L’Ottocento fu caratterizzato da una rivoluzione del modo di viaggiare e dalla passione per l’avventura. I progressi tecnologici portarono ad un miglioramento dei mezzi di trasporto (la ferrovia, il piroscafo), di comunicazione (il telegrafo) e di informazione (nascono i quotidiani). L’impero coloniale britannico raggiunse la sua massima estensione, portando queste innovazioni anche negli angoli più remoti del globo. Sebbene lungi da essere ancora un fenomeno di massa, viaggiare diventò più facile, veloce e sicuro: per alcuni una passione o una opportunità. Tra questi l’imprenditore ferroviario britannico Frederick Stibbert (1838 – 1906), appassionato d’arte e di militaria che, grazie ai propri viaggi e ad una fitta rete di contatti, riuscì ad accumulare una vastissima collezione di armi ed armature, opere d’arte, arredi e oggetti di artigianato provenienti da tutto il mondo e che documentano gli usi e costumi delle popolazioni dell’Europa, dell’Africa, del medioriente e dell’Asia fino alle più remote terre orientali (il museo detiene la più vasta collezione di armature giapponesi fuori dal paese). Come Salgari non visitò mai molti dei paesi di provenienza degli oggetti da lui acquistati, ma riuscì a documentarsi attraverso le pubblicazioni dell’epoca dando forma ad una collezione eclettica ma ragionata.
Nel 1849 si trasferì nella propria città natale, Firenze (era figlio di madre toscana e di un ufficiale britannico): qui creò il proprio personale museo nella villa di famiglia, che alla sua morte fu donata alla città con il parco e tutte le collezioni, per diventare l’attuale Museo Stibbert. Dal 6 maggio al 16 ottobre 2016, il museo ospita una mostra intitolata “Una Wunderkammer ottocentesca. Itinerario tra le rarità collezionistiche di Frederick Stibbert” nella quale sono esposte inedite opere d’arte e d’artigianato collezionate da Stibbert ricalcando la moda per le raccolte enciclopediche seicentesche allestite soprattutto in Germania, paese da lui frequentato assiduamente per studiare le collezioni dinastiche tedesche. Wunderkammer, in tedesco, significa appunto “camera delle meraviglie” o “gabinetto delle curiosità”: il termine si riferisce a quelle stanze dove i grandi (e facoltosi) collezionisti privati raccoglievano, a partire dal cinquecento, vaste collezioni oggetti straordinari provenienti dal mondo della natura o creati dalle mani dell’uomo. A metà tra una “Wunderkammer” e un romanzo d’avventura ottocentesco, gli oggetti esposti, rari e curiosi, raccontano un viaggio fantastico attraverso la storia e la cultura di mondi lontani.
Alcuni degli oggetti in mostra:
- Volatile in lamina metallica e vetri colorati, Birmania.
- Vassily Gazemberger, statuette di tiratore del reggimento Stepan Ianov, 1860.
- Toreri spagnoli: gruppo di statuette, XIX secolo.
- Dipinto su rame in cornice in bronzo dorato e pietre dure.
- Vasi in vetro traslucido, XIX secolo.
- Velieri, souvenir di viaggio.
- Vetrina Japonisme
- Manifattura giapponese, gru in bronzo (1880-1885).
- Elefante con planachino in cartapesta laccata, India.
Immagini: © Museo Stibbert.
Segale (Pixabay).
Oggi sembra che vada di moda essere innocentisti o colpevolisti in campo agricolo. Mi spiego. C’è una vasta schiera di persone che si oppone, in modo a dir poco religioso, contro i fitofarmaci, mentre altre, sempre religiosamente, si pongono a favore del loro uso. In realtà, nessuno dei due estremi è quello corretto. Non basta dire «i fitofarmaci tout court sono nocivi», oppure «cosa vuoi che sia? La loro concentrazione è al di sotto dei limiti previsti per legge». Le cose sono più complicate di quello che si pensa e vanno contestualizzate.
Una mietitrebbiatrice (Pixabay).
Cominciamo col dire che attualmente la popolazione mondiale ammonta a 7 miliardi di persone, nel 2050 sarà di almeno 10 miliardi e per il 2100 ancora di più. La superficie terrestre in grado di supportare l’attività agricola diminuisce progressivamente in funzione del fatto che parte dei suoli arabili diviene sede per le abitazioni e le infrastrutture. Da ciò consegue che l’uso di fitofarmaci diventa necessario se si vuole produrre alimenti per una popolazione in aumento esponenziale su una superficie agricola in costante riduzione. L’agricoltura di ogni tipo (sia quella intensiva che fa uso di fitofarmaci che quella biologica che, invece, solo apparentemente non fa uso di fitofarmaci) è a forte impatto ambientale perché non solo accelera l’erosione dei suoli innescando i processi di desertificazione, ma contamina anche acqua ed aria, attraverso l’immissione di sostanze nocive (per esempio i principi attivi dei fitofarmaci stessi o i loro prodotti di degradazione) la cui attività influenza la vita non solo delle piante ma anche della micro, meso e macro fauna. A questo scopo l’unico modo di produrre alimenti per la popolazione mondiale in costante aumento è quello di far uso di pratiche agricole sostenibili, ovvero di pratiche che facciano uso oculato delle conoscenze scientifiche accumulate negli anni in merito all’attività di tutti i composti usati in agricoltura ed in merito ai meccanismi di erosione e contaminazione (non fa certamente parte del bagaglio di conoscenze scientifiche l’agricoltura biodinamica che, di fatto, non è altro che un’enorme sciocchezza. Ma questo merita altro approfondimento).
3 – Formula di struttura del glifosato o N-(fosfonometil)glicina (Commons).
Confezioni di Roundup® per giardinaggio/orticoltura sugli scaffali di un supermercato in Belgio (Depositphotos).
È in questo ambito che va inquadrato il discorso sul glifosato, principio attivo del noto fitofarmaco chiamato “Roundup” brevettato all’inizio degli anni 70 del XX secolo dalla Monsanto, azienda chimica statunitense, oggi ritenuta capziosamente come il satana industriale nemico dell’ambiente. Il glifosato è un erbicida la cui azione è quella di inibire gli enzimi coinvolti nella biosintesi degli amminoacidi fenilalanina, triptofano e tirosina (due di essi, fenilalanina e triptofano, sono essenziali per l’uomo e possono essere assunti solo attraverso la dieta) oltre che di composti quali acido folico, flavonoidi, vitamina K e vitamina E importanti metaboliti vegetali. Proprio perché i complessi enzimatici coinvolti nell’azione del glifosato sono tipici delle piante, si è sempre ritenuto che tale erbicida fosse innocuo per gli animali, in particolare l’uomo. Ed invece studi recenti sembrano dimostrare che il glifosato può essere causa dei linfomi non-Hodgkin (ovvero di una classe di tumori maligni del tessuto linfatico),[1][2] sebbene studi epidemiologici completi non siano stati ancora fatti; interferisce in vitro con la trasmissione dei segnali del sistema endocrino;[3][4] provoca danni al fegato ed ai reni dei ratti attraverso la distruzione del metabolismo mitocondriale;[5] sequestra micronutrienti metallici come zinco, cobalto e manganese (cofattori enzimatici in molte reazioni metaboliche) producendo, quindi, danni metabolici generali specialmente a carico delle funzioni renali ed epatiche.[6] Tutti gli studi citati (molti altri sono elencati in Myers et al.[7]) si basano su esperimenti condotti o in vivo o in vitro ma facendo uso di quantità molto elevate di glifosato. Ma cosa significa molto elevato? Quali sono le quantità di glifosato che possono portare problemi alla salute umana? Qui già iniziano le prime contraddizioni. La EPA Statunitense ha stabilito che la quantità di glifosato massima nell’organismo debba corrispondere a 1,75 mg per kg al giorno. Significa che un americano dalla corporatura media di 80 kg può assumere ogni giorno 140 mg di glifosato. Però se lo stesso americano venisse in Europa si ritroverebbe con un livello di glifosato nel suo organismo molto più alto di quello consentito. Infatti, la legislazione adottata dalla Comunità Europea prevede un contenuto massimo di glifosato pari a 0.3 mg per kg al giorno, ovvero l’individuo di cui sopra può assumere un massimo di 24 mg di glifosato al giorno. È anche vero, però, che attualmente la Comunità Europea sta valutando l’innalzamento del limite a 0,5 mg per kg al giorno, ma resta, comunque, una quantità molto al di sotto di quella ammessa negli Stati Uniti dove l’ammontare di glifosato usato in agricoltura è passato da 4 milioni di kg del 1987 a 84 milioni di kg nel 2007.[7] Perché ci sono differenze nei limiti di glifosato che un essere umano può assumere ogni giorno? Bisogna dire che i limiti di assunzione vengono autorizzati da enti governativi differenti (USA ed EU, nella fattispecie) che basano le loro decisioni sulla letteratura disponibile. Il problema del glifosato, però, è che la letteratura usata non è quella costituita da lavori scientifici resi pubblici dagli studiosi che si occupano di tale erbicida.[7] I riferimenti usati dagli enti governativi sono documenti forniti dalle aziende private produttrici di fitofarmaci che contengono solo risultati relativi a studi secretati (ovvero soggetti al segreto industriale). A quanto risulta, invece, la letteratura più tradizionale, quella che è pubblica, suggerisce che il limite massimo ammissibile di glifosato in un organismo umano dovrebbe essere di circa 0,03 mg per kg al giorno, ovvero ben 10 volte in meno rispetto a quanto previsto dalla Comunità Europea e circa 60 volte in meno rispetto a quanto consigliato dalla Statunitense EPA. A chi credere? Agli enti governativi o alla letteratura scientifica? La realtà è che mancano studi epidemiologici completi per poter stabilire con esattezza quali siano i limiti ammissibili per il glifosato. Anche i lavori resi pubblici dagli specialisti del settore sono, in qualche modo, incompleti e vanno presi con molta attenzione e senso critico. È per questo che sarebbe meglio applicare il principio di precauzione fino a quando la quantità di dati disponibili in letteratura non consentirà di arrivare a comprendere con precisione quali sono i reali effetti del glifosato sulla salute umana.
Applicazione di pesticida pre-semina o post-raccolto (Depositphotos).
Di certo le persone più esposte ai danni dell’erbicida sono i lavoratori del settore agricolo[8]. Solo in subordine risultano esposti i consumatori. Questo perché i controlli sulla quantità di fitofarmaci e loro residui sui prodotti alimentari sono abbastanza stringenti. In ogni caso, per prevenire la presenza di glifosato e suoi residui negli alimenti (in realtà non solo di tale erbicida, ma di tutti i possibili fitofarmaci dannosi o potenzialmente tali per la salute dell’uomo) occorre utilizzare una corretta pratica agricola. Nel caso specifico del glifosato, la corretta pratica agricola consiste nell’applicazione di tale erbicida o in fase di pre-semina o in fase di post-raccolta (ovvero nei momenti in cui il suolo viene lasciato “riposare” tra un raccolto e l’altro) e non come attualmente in voga in fase di pre-raccolta. Infatti, è noto da tempo[7] che il glifosato viene intrappolato dalla sostanza organica dei suoli[9][10] e successivamente degradato dalla fauna microbica in composti meno impattanti sulla salute umana.[11] Al contrario, nelle applicazioni in “tarda stagione” (ovvero poco prima della raccolta) non si dà il tempo al glifosato di poter essere degradato, con la conseguenza che l’erbicida (o suoi sottoprodotti tossici) possono essere individuati all’interno degli alimenti.[7]
Conclusioni
- L’uso dei fitofarmaci, e del glifosato in particolare, è reso necessario per ottimizzare la produzione agricola in un sistema, quello terrestre, che vede un sovrappopolamento con conseguente riduzione delle superfici arabili
- Non ci sono dati certi in merito alla tossicità del glifosato sulla salute umana se non nei casi particolari relativi ai lavoratori del settore agricolo che sono esposti a forti dosi dell’erbicida durante la loro attività lavorativa
- Non applicazioni pre-raccolta, ma pre-semina o post-raccolta dovrebbero essere effettuate per minimizzare la quantità di glifosato (e suoi residui) all’interno dei prodotti destinati ai consumatori finali
- Un incremento della ricerca in ambito fitofarmacologico è necessario per individuare gli effetti dei fitofarmaci, in generale, e del glifosato, in particolare, sulla salute umana. Studiare il glifosato, però, richiede laboratori attrezzati e studiosi preparati. Tutto questo ha un prezzo. Se le comunità dei consumatori vogliono avere informazioni più approfondite e dettagliate sul ruolo del glifosato sulla salute umana, è bene che investano in questo tipo di ricerca. Investimenti nella ricerca dovrebbero essere finanziati anche dalle aziende produttrici di fitofarmaci in modo chiaro e non soggetto a segreto industriale. Solo in questo modo tutti (dai consumatori alle grandi aziende agricole e non) possono trarre vantaggi dalla ricerca scientifica.
Riferimenti
- [1]Schirasi and Leon, Int. J. Environ. Res. Public Health, 2014, 11(4): 4449-4457↩
- [2]Associazione Italiana Ricerca sul Cancro: http://www.airc.it/tumori/linfoma-non-hodgkin.asp↩
- [3] Thongprakaisang et al., Food Chem. Toxicol. 2013, 59C: 129-136↩
- [4]Romano et al., Arch. Toxicol. 2012, 86(4): 663-673↩
- [5]Mesnage et al., Food Chem. Toxicol. 2015, 84: 133-153↩
- [6]Kruger et al., J. Environ. Anal. Toxicol., 2013, 3: 1000186↩
- [7]Myers et al., Environ. Health, 2016, 15: 19- 31↩
- [8]Schinasi et al., Int. J. Environ. Res. Public Health, 2014, 11(4): 4449-4527↩
- [9]Piccolo et al., J. Agric. Food Chem., 1996, 44: 2442-2446↩
- [10]Day et al., Environ. Technol., 1997, 18: 781-794↩
- [11]Shushkova et al., Microbiology, 2012, 81(1): 44–50↩
In una mappa parietale realizzata tra il 1580 ed il 1585 dal geografo domenicano Ignazio Danti di Perugia nella Galleria delle Carte Geografiche dei palazzi vaticani a Roma, è rappresentata la città di Pavia (Papia), sul fiume Ticino, con una iscrizione in un latino post–medievale che recita:
I fatti citati, però, avvennero nel 1528, non nel 1523 come sostiene la didascalia: il “Conte di San Paolo” altri non è che il Francesco di Borbone Conte di San Polo,[1] inviato dai francesi in Lombardia per intercettare un corpo di spedizione imperiale. Le forze di Francesco di Borbone trasportarono le armi (tormentis)[2] lungo il fiume e conquistarono Pavia. La città però era già stata saccheggiata nel 1527 sempre dai francesi del generale Lautrec, come rappresaglia per la sconfitta subita da Francesco I da parte della fanteria spagnola e lanzichenecca di Carlo V nella celebre battaglia di Pavia del 1525: episodio la cui fama fu tale da oscurare quella dei due saccheggi successivi.
Malidriu e Settimo
Intorno alla città sono riconoscibili alcuni insediamenti quali Zelada (Zelata), Belriguardo (Bereguardo), Vidigulfi (Vidigulfo), Zibido (Zibido al Lambro), Lardirago, S. Alessio, Dorne (Dorno), Caua (Cava) e in basso, sul fiume Po, Sommo e Pieve del Bignol (Pieve Albignola). Ci sono anche però due centri che appaiono abbastanza “misteriosi”: tali “Malidriu” e “Settimo“. Il primo è raffigurato appena a Sud di Vidigulfo: potrebbe forse essere l’attuale Mandrino, che si trova però dalla parte opposta di Vidigulfo, cioè appena a Nord. “Settimo” è raffigurato invece ad Est di Pavia ed appena a S-SO di S.Alessio; la posizione sembra coincidere con quella dell’attuale Cura Carpignano, sulla riva del fiume Olona, ma non risulta che sia mai esistito un Settimo in quel luogo. “Settimo”, invece, era l’antico nome di Bornasco, in riferimento alla distanza di sette miglia da Pavia in epoca romana, che però dovrebbe essere a nord di Lardirago, all’altezza di Certosa. Cosa rappresenta quindi Settimo in questa mappa? Probabilmente, semplicemente un’imprecisione del cartografo (o un’incomprensione tra questo e l’artista, esecutore materiale della mappa) che ha confuso l’antico nome di Bornasco con la posizione geografica di Cura Carpignano.
- [1]Non “San Paolo”: cfr. Sismondi, Storia delle repubbliche italiane de’ secoli di mezzo: 2. 1838, pag. 916.↩
- [2]Tormentis si tradurrebbe come “macchina da assedio”, più genericamente le armi.↩
- Gambi, Lucio e A. Pinelli La Galleria delle Carte geografiche in Vaticano
, 1994
- Goffart, Walter “Christian pessimism on the walls of the Vatican Galleria delle carte geografiche.” in Renaissance Quarterly, 22 Sett. 1998. Renaissance Society of America. Web. 15 Mar. 2016
Le storie sono asce di guerra da disseppelire. Wu–Ming
Questo è uno scritto ironico. Eirôn, da cui viene ironia, era uno dei tre personaggi principali della commedia greca. Stupido, apparentemente incapace e sottomesso, mediante un meccanismo dialettico di inversione, si rivelava l’intelligente e il capace. Eirôn veniva sempre affiancato da Alazṓn, personaggio che inganna presentando un’immagine ingigantita delle proprie doti e capacità, ritrovandosi regolarmente a fare la parte del tonto imbrogliato. Ripensandoci, forse, questo è uno scritto alazonico. Ci occuperemo di alcol, per tanti motivi. Innanzitutto perché, come recita un vignetta di Facebook, nessuna bella storia inizia con «stavo mangiando un’insalata quando…» E abbiamo il quando. Il chi, è semplice, siamo quelli che condividono l’idea che l’alcool sia un’avventura, sia un viaggio al termine della notte nel quale perdere tempo non è mai stato un problema. L’avventura è senza dubbio anche il movente. Ci mancano ancora una vittima e un colpevole. Visto che il colpevole è sempre il maggiordomo, ma di maggiordomi nei bar non ne ho visti mai, ci adegueremo col cameriere. Del resto ha senso, non fa altro che portare da bere ed è vestito di nero, il colpevole dev’essere senz’altro lui. La vittima? Piuttosto le vittime. Di quelle purtroppo ce ne sono sempre tante: madri che ci aspettano sveglie, fidanzate e fidanzati che ci chiamano nel cuore della notte, vicini del quartiere che cercano di dormire e altri ancora, un’intera galleria di personaggi che pagheranno la nostra sete. Specie se usciamo coi loro soldi. Di solito c’è anche un come. Come? Ma è ovvio, come il classico discorso da bar.
Iniziamo dall’inizio, dal primo bicchiere. Abbiamo bisogno di uno schema generale, di un modello in cui inserire la nostra riflessione. Lo troveremo, se tutto va come deve andare, in un pensatore tedesco della prima metà del ‘900, Walter Benjamin. Questi scrive un saggio intitolato L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, uno scritto di estetica che verrà saccheggiato da tutta la filosofia contemporanea. La tesi di fondo è la seguente: la riproducibilità tecnica delle opere d’arte genera una serie infinita di copie che con la loro stessa esistenza distruggono la possibilità di un originale. I simulacri, assomigliandosi tra loro e al primo esemplare, uccidono ciò che di metafisico si presentiva nell’originale, la cosiddetta “aura”. Questa struttura estetica ricalca l’alfabetica. Le lettere sono l’eternamente ripetibile, è impossibile ricondursi a qualcosa come una “A” originale, il primo esemplare. I caratteri mobili di Gutenberg esemplificano ulteriormente questa tesi. Il carattere che corrisponde alla “A” è una semplice astrazione di un’originale, a sua volta una copia, capace però, proprio grazie alla sua natura di simulacro, di riprodurre tecnicamente ulteriori esemplari. Ritroviamo nel bicchiere di rum la stessa struttura alfabetica. Chi, infatti, è in grado di ricordare il primo bicchiere di rum? E poi che primo? Della serata, della settimana, della vita, del mondo? Essi si assomigliano tutti, uno rimanda all’altro, il primo, parlando da una dimensione a cavallo tra l’esistenza e la non esistenza, si rifà alla serie.
Ogni bicchiere di rum è oggetto del desiderio, ma esso assume il proprio senso e il proprio valore solo all’interno di una serie di bicchieri di rum, tutti simili e tutti diversi tra di loro…
La sua condizione peculiare è infatti quella dell’esistenza non ricordata, secondo l’inflazionata formula «se non me lo ricordo non è successo», che nella storia avrà giustificato a posteriori più disgrazie che «è per un bene più grande» o «è in nome di Dio». L’originale e la serie si uniscono in un legame indissolubile: se da un lato il primo si perde nella seconda rendendola però possibile, dall’altro questa lo annichila e lo ingloba. Si instaura così un gioco complesso di significati e rimandi, sera dopo sera, di oscure corrispondenze che, come vedremo a continuazione, stimolano il desiderio nella sua dimensione più propria. Il desiderio, nella sua accezione psicoanalitica, è per definizione polimorfo e perverso. A partire da Freud, ma soprattutto con il contributo di Lacan, il desiderio si configura come una tensione inappagabile generata da una mancanza costitutiva del soggetto desiderante. Non è un mero vuoto, bensì una è forma di attività che spinge il soggetto a uscire da sé stesso, in una ricerca eternamente insoddisfabile. Il senso del desiderio è quindi quello di un’apertura primordiale. Vediamo che accade se mettiamo insieme questa struttura desiderante con la concezione dell’opera d’arte benjaminiana. Il carattere del desiderato non si definisce per sé stesso, bensì per il fatto di essere desiderato. In questo senso l’oggetto assume valore solo in tanto che simulacro di un altro oggetto desiderato, ne è copia all’interno di una serie, e solo a partire da essa assume il proprio significato. Ciò che accomuna i singoli esemplari è da un lato la sottile differenza intrinseca, che li rende simili ma distinti tra di loro, dall’altro è il fatto che su di essi versi la tensione attiva che abita la mancanza costitutiva del desiderante. Ogni bicchiere di rum è oggetto del desiderio, ma esso assume il proprio senso e il proprio valore solo all’interno di una serie di bicchieri di rum, tutti simili e tutti diversi tra di loro, simulacri di una struttura nella quale ognuno rimanda al precedente ma soprattutto al successivo.
La corrispondenza nelle due direzioni è generalmente indicata dall’espressione «ma quanti ne abbiamo bevuti?», se rivolta al passato, e «va beh ma adesso cosa beviamo?» quando si dirige al futuro. Si noti che entrambe le formule assumono l’aspetto di domande, che partecipano del carattere aperto e pertanto incompleto del domandare. Il desiderio, incapace di saziarsi, pospone la propria soddisfazione al seguente bicchiere, che a sua volta non riempirà il vuoto abissale che caratterizza il bere del bevitore, che in ogni rum vedrà la proiezione del successivo. Al posarsi di una mano sul bicchiere, l’altra, desiderante e inappagata, già si alza per attirare l’attenzione del barista con un gesto, una rotazione del dito indice tenuto in posizione orizzontale, il cui significato è universalmente noto. Il bevitore vede e desidera il bicchiere, vive nell’illusione che sarà proprio il seguente a saziargli la sete, in un meccanismo che assomiglia al famoso «la rivoluzione oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente» di Giorgio Gaber. L’attuale no, il prossimo è possibile che sazi (anche se inverosimile), ma quello dopo ancora sarà sicuramente l’ultimo. Deleuze, nella sua intervista Abecedario, alla lettera “B” si occupa giustamente di boisson, in onore al suo passato di illustre bevitore, sostenendo la seguente tesi: chi si alcolizza non è alla ricerca dell’ultimo, bensì del penultimo, e con questo integra il discorso alcolico nel pensiero del limite, del margine, del crinale.
Questo spiegherebbe l’usanza, comune in Brasile, di chiamare la saidera; parola intraducibile che verrebbe a significare più o meno “ciò con cui si esce” per indicare l’ultimo giro di bicchieri, a seguito del quale il cameriere è automaticamente incaricato di portare il conto. Risulta che, tuttavia, a partire dal primo giro, ogni ordine venga presentato al cameriere come saidera, in un meccanismo curioso di rimando della conclusione che, in termini psicoanalitici, verrebbe a rappresentare la compiuta soddisfazione del desiderio, derivata dal riempimento della mancanza. Ogni saidera è quindi, direbbe Deleuze, la penultima, proprio ciò che chi beve cerca dal principio dell’epopea alcolica (della serata? della vita? dell’universo?). La natura intrinseca del bicchiere, ossia la sua infinita riproducibilità che si presenta sotto la forma di una serie infinita, si incontra con l’essenza insoddisfabile del desiderio, spingendo chi beve alla ricerca di un penultimo che a sua volta sia saidera. Tale ricerca, se viene interrotta una sera, è instancabilmente ripresa la sera successiva, generando così una serie altrettanto infinita di sere, di ognuna della quali il bevitore, in buona tradizione benjaminiana, non ricorda l’inizio. Questo oscuro scrutare il seguente rum fa del bevitore un teorico. Intendiamo teorico nell’accezione più forte, l’etimologica, del termine. È ora di chiedersi come e da che punto chi beve scorge la serie che gli si prospetta davanti. La risposta si trova evidentemente in fondo al bicchiere. L’alcolista deve finire il proprio rum per intravedere il seguente, proprio qui risiede il senso della teoria. La teoria, lo sguardo contemplativo, scorge l’incompletezza della serie attraverso la visione distorta del e dal fondo del bicchiere stesso. Lo spazio che si schiude alla base di ognuno di questi è ciò che viene scorto dall’azione teoretica del bevitore quando alza il gomito: un topos, un luogo e allo stesso tempo un progetto, dove ciò che si progetta è la (im)possibilità del compimento della sequenza. Ci si avvede di un barlume lontano, la saidera. Si riduce il rum a un mero agire contemplativo, a una mera speculazione su quel meccanismo che gioca insolubilmente col rapporto ormai esploso tra identità e differenza?
L’alcolista deve finire il proprio rum per intravedere il seguente, proprio qui risiede il senso della teoria.
No, il rum è praxis. Aristotele distingue due tipi di azione, poiesis e praxis. La prima è produzione, azione produttiva che trova il proprio fine fuori di sé, ossia nell’oggetto prodotto, mentre la seconda possiede un fine che le è inerente. La praxis è completa, racchiude il proprio fine in sé stessa e nel suo stesso compimento e svolgimento incontra la propria ragion d’essere. Il rum, nella sua accezione più forte, è quindi una praxis. La ragione che abita l’alcolista non è la strumentale, capace solo di adeguare mezzi a fini, ma di un altro tipo. Distinguiamo così due tipi di bevitori. I primi bevono per compiere un’obbiettivo, per raggiungere uno scopo che va al di là del rum in sé stesso, il cui esempio più comune è portarsi a casa del sesso ebbro, mentre i secondi bevono per bere, si incontrano per bere, definendo e fondando un momento, frutto della praxis alcolica, sul quale torneremo. Se poniamo come fine il portarsi qualcuno a letto (o in bagno, nella sua versione più love me tender), la ragione strumentale determinerà con precisione la quantità di alcol che sarà necessario assumere, nel caso il partner sia più brutto di noi, o far assumere, nel caso sia più bello, per compiere il proprio obbiettivo. Ecco come si denigra il rum a mero mezzo. Nel bevitore degno di questo nome abita invece una ragion alcolica, che vede nei bicchieri l’inizio, la fine e il fine di ogni epica notturna. Il vero bevitore si incarica quindi di portare avanti regolarmente un triplice discorso: un’archeologia, un’escatologia e una teleologia dell’ebbrezza. Tale azione fine a sé stessa è dunque praxis nel senso stretto del termine, con determinate caratteristiche. Come ogni azione essa si compie in uno spazio e un tempo. Ci si impone pensare lo spazio e il tempo del rum. Esistono dei canoni senza dubbio, a prima vista indicheremmo il bar e la sera come elementi per eccellenza delle suddette categorie. Canoni che, in tanto che tali, possono e devono essere infranti, pensiamo per esempio al bere di mattina o nel primo pomeriggio, o bere tanto al parco come in spiaggia. L’analisi di canoni e controcanoni ci può portare lontano, ma non è la direzione che ci interessa, non solo perché estremamente variabili, ma soprattutto perché pensiamo sia più importante un’analisi marginale, liminale rispetto all’ortodossia alcolica.
Proviamo a pensare invece il bere come una praxis della prossimità, le cui coordinate spaziotemporali non siano un posto o un’ora, bensì si presentino come lo spazio e il tempo di una certa intimità. Ci troviamo di fronte a un’erotica alcolica. Bere è un’affare intimo: non si può bere con chiunque. Bere con estranei assomiglia di più a una pornografia alcolica, un momento volgare nel cui totale disvelamento non si palesa tuttavia nessuna verità. Come pornografico è quel bevitore che usa il rum per portarsi a letto qualcuno, come se oggigiorno ci fosse bisogno di bere per fare sesso: siamo ancora costretti ad assistere quotidianamente allo scempio alcolico di chi paga da bere a sconosciuti e sconosciute nei bar col solo scopo di vederli nudi. Tanto lo spazio come il tempo alcolico sono qualcosa di privato, la cui condivisione va scelta con cura e attenzione. Emerge qui il tema della cura. Bere insieme è una cura dell’anima. Anzi, è una cura delle anime. Foucault nelle sue ultime ricerche si occupa proprio del tema dell’epimeleia heautou, la cura di sé, una praxis vitale che si snoda attraverso le tecniche del sé, che, nel suo successore intellettuale P. Hadot, prenderanno il nome di esercizi spirituali. Per Foucault una delle tecniche necessarie e fondanti della cura di sé è la parresìa, il parlar franco, il dire la verità, che costituisce «la maniera in cui quest’anima verrà formata». La parresìa ha quindi a che vedere con la formazione del sé, la propria definizione, la Bildung personale di ognuno. Il bevitore è un parresiasta, è qualcuno che dice la verità a chi ha di fronte, a chi condivide con lui quello spazio e quel tempo di verità e, per questo, di intimità. La prossimità alcolica è quindi una vera e propria erotica: in essa emerge, allo stesso tempo che si tende a essa, una verità, in puro stile platonico, una verità condivisa, comune anche se non collettiva né tantomeno pubblica. L’intimità che abita il continuum alcolico è uno spazio al riparo dalle intemperie, nel quale il senso della frase di Erri de Luca può tranquillamente dispiegarsi: «Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato». Se bere insieme è prendersi cura della propria anima, è allo stesso tempo un’apertura e un’attenzione all’altro. Raccogliere la verità dell’altro, custodirla, anche a costo di averla dimenticata il mattino dopo, persa in un certo mal di testa, prendersi insomma cura del discorso sincero dell’altro, rappresentano forme di resistenza alcolica alla naturale degenerazione e indecenza a cui sono sottoposte le cose e le relazioni umane.
L’afferrarsi ai bicchieri insieme, il brindisi, è un disperato tentativo di non sparire, di resistere ancora un po’, di fare il possibile con ciò che si ha e per chi si ha accanto. Torna qui con forza il tema dell’escatologia. Un teologo tedesco scrisse che la domanda escatologica del tempo per eccellenza è «quanto tempo abbiamo in generale (ancora)?» Eccolo, il resistere ancora un po’, il bere ancora un po’ insieme, lo stare insieme con l’alcool. Quanto tempo abbiamo ancora per bere prima che ci caccino dal bar? Quanto tempo ancora abbiamo per bere, in generale? Questa serie di domande ci conduce inevitabilmente a una ultima, l’escatologica appunto, che ci sorge immediatamente al pensare la fragilità: quanto tempo abbiamo ancora insieme? Lo spazio e il tempo del rum sono così le forme di una resistenza intima, una pratica e un’educazione dello sguardo e del tocco. Ma cosa vuol dire educare lo sguardo e il tocco? Dobbiamo imparare a leggere i segnali rivelatori che ci dicono se chi ci affianca ha bevuto troppo o troppo poco, è necessaria un’educazione da cui possono dipendere tante cose, dallo stato di salute allo stato civile. E senza dubbio l’educazione del tocco è ciò che ci consente di portare a casa l’altro, di guidarlo incolume fuori da un bar tenendolo sotto braccio, piuttosto che stringerlo forte se non è la serata giusta. Bisogna, in definitiva, saper toccare. Attraverso l’alcol passa quindi la Bildung del bevitore. In tedesco Bildung significa “costruzione” allo stesso tempo che “educazione”, “formazione” e “immaginazione”. Ogni bevitore, anzi possiamo dire ora ogni coppia di bevitori, ha vissuto e porta con sé dei luoghi e dei momenti attraverso i quali è passata la propria Bildung alcolica. Particolari tavoli di determinati bar, orari più o meno ritualizzati nei quali, come in un atto sacrificale, si ripercorre una volta dopo l’altra la serie infinita di bicchieri. In angoli e momenti specifici si materializza l’intimità di cui abbiamo parlato, sono luoghi abitati dalla verità, che ne portano il sigillo, il timbro inconfondibile e indelebile che appare al bevitore sotto la forma di ricordo. Per questo le storie vissute da chi beve non iniziano con tè e biscotti, né quelle ascoltate sono state sentite passeggiando sul lungomare. I luoghi dell’alcol sono parte integrante della propria cultura, della propria formazione, parlano al bevitore allo stesso tempo che parlano di e per lui. Sono posti magici, abitati dal ricordo e dall’immaginazione, per questo sono specchio della sua anima, della sua storia, sono carne viva. Portare un estraneo nei propri bar è lasciarlo penetrare nella propria intimità, è lasciargli spiare un passato che non gli appartiene, come se passeggiasse impunito per un’immaginaria biblioteca colma di tutti i libri letti e di tutti i film visti. Ordinare il proprio liquore insieme a un estraneo è come fargli baciare tutte le compagne e i compagni che abbiamo mai baciato, sono cose che non lo riguardano, non potrebbe capire, e, quando beve dai nostri bicchieri, abbiamo la sensazione che stia mettendo la bocca dove non dovrebbe. Lo straniero è destinato a non capire, e se capisce si può smettere di considerarlo uno straniero. La normalità trascorre in una genuina indifferenza, non solo non si capisce ma non si vuole essere capiti, perché se a una persona è necessario spiegarsi, vuol dire che non ne vale la pena. Resta un mistero come a volte si possa generare un’intimità alcolica, come due persone si trovino accomunate da una rete di cure e attenzioni per le sporche verità dell’altro, e, allo stesso tempo, abiti in loro un affetto che li porti a sostenersi poco a poco negli infiniti ritorni a casa. Come disse Simone de Beauvoir alla morte del suo eterno compagno: «È già tanto che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo». Se andare a bere con una persona vicina è a sua volta un parlarsi da vicino e un condividere la prossimità, come dimostrano i piccoli tavolini o le barre dei bar, fare lo stesso con chiunque altro è parlare al vento, tutti gridano da una lontananza insanabile e da una distanza irrecuperabile. Esempio evidente ne sono le grandi tavolate alcoliche, tipiche dell’erasmus–way–of–life. Parliamo così di una prossimità che diviene aspazialità, mancanza di spazio e di distanza tra i bevitori alla barra, a sua volta sensazione di vivere un (non) spazio fuori dal mondo, di non appartenere al continuum.
I luoghi dell’alcol sono parte integrante della propria cultura, della propria formazione, parlano al bevitore allo stesso tempo che parlano di e per lui. Sono posti magici, abitati dal ricordo e dall’immaginazione, per questo sono specchio della sua anima, della sua storia, sono carne viva.
È abbastanza sullo spazio del rum. È ora di passare oltre, di iniziare a pensare la peculiarità del tempo ebbro. Nel tempo alcolico viviamo un ritardarsi, un attardarsi, e questo in più sensi. L’attardarsi, il fare o tirare tardi, sono tipici del bevitore. La ricerca del penultimo bicchiere, cioè in definitiva la continua posposizione della soddisfazione libidinosa, è essa stessa un fare tardi, esemplificata dalle varie espressioni «ancora una e poi vado», «l’ultima e andiamo» «dai ancora una», è un ritardare il ritorno a casa. Così chi beve fa tardi. In un altro senso, il bere è un attardarsi dello sguardo, nell’accezione questa volta di soffermarsi. Lo sguardo dell’alcolista è doppiamente soffermato. Da un lato si attarda per prendersi cura dell’altro, del proprio compagno di bevute, perché se è chiaro che la verità che da esso emerge necessita calma e attenzione, è altrettanto chiaro che se il nostro compagno ha bevuto troppo bisogna attardarsi per portarlo a casa, mettergli il pigiama e magari farlo pure vomitare. Lo sguardo si sofferma quindi per verificare che chi sta con noi stia bene, si senta bene, potrebbe aver bevuto troppo o troppo poco: «L’uomo più lento della guerriglia era quello che stabiliva la velocità. Dovevamo marciare tutti al passo del più lento, perché certamente non potevamo abbandonarlo», diceva Che Guevara. Bisogna assicurarsi di essere davvero accompagnati e a sua volta di accompagnare, come in ogni relazione erotica il ritmo e la consonanza sono fondamentali. Ma la sincronia che abita la prossimità alcolica è allo stesso tempo acronica. Questo vuol dire che nella non–spazialità si gioca a sua volta una atemporalità sincronica, nel non–luogo (utopia?) il tempo è contesto lontano che non appartiene ai bevitori. Quando i tempi convergono, si sincronizzano nella cura reciproca e nell’ascolto, si dissolvono, lasciando i bevitori a vivere una immediatezza assoluta. Tutto ciò dovrebbe fornire una struttura teorica per spiegare come sia possibile che, appena sembra di entrare in un bar, esso immediatamente chiuda (di già? Ma siamo appena entrati…) Ma questa comune esperienza di perdita del tempo non va confusa con una perdita di tempo, che come abbiamo detto in apertura non è mai stata un problema, bensì all’aver vissuto insieme un istante assoluto, sincronia acronica. D’altro canto lo sguardo di chi beve è uno sguardo da ritardato. Lento, vuoto e perso, esso indugia inutilmente sulle cose e sulle operazioni più semplici (la chiave nella toppa della porta di casa o le maniche nel cappotto), facendo apparire tutto come una difficile impresa. Mettere la chiave nella serratura finisce così per assomigliare sempre più a un’operazione di microchirurgia, e il cappotto di tutti i giorni sembra in quel momento essere stato pensato per un qualche ragno o polipo ancestrale.
L’uomo più lento della guerriglia era quello che stabiliva la velocità. Dovevamo marciare tutti al passo del più lento, perché certamente non potevamo abbandonarlo.Che Guevara
Abbiamo così vagamente delineato, dispiegandoli sotto la forma del tempo, i tratti dello sguardo di chi ha bevuto. Ma manca ancora qualcosa. Bisogna ancora integrare il concetto di estraniamento nella nostra metaottica alcolica. Categoria letteraria che fu cavallo di battaglia del formalismo russo dei primi del ‘900, l’estraniamento consiste in rivolgersi alle cose quotidiane con occhi nuovi, riscossi dall’atrofia causata da un lato dallo scorrere monotono dei giorni, e dall’altro dalla meccanizzazione della vita lavorativa. Le cose più semplici non vengono tanto ripensate né reinterpretate, semplicemente esse vengono viste invece che guardate, forse per la prima volta. Lo sguardo e l’occhio del bevitore vivono una condizione di estraniamento, le cose non si caricano di nuovi significati (come vorrebbe chi sostiene che alcol e droghe in generale ampliano le vedute e ribaltano punti di vista), bensì al contrario si svuotano di quelli che già possiedono. Le cose appaiono intanto che tali come sempre nuove, come inaudite e mai viste, ogni significato che gli si attribuiva da sobri giace schiacciato sotto il bicchiere. Ecco come si produce l’estraniamento, ogni volta che una cosa si posa davanti a chi ha bevuto essa è nuova, estranea appunto, un’incognita tutta da scoprire. Il rum rende incapaci di ricondurre le cose al loro uso, esse appaiono semplicemente come oggetti nel senso etimologico del termine, ob–yectum, tirati davanti, senza scopo né utilità apparente. Ecco qui di nuovo ritroviamo un attardarsi dello sguardo alcolizzato sull’oggetto, esso viene squadrato, si cerca di individuarne lentamente i punti di accesso che permettano un qualche tipo interazione, ci si impegna in complesse forme di retroingegneria, atte a decifrare quel curioso artefatto di origine evidentemente aliena. Si potrebbe dire di più, ma si fa tardi è bisogna affrettare il passo, già che siamo arrivati a un certo crepuscolo, è ora di affrontare quella che è forse la parte più dura di tutto il discorso.
Si dice che si beve per dimenticare, ma non c’è nulla di più falso.
Si beve per ricordare.
“Il bevitore”, Paul Cezanne
Deleuze, nella citata intervista, ci dice che beviamo perché nella vita c’è qualcosa che crediamo non poter sopportare senza alcol. Potremmo aggiungere qui che il peggio è che non sappiamo cosa sia. Si dice che si beve per dimenticare, ma non c’è nulla di più falso. Si beve per ricordare. Cos’è che stiamo cercando di ricordare? C’è qualcosa che avevamo e abbiamo perduto e quella che sentiamo è nostalgia? Sembra di no. Freud nel suo articolo sul lutto e la malinconia ci dice che il malinconico avverte che qualcosa è andato perduto, ma non è in grado di dire cosa. Mentre nel lutto è il mondo a essersi fatto povero e vuoto a causa della perdita di un oggetto determinato, nella malinconia l’impoverimento sembra darsi nell’Io, quando tuttavia lo stesso soggetto non è in grado di indicare cosa manchi. Forse siamo sulla buona strada. Lacan fa un passo in avanti al cercare di definire l’oggetto “a”. Esso è un oggetto perduto che non si costituisce se non a partire dalla perdita stessa. Questo significa che la mancanza e l’assenza ne sono parti costitutive: esso è già, da sempre e per sempre, assente. Tale oggetto non è mai esistito, non è mai stato presente, non si è mai palesato, mai stato posseduto, stato conosciuto o immaginato. Pertanto esso non solo è irrappresentabile, bensì si incarica di (non) presentificare l’irrappresentabilità. Quando chiediamo al bevitore triste «che c’è?», la risposta «niente!» è l’unica possibile. Perché è letteralmente vera, non c’è niente, non c’è mai stato e non può esserci. Tuttavia se ne sente la mancanza. Questo oggetto a appartiene a quello che Derrida chiama, nella sua Grammatologia, il “passato assoluto”: «[…] un lì–da–sempre al quale nessuna riattivazione dell’origine potrebbe dominare pienamente e svegliare alla presenza. Questa impossibilità di rianimare assolutamente l’evidenza di una presenza originaria ci rimanda quindi a un passato assoluto. Questo è ciò che ci autorizza a chiamare orma [trace] a ciò che non si lascia riassumere nella semplicità del presente.»
Chi beve scorge dentro di sé tale traccