismo. Quella giornata della donna del 23 febbraio 1917 fu così associata all’inizio della rivoluzione russa, ma in Russia vigeva il calendario giuliano, per cui il loro 23 febbraio coincideva con l’8 marzo del calendario gregoriano in vigore nel mondo occidentale: ecco perché questa data divenne così celebre. La celebrazione dell’8 marzo nacque quindi come una festa antifascista ante litteram e non come la commemorazione di una tragedia come vorrebbe la leggenda. Infatti, l’associazione di questa data con l’incendio di una fabbrica nella quale morirono solo donne operaie, addirittura – secondo alcune versioni della leggenda – appiccato da un padrone caifasso e maschilista mentre le stesse protestavano per i propri diritti, è un falso storico: probabilmente negli anni si fece confusione con il disastroso incendio (realmente avvenuto) della fabbrica Triangle Shirtwaist Factory di New York del 25 marzo 1911 nel quale morirono 123 donne e 23 uomini, ma che non ha nulla a che vedere con la storia della ricorrenza e di cui fu oltretutto esclusa l’origine dolosa. Nella narrazione femminista, la storia della fabbrica bruciata divenne un tearjerker propagandistico di sicuro effetto che, ripetuto ogni anno nelle assemblee, finì per fissarsi nell’immaginario collettivo. Anche i vari significati simbolici che legano la mimosa all’8 marzo sono inventati ex post: questa tradizione nacque in Italia nel 1946 da una proposta delle deputate comuniste Teresa Noce, Lidia Montagna e Teresa Mattei, che scelsero la mimosa semplicemente perché fiorisce tra febbraio e marzo e perché, essendo poco costosa, era adatta a tutte le estrazioni sociali. 

L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Adelaide, 1923: dopo la chiusura dei bar.

Adelaide (Australia), 1923: poco dopo la chiusura dei pub.

Se oggi le grandi città australiane possono vantare una nightlife piuttosto movimentata, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale passeggiare per Sidney, Melbourne o Adelaide dopo le 18:00 poteva essere un’esperienza desolante: da quell’ora tutti i bar erano chiusi ex lege, il sole era ancora alto ma le strade deserte e silenziose.

I Movimenti per la Temperanza erano gruppi politico/religiosi cristiani integralisti, puritani e moralisti che propagandavano l’astinenza dall’alcol come soluzione ai problemi di salute, sociali e ad un presunto degrado morale del Paese. Non si limitavano però a non bere: volevano imporre a tutti l’astinenza facendo pressione perché si adottassero leggi proibizioniste. Esistevano in diversi paesi, dal Regno Unito agli USA (dove divennero un partito politico) alla Svizzera (la cosiddetta “Croce Blu”) e anche in Australia e Nuova Zelanda. Qui esistevano dal XIX secolo, ma furono quasi inascoltati fino a quando l’inizio della prima guerra mondiale (1914) e la conseguente “austerity” non diedero loro una chance di fare leva sul sentimento patriottico: sostenendo che il consumo di alcol danneggiava l’economia di guerra e corrompeva il fisico dei “giovani soldati”, nel 1916 riuscirono a far passare tramite referendum una legge proibizionista.

Non era però un proibizionismo totale all’americana, ma una limitazione dell’orario di apertura dei pub alle ore 18:00. Il che ebbe come conseguenza lo svuotamento totale delle strade delle città il tardo pomeriggio e la sera (foto). Come il proibizionismo americano introdotto nel 1919 ebbe conseguenze più gravi dello stesso alcol alimentando contrabbando e criminalità organizzata, anche quello australiano ebbe un effetto opposto a quello auspicato dai promotori. Il consumo di alcol, infatti, anziché diminuire aumentò in breve tempo del 40% a causa del cosiddetto binge drinking.

1941: avventori del bar del Petty’s Hotel di Sydney durante la “Six o’clock swil”.



La gente, infatti, si recava al pub alle 17:00 appena dopo il lavoro e beveva più che poteva sapendo di dover “fare il pieno” anche per la sera. Questo fenomeno diventò noto come “the Six o’ clock swill”, la “sbobba della sei” (la sbobba è una brodaglia dall’aspetto disgustoso) perché in quell’ora d’oro i pub diventavano simili a «trogoli per i maiali». Racconta Caddie Edmonds, scrittrice e barista di Sidney, nella propria autobiografia Caddie, A Sydney Barmaid (1953):

Fu uno spettacolo rivoltante e impiegai molto tempo ad abituarmi. L’odore di liquore, l’odore del corpo umano, l’odore caldo del vino; un uomo, piuttosto che rinunciare al suo posto al bancone, urinava contro il bar…

Copertina della Prima edizione di Caddie, a Sydney barmaid (1953) di Caddie Edmonds.



Infine, all’orario di chiusura gli avventori si riversavano in strada barcollando come zombie o si accasciavano sui marciapiedi sotto il sole pomeridiano. Mentre il proibizionismo americano terminò nel ’33, quello australiano-neozelandese durò quasi 50 anni. Il supporto dell’opinione pubblica ai puritani però, andava dissolvendosi: già nel 1937 la Tasmania prolungò l’orario alle 22:00 e ne avvertì immediatamente i benefici. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947, il nuovo Galles del Sud rimosse l’obbligo di chiusura, nel 1961 si concesse ai ristoranti (ma non ai bar) di servire liquori fino a mezzanotte, ma si dovette arrivare al 1966-67 perché gli altri stati australiani e la Nuova Zelanda abbandonassero definitivamente il proibizionismo. Ma alla fine, ciò che fu evidente anche in America, fu che la legge che pretendeva di combattere il degrado non aveva fatto altro che crearlo.

L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Quanti sono i colori LEGO? Come ogni set ed ogni singolo mattoncino, inclusi quelli “speciali”, ogni colore disponibile è identificato da un codice identificativo univoco. Stiamo parlando naturalmente dei moulding colors (colori di stampaggio), i colori propri dei mattoncini ottenuti colorando la plastica con cui il mattoncino viene formato; al netto quindi degli eventuali pattern, ossia le serigrafie applicate su molti pezzi speciali (i cosiddetti decorated), o degli sticker, ossia gli adesivi, per i quali non esiste virtualmente un limite alla varietà di colori.


mattoncino lego 2x1 con stampa "spazio"

Differenza tra moulding color e pattern, su un classico mattoncino Lego 2×1 (3004): in questo caso abbiamo il colore di stampaggio (moulding color) che è il blu, mentre la serigrafia riproduce il classico logo della serie “spazio”. Questo mattoncino, codice 3004p90, fu prodotto dal 1979 al 1987 ed utilizzato in 20 set.



 

Lego palette 2016

La palette ufficiale Lego rilasciata nel 2016 riporta solo 43 colori solid e 14 trasparenti.

Tra gli appassionati, detti AFOL (Adult Fans Of Lego), ci sono alcuni collezionisti specializzati che perseguono la difficile missione di possedere almeno un pezzo rappresentativo per ogni colore e completare così la tavolozza. Ma la storia dei colori lego è una jungla nella quale non è facile districarsi. La palette ufficiale rilasciata dall’azienda ammonta a 57 colori, dei quali 14 trasparenti e 4 speciali (oro, argento, titanio metallizzato e bianco luminescente), ma è ampiamente incompleta dato che si stima siano stati prodotti almeno un centinaio di colori solid e una trentina di trasparenti, oltre ai numerosi colori speciali. A partire degli anni duemila ne furono introdotti molti nuovi: tra i colori più recenti abbiamo il verde sabbia 151, introdotto nel 2000 per la Statua della Libertà (set 3450), il verde oliva 330, introdotto nel 2011 con la serie “Cars” (dal film Disney) e utilizzato poi nelle serie “Dino” e “Movie 2” a partire dal 2012; infine il “vibrant coral” (353) del 2019, comparso la prima volta con il “party bus” della serie “Movie 2”.[1]

statue of liberty 3450

Con la “Statua della Libertà” del 2000 (set 3450) fu introdotto un colore ad hoc: il verde sabbia 151.

pezzi Lego "vibrant coral"

Il “vibrant coral” 353 comparso per la prima volta nel “party bus pop-up” (set 70828) della serie “Movie 2”, 2019.



Poi ci sono i mattoncini Modulex, una serie degli anni ’70 ottimizzata per il modellismo architettonico che gode di una cartella colori a sé stante. Le tinte moulding inoltre sono cambiate nel tempo: alcuni colori furono abbandonati, sostituiti, o modificati. Ad esempio i classici grigi medio (nº 2) e scuro (nº 27), rispettivamente del ’54 e del ’61, furono sostituiti nel 2003 rispettivamente dal “medium stone grey” 194 e dal “dark stone gray” 199, molto simili ma virati verso il blu: questi nuovi grigi leggermente bluastri sono chiamati dai collezionisti “bley“, fusione di blue e gray. Anche il giallo originale nº 3 fu gradualmente abbandonato e sostituito dal “cool yellow” nº 226 a partire dal 2003. Ad aumentare la confusione, alcuni colori sono cambiati mantenendo però il codice e la denominazione: il “new dark red” 154 fu modificato intorno al 2011 e anche il rosso trasparente nº 41 a un certo punto è stato leggermente schiarito, così come l’arancione trasparente nº 182 presenta una grande variabilità. Dulcis in fundo, non sembra facile nemmeno identificarli univocamente: alcuni siti specializzati (ad esempio Bricklink) utilizzano codici e denominazioni differenti da quelle ufficiali[2] e inoltre, come osserva il prof. C. Bartneck dell’Università di Canterbury (Nuova Zelanda),[3] non esiste una corrispondenza univoca con i sistemi RGB, CYMK o Pantone: le stesse palette ufficiali rilasciate nel 2010 e nel 2016 mostrano tonalità leggermente diverse per lo stesso colore. Ad esempio, il “brick yellow” nº 5 è rappresentato nel 2010 con il colore RGB (217, 187, 123) mentre lo stesso è riprodotto nel 2016 come RGB (221, 196, 142),[3] siti indipendenti riportano codici ancora differenti. Ma, in tutto questo, l’azienda sembra non essere mai venuta in aiuto degli appassionati nel fare chiarezza sulla questione cromatica.

Trasparenti e speciali

La gamma dei colori include una serie di colori trasparenti, piuttosto comuni, che accompagnano i solid sin dagli albori e che venivano utilizzati per riprodurre parti vetrate e le luci dei veicoli. Esistono poi i colori speciali, in gran parte introdotti a partire dagli anni duemila e creati per le esigenze specifiche di alcuni set: abbiamo colori metallici, perlacei, fluorescenti (aka glow-in-the-dark), i “lattiginosi” (milky), trasparenti-glitterati e i cosiddetti speckle (lett. “macchiolina”) ossia composti da due colori, uno dei quali è diffuso in piccoli puntini all’interno dell’altro con un effetto “granito”. Ci sono poi pezzi composti da parti di colore diverso inscindibili tra loro: sono i “multicombination” e sembra esistere un codice anche per loro, il nº 30. Caso particolare sono i cosiddetti marbled, ossia “marmorizzati”. Non si tratta di un colore codificato, ma mattoncini (talvolta di test) fatti nei primi anni ’50 con gli avanzi dei pellet di plastica di altri stampaggi: i colori così mischiati formavano sfumature e strisce del tutto casuali, cosicché ogni mattoncino così ottenuto era unico.[4] Questi venivano venduti sfusi nei rivenditori in Danimarca come “seconda scelta”, ma oggi – che questa pratica è stata abbandonata ormai da tempo – sono ricercatissimi dai collezionisti e possono raggiungere quotazioni molto alte.[5]

30293 speckle black silver

Un esempio di “speckle”: il “cool silver” (nero-argento) 304 su un mattoncino 30293.

marbled

Mattoncini “marbled” (anni ’50-’70).



trasparente

Trasparente neutro 40

warm gold 297

“Oro caldo” 297, aka “oro perlaceo”.

glitter transparent pink

“Rosa trasparente-glitter” 114.



 

I più longevi

Alcuni colori, comunque, sono rimasti in produzione da quando furono commercializzati i primi set Lego negli anni ’50 e sono fondamentalmente i colori “base”: il bianco (nº 1), il rosso brillante (nº 21), il blu brillante (nº 23), il giallo brillante (nº 24), il verde scuro (nº 28) e il “trasparente” neutro (nº 40), mentre il già citato rosso trasparente (nº 41) — anch’esso in catalogo dagli anni ’50 — come abbiamo visto sembra essere leggermente cambiato. Stranamente il nero (nº 11), anch’esso immutato, è stato introdotto più recentemente, nel 1960. Il grigio originario (nº 2) fu introdotto nel 1954 ma abbandonato nel 2003 con l’arrivo del nuovo bley, il “medium stone gray” 194.

mattoncino 2x2 3003 vari colori

I più longevi colori ancora in uso: bianco 1, rosso 21, blu 23, giallo 24, verde scuro 28, trasparente 40, nero 11.

I più diffusi sono i “grigi”

Non tutti i colori sono stati prodotti nella stessa quantità: alcuni ovviamente sono molto più frequenti. Secondo Brick Architect,[6] prendendo in considerazione una scatola per ognuno dei set in vendita nel 2019, i colori prevalenti sono nella scala dei grigi: il 17% sono neri, il 16% sono grigio medio (194), il  il 12% sono grigio scuro (199) e il 10% sono bianchi. Il restante 45%, meno quindi della metà, è costituito dai mattoncini colorati, con una prevalenza dei colori “base” come il il rosso, il blu, il marrone, il giallo, e tutti i restanti colori più o meno rari. A questa nettissima predominanza dei grigi rispetto agli altri colori contribuiscono sicuramente le serie “Star Wars” e “Technic“, dove il grigio e nero costituiscono un’ampia parte dei mattoncini contenuti nei set.
distribuzione colori nei mattoncini Lego

Distribuzione dei colori dei mattoncini nei set Lego nel 2019 (fonte: Brick Architect).



Ma esiste anche un set totalmente monocromatico, come i vecchi film: si tratta infatti del battello a ruota “Steamboat Willie” (set 21317), dedicato allo storico cortometraggio d’animazione Disney del 1928 che vede Mickey Mouse alla guida di un battello a vapore. Una volta assemblato, all’esterno restano visibili solo pezzi bianchi, neri e grigio scuro (199) dando l’impressione di una vecchia pellicola in bianco e nero, mentre quelli colorati (comunque presenti) sono relegati alle parti strutturali e meccaniche all’interno.

Lego Star Destroyer 75055

La serie “Star Wars” ha certamente contribuito alla predominanza dei grigi (foto: set 75055).

Lego "Steamboat Willie" (set 21317)

Lo “Steamboat Willie” (set 21317) del 2019 è il primo set monocromatico.



I più rari


I colori più rari sono quelli prodotti specificamente per una particolare serie (aka “tema”) o un set, e solitamente si tratta di colori cosiddetti “speciali” come i glitterati e gli speckled, ma non sempre. Tra questi abbiamo ad esempio il rosso chiaro 100 e il rosso medio 101, che si trovano solo nella vecchia serie “Scala”; il “pastel blue” 11 utilizzato quasi esclusivamente nei set Maersk, il “transparent reddish lilac” 284 o il “transparent bright yellowish green” 227, utilizzati solo nella serie “Clickits“, incentrata sulla produzione di braccialetti e monili per ragazzine: il primo abbastanza diffuso, il secondo si trova solo in 5 pezzi. Il “black IR” 109 (nero infrarosso) è utilizzato solo per i trasparenti di copertura del LED infrarosso dei telecomandi.
elmo di Atlantis

L’elmo dell’imperatore di Atlantis (89918) è uno degli unici due pezzi prodotti nel colore “speckle black-gold”: l’altro è l’armatura.



Ma fanno di meglio lo “speckle black-gold” (oro puntinato di nero, codice Lego sconosciuto) utilizzato solo per l’elmo e armatura dell’imperatore di Atlantis (2 pezzi) e il “ruggine” (rust) 216, anche’esso solo in due pezzi: il “rastrello del contadino” della serie Scala (33173) e il braccio di sollevamento (2651) della motovedetta della guardia costiera (set 6353). Alcuni colori, poi, addirittura esistono in un solo pezzo dello sterminato catalogo Lego, ad esempio:

Lego Fabuland Peter Panda

  • La tinozza (4424) di Peter Panda della serie Fabuland (1983), cui il simpatico plantigrado è molto affezionato, ha un colore tutto per sé: il “Fabuland orange” 19.


gatto Lego Scala

  • il gatto della serie “Scala” del 2000, chiamato 6251px2 (nome insolito per un felino), è l’unico pezzo Lego nel colore “very light orange” 36.


Cristallo 52 "chrome green"

 

  • nel colore “chrome green” (codice Lego sconosciuto) risulta solo questo “cristallo di roccia” nº52, comune a molti set a partire dal 2006. Non va confusa però la rarità del colore con quella del pezzo: pur avendo un colore considerato “raro”, alcuni pezzi possono essere presenti in svariati set, come dimostrano gli ultimi due esempi di questa lista.




Ma ci sono colori ancora più rari: quelli non utilizzati in nessun pezzo, nemmeno uno. Com’è possibile? Talvolta trapela documentazione tecnica da cui si evince l’esistenza in catalogo di colori, i quali però non risultano utilizzati in alcun pezzo conosciuto. Forse vecchi colori dimenticati, utilizzati solo per prototipi e mai entrati in produzione; forse progetti accantonati. Questi sono ad esempio il “cobalt blue” 8, il “flame reddish orange” 193, il “dark curry” 209. Li vedremo un giorno in qualche nuovo set? Chissà. Nel frattempo, se volete addentrarvi nel magico e cervellotico mondo dei colori Lego, sull’argomento il già citato prof. Bartneck ha pubblicato un libro: The Unofficial LEGO Color Guide.

The unofficial Lego color guide




Note

  1. [1]New part out – Set # 70828 ‘Pop-Up party bus’” in Briks-4-Kicks. Web.
  2. [2]Esistono diverse numerazioni utilizzate da siti indipendenti, ad esempio Bricklink. In questo articolo si fa riferimento esclusivamente agli ID ufficiali Lego.
  3. [3]Bartneck, Christopher (PhD) “The curious case of LEGO colors” in bartneck.de Web.
  4. [4]Secondo Howerter (op. cit.), questi mattoncini sono anch’essi classificati come “multicombination” nº 30.
  5. [5]Marbled Lego brick and other parts” in Brickset Forum. Sett. 2014. Web.
  6. [6]Alphin, Tom “Understanding Lego: Bricks“,

Fonti

 

L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Secondo gli appassionati, la minifigure Lego più sexy (e più nuda) di sempre è quella raffigurante la principessa Leia Organa nel cosiddetto “slave outifit”, ossia il succinto costume metallico disegnato dalla costumista Aggie Rodgers, che nella trama del film le viene imposto dal gangster Jabba The Hutt durante la prigionia su Tatooine. Ne Il ritorno dello Jedi (1983), terzo film della trilogia originale, la principessa era stata catturata da Jabba mentre tentava di recuperare, insieme a Chewbecca e Luke Skywalker ed altri, il corpo di Han Solo ibernato nella carbonite negli eventi del film precedente (L’Impero colpisce ancora, 1980) e conservato dal criminale Hutt nella sua sala del trono. Catturata, Leia (Carrie Fisher) viene quindi incatenata ai piedi del trono di Jabba, costretta ad indossare la provocante mise. Ma alla prima occasione si ribella, e strangola Jabba con la stessa catena con la quale era stata legata. Questa la storia del film.

Leia Organa slave outfit

La principessa Leia Organa (Carrie Fisher) nel costume noto come “slave outfit”.

2003

Lego 4480 Jabba's Palace

Il “Palazzo di Jabba”, set 4480

Veniamo alla minifigure: nel 1999, in concomitanza con l’uscita nell’uscita nelle sale dell’Episodio I della nuova “trilogia prequel“, il gruppo LEGO strinse un accordo con la Lucasfilm per la produzione di una serie a tema Guerre Stellari, che rappresentò la prima partnership dell’azienda danese con altri franchise. Negli anni successivi produzione dei set di Star Wars avrebbe coperto retroattivamente l’intera trilogia originale, tra cui anche  — appunto — il film Il ritorno dello Jedi, che era stato ridistribuito nel 1997 come Episodio VI. Nel 2003 uscì il set del “Palazzo di Jabba” (nº 4480) che includeva Leia nell’outfit da “schiava”, con tanto di “collare” (rimovibile) e catena.


Leia “schiava” versione 2003 (sw0070), aka “yellow flesh” (YF)

Non solo quella di Leia “slave” fu la prima minifigure in bikini, ma con la schiena completamente nuda, l’ombelico in vista e uno slip minimale resta forse la più succinta mai prodotta ufficialmente. Inoltre — novità assoluta — vede rappresentati caratteri sessuali che vanno al di là dei classici tratti del viso e della pettinatura: la forma dei fianchi e quella del seno sono infatti esplicitamente disegnate. Nemmeno la serie “Paradisa” del 1993, ambientata in uno stucchevole villaggio balneare dai colori pastello (che pure conteneva svariate figure femminili in costume da bagno), aveva personaggi in “due pezzi” e non si sarebbe visto un altro bikini fino al 2011, con le Minifigures da collezione (la “hula dancer” con gonnellino rimovibile, contenuta nella serie 8830). E poi è Leia Organa, sogno erotico di ragazzini degli anni ’80 che ora sono adulti nerd collezionisti. Oggi nota presso i collezionisti come la versione “YF”, che sta per yellow flesh, questa del 2003 (codice sw0070) aveva però ancora la “pelle” della iconica tonalità gialla che caratterizza le minifigure sin dal 1978, colore volutamente neutro per non rappresentare nessuna etnicità particolare, lasciando questa scelta alla fantasia del bambino. Questo dettaglio sarebbe stato corretto con la versione successiva.

2006

leia slave light flesh

Leia “schiava” versione 2006 (sw0085), aka “light flesh”

Di Leia “slave” ne esistono infatti tre versioni. La seconda, la sw0085, arrivò nel 2006 con l’uscita di un nuovo set, la nave volante di Jabba (set nº 6210), quella con cui il lumacone-gangster stava per buttare Luke Skywalker nella bocca del terribile sarlacc. Questo nuovo set contiene ancora Leila prigioniera, sostanzialmente identica alla prima ma con la “pelle”, anziché gialla, di un più realistico incarnato (colore nº 283 “light flesh”) che sicuramente le dona. Nel frattempo, a partire dalla serie Basketball del 2003, l’azienda danese aveva iniziato a produrre minifigure di colore diverso dal giallo: questo perché — spiega — «con l’arrivo di prodotti sotto licenza come LEGO® Star Wars™ e LEGO® Harry Potter™ i  personaggi hanno cominciato ad avere un ruolo ben definito» e potevano quindi essere caratterizzati ricevendo un colore della pelle realistico. L’acconciatura però non è ancora molto accurata: anziché svilupparne una ad hoc, infatti, fu utilizzata la coda di cavallo x104 già presente in numerosi set sin 1992, una coda liscia, piuttosto corta e nel colore reddish brown (88). Ma Carrie Fischer nel film porta una treccia nera, non rossiccia, e con un fermacoda dorato. Di questa Leia “light flesh” nel 2007 fu realizzata anche la versione portachiavi (851938) e nel 2009 quella magnete-da-frigo, inclusa nel set di magneti 852552 insieme a Boba Fett e a una guardia reale.
Leia slave back

Vista da dietro, Leia schiava è praticamente nuda.



2013

Leia "redesigned" 2013

Leia “schiava” 2013 (sw0485), aka “redesigned”

Ma Leia sarebbe tornata, ancora più accurata e attraente. Nel 2013 uscì infatti il nuovo set 50207, una riedizione della nave volante di Jabba contenente una nuova versione di Leia “schiava”, la sw0485 che i collezionisti chiamano “redesigned”. Nonostante la situazione, Leia sfoggia un sorriso più convinto rispetto alle edizioni precedenti, nella quali sembra invece atterrita. A dire la verità le espressioni sono due, perché girando il mattoncino-testa di 180° può mostrare anche la faccia incazzata, forse più consona tanto a una principessa tenuta in catene quanto a una guerriera che sta per strangolare il suo carceriere. La grafica ridisegnata presenta anche fianchi più sinuosi e i legacci del costume sulla schiena, che nelle versioni precedenti appariva invece total nude. Finalmente, è fornita di una nuova acconciatura specifica (codice 13198pb01) che riproduce esattamente quella di Carrie Fisher nel film: capelli neri, una lunga treccia e gli ornamenti metallici color oro.

Leia slave "redesigned"

La nuova acconciatura della versione “redesigned” è più fedele al film; la schiena presenta questa volta i legacci del costume, assenti sulle precedenti.


leia slave torso

Confronto tra il décolleté della versione 2006 (a sinistra) e della versione “redesigned” (a destra): la mastoplastica riduttiva è evidente.

Ma la nuova “minifig” sembra aver subito anche una importante riduzione del seno: il décolleté così generosamente disegnato sulle versioni precedenti è eufemisticamente sostituito dal piccolo segno a “v” dell’articolazione sterno-clavicolare; anche la parte superiore del costume è ridisegnata in modo da non lasciare intendere alcuna rotondità.

Leia in catene in una scena di "Il Ritorno dello Jedi" (1983)

Leia in catene in una scena di Il Ritorno dello Jedi (1983).

Come sarà la prossima? Forse non vedremo mai una quarta versione: dal 2012 il marchio Star Wars è di proprietà Disney che da sempre si rivolge ad un pubblico di famiglie. Si diffondono così voci che Disney voglia rimuovere da tutto il merchandising (Lego compreso) l’outfit di Leila schiava, perché considerato troppo sexy e quindi non in linea con l’immagine dell’azienda.
Ma forse il motivo non è così banale: se così fosse, infatti, andrebbero forse riviste anche Jasmine di Alladin e Ariel, la Sirenetta. Il fatto è che il tema di fondo dell’avventura su Tatooine è la storia d’amore di Han e Leia: prima che lui venga ibernato, ne L’impero colpisce ancora (1980) lei le confessa i suoi sentimenti. È per salvare il suo uomo che Leia viene catturata ed incatenata, che da eroina ribelle è costretta a diventare un giocattolo sessuale. Cosa si è disposti a fare, per amore? Anche essere imprigionata e rischiare la vita. Anche ribellarsi e sconfiggere il mostro. Tutto bellissimo, ma oggettivamente Star Wars ha un approccio un po’ maldestro e sessita a questo tema, che viene ridotto — scrive N. Berlatsky su The Guardian[1] — a «una cacofonia di feticci»: la sequenza di Jabba è una fantasia da harem orientale, un sogno pruriginoso di esotismo e catene, di sottomissione e oggettizzazione della donna. Tutto questo gettato in mezzo ad una storia molto apprezzata dai bambini. Carrie Fisher stessa dirà alla giovane Daisy Ridley, che si accingeva a diventare la nuova eroina femminile ne Il risveglio della Forza (2015): «Non essere schiava come lo sono stata io. Continuerai a combattere contro quel costume da schiava.» È probabilmente questo, e non un semplice abito troppo succinto, il motivo per cui la Disney ha deciso di tirarsi indietro sul tema di Leia “schiava”.

  1. [1]Berlatsky, Noah “The ‘slave Leia’ controversy is about more than objectificationThe Guardian, 5 Nov. 2015. Web.
L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

"Castello di Praga" di Philipp van der Bossche, 1606.

“Castello di Praga”, incisione di Philipp van der Bossche, 1606.

Nel 1583 Rodolfo II d’Asburgo trasferì la corte da Vienna a Praga, inaugurando l’età “rodolfina”: l’imperatore si rinchiuse nel castello sulla collina di Hradčany e si dedicò al collezionismo e alle arti, circondandosi di scienziati e filosofi come Keplero e Giordano Bruno, ma anche alle scienze occulte, attirando alchimisti e ciarlatani da tutta Europa, Italia compresa. All’epoca gli italiani a Praga non erano esattamente “brava gente”: quando andava bene erano truffatori di ogni fatta, ma spesso erano banditi pronti anche a uccidere su commissione. Tanto che le pistole, in lingua ceca (nel gergo della mala praghese dell’epoca), erano dette bambitky, dall’italiano “banditi”.  In Praga Magica (cap. 47), Ripellino racconta che uno in particolare di questi furfanti italiani divenne famoso, tanto che non è chiaro quanto delle sue gesta appartengano alla realtà o alla leggenda: l’astrologo Geronimo Scotta (o Scota), cagliostresco imbroglione, «protòtipo dei lestofanti italiani» approdati a Praga.
Rodolfo II del Sacro Romano Impero, ritratto del 1594 di Jospeh Heintz il Vecchio.

Rodolfo II del Sacro Romano Impero in un ritratto del 1594.



Astrolog, edizione del 1925

Astrolog, un’edizione del 1925.

Lo scrittore boemo Mikuláš Dačický (1555 — 1626) lo descrive come «un certo italiano abitante a Praga, [che] abbindolando e ingannando la gente, con stregonesca arte diabolica eseguiva le sue gherminèlle.» Fu tanto leggendario da diventare addirittura personaggio della letteratura boema ottocentesca: Ripellino cita ad esempio il gotico Pekla zplozenci (Progenie d’Inferno, 1862) di Josef Jiří Kolár, nel quale Scotta è negromante e cerusico, o Astrolog (1890–91) di Josef Svátek, nel quale è un truffaldino alchimista di corte entrato nelle grazie di Rodolfo II. Anche Svátek non esita a esprimere il suo disprezzo per lo stereotipo dell’italiano perfido e imbroglione, per la «diavolesca furbizia italiana», definendo Scotta «italiano malfído», «briccone italiano», «italiano fatuo», «avventuriere italiano» e così via.


A Scotta sono attribuiti ogni genere di imbrogli, tra i quali una curiosa truffa che, purtroppo per lui, non finì come pianificato. Si racconta infatti che Scotta, astrologo di corte, si accordò con un altro italiano (e chi se no?) per truffare nientemeno che l’imperatore Rodolfo II. Il suo complice era il mantovano Jacopo Strada, noto a Praga come Jakub de Strada, architetto ufficiale di corte ma anche antiquario: questi avrebbe fornito un sarcofago con una mummia di un presunto faraone egizio, che Scotta seppellì nei boschi di Brandýs sull’Elba. Il “piano” era chiamare Rodolfo II e disseppellirla dinnanzi a lui, per convincerlo che in Boemia fosse esistita una colonia egizia con tanto di necropoli. Il ciarlatano avrebbe potuto così rifilare all’imperatore, avido collezionista, reperti egitto-boemi di dubbia provenienza per le proprie Wunderkammer.

Quando però la mummia fu disseppellita sotto gli occhi stupiti del sovrano, dal sarcofago cadde fuori la bolla di spedizione. Dal documento si evinceva tra l’altro che il reperto era già stato venduto alle raccolte imperiali, dalle quali era stato evidentemente distolto. Rodolfo II, non certo noto per il suo senso dell’umorismo, si incazzò come un’alce e fece arrestare Scotta, che venne rinchiuso per tre anni nella prigione della Nuova Torre Bianca. Una volta scarcerato, si mise a fare l’unguentario spacciando lenitivi per gli acciacchi in una baracca di legno nella piazza del Malá Strana, la “Città Vecchia” di Praga.

La Città Vecchia, da <em>Brockhaus and Efron Jewish Encyclopedia</em> (1906—1913).

La Città Vecchia, da Brockhaus and Efron Jewish Encyclopedia (1906—1913).

L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Il dialetto lombardo occidentale, quello della celebre cadrega assurta agli onori del lessico politico e giornalistico, ha due pittoresche espressioni che non trovano corrispondenza in italiano e che si riferiscono ai colori indefiniti. Non stiamo parlando di tonalità che necessitano ulteriore specificazione rispetto al colore di base più vicino, come “verde malva” o “grigio cenere”, ma proprio di nomi “trasversali” per colori imprecisati, anche molto diversi da loro ma accomunati dall’essere brutti, sgradevoli o insignificanti. Ma se per un generico colore “brutto” basterebbe un solo aggettivo, il dialetto lombardo si conferma molto preciso nel descrivere le umane disgrazie, facendo distinzione tra un colore sì indefinito, ma più sul viola – il color trasüdeciuck – da uno altrettanto vago ma più sui toni più neutri del grigio, del beige o del marroncino – il color baldàsi “aka” cancascàpa. E con diversa sfumatura di bruttezza: mentre il primo è solitamente un colore vistoso e sguaiato, il secondo è preferito per descrivere tinte più insulse e banali. Nelle sfumature intermedie tra i due estremi di questa infame scala cromatica, sta alla fantasia del parlante collocare come meglio crede il colore che si vuole descrivere.

scala baldasi-trasudeciuk

Trasüdeciùc

Il trasüdeciùc (o trasüd’ciùc o trasüdeciòc a seconda delle varianti locali) è il nome comune di una gamma indefinita di colori che ha il centro della propria gaussiana, se così possiamo dire, nei toni del color viola o “vinaccia”: deriva infatti dalla contrazione di trasü de ciùck, locuzione che nel dialetto lombardo significa letteralmente “rigurgito di ubriaco”. Il trasüdeciùck può essere quindi preferibilmente un colore violaceo non particolarmente gradevole, ma anche qualunque altro colore caratterizzato dall’essere indefinibile, o ancora un accostamento improbabile, una cacocromìa (dal greco κακός, “cattivo”, non da “cacare” che pure potrebbe sembrare appropriato), un rivoltante guazzabuglio di colori come può esserlo appunto l’emesi dell’avvinazzato che ha ingurgitato troppo barbera e lo ripropone parzialmente digerito, magari insieme al resto della cena. Se state dicendo ad una persona che il suo maglione è color trasüdeciùc, va da sè che non le state facendo un complimento.


Baldàsi e cancascàpa

Fiat Ritmo beige

Un tipico colore baldàsi: la Fiat Ritmo “beige daino” (cod. 553) dei primi anni ’80. Nelle intenzioni del centro stile doveva essere un colore elegante, che ricordava «i cappotti buoni della domenica».[1]

Il baldàsi sembra essere un termine più segnatamente pavese e differisce dal trasüdeciùc in quanto indica un colore più anonimo e insipido, che di per sé sgradevole. E proprio per questo, pur essendo anch’esso indefinito ed applicabile ad una gran varietà di colori, è più adatto a descrivere toni neutri come il marroncino, il grigio, il beige, il tortora e simili. Il termine deriva anch’esso da una contrazione, questa volta della locuzione bal d’āsi, che significa “palle (nel senso di testicoli) d’asino”. L’origine di tale accostamento è evidente: i testicoli, penzolanti e sballottati con i movimenti del corpo, nel linguaggio popolare sono divenuti metafora di persona inetta o sciocca (accostamento che si ravvede anche nel termine “coglione”); allo stesso modo il colore baldàsi è un colore “sciocco”, insignificante. Ancor di più se detti ammennicoli appartengono all’asino, considerato animale stupido per eccellenza nell’immaginario collettivo. Sebbene raro, viene talvolta italianizzato in baldasio, che resta però un localismo strettamente pavese. Classici colori definiti “baldasio” furono quelle tinte pastello, tra il beige opaco ed il marroncino “zuppa di fagioli”, offerte su alcune utilitarie negli anni ’70 / ’80, come la A112 o le Fiat 127 e Ritmo.

Nel pavese e lodigiano il baldàsi è detto anche cancascàpa, letteralmente “cane che scappa”. L’espressione dà contezza della sua indefinibilità: un cane che scappa può essere di qualunque colore e tampoco importa quale, dato che scomparirà velocemente alla vista. Ma forse l’etimologia è analoga a quella di baldàsi. Nella pragmatica civiltà contadina il cane era una necessità più che un vezzo; la sua funzione non era tanto di compagnia quanto di fare guardia, aiutare i pastori transumanti a tenere il gregge o i cacciatori a recuperare la preda. Ne consegue quindi che un cane pavido, che si dà alla fuga, viene meno alla sua funzione ed è quindi di scarsa utilità: è insignificante, privo di valore. Fuggendo mostra inoltre le terga, quindi le “balle”: come nel baldàsi, il riferimento pare essere quindi alle gonadi di un animale stupido, il cui colore – esibito durante una fuga ignominiosa –  non può essere che privo di senso.

D’altronde – senza addentrarci nel concetto di relatività linguisitica – se è vero che la lingua riflette l’esperienza, il dialetto lombardo rispecchia una quotidianità rurale più vicina ad asini ed osterie, che ai nomi evocativi dei colori à la mode.

  1. I super colori” in Fiat Ritmo Super. Web.
L'autore
Silvio DellʼAcqua

Silvio DellʼAcqua

Facebook

Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.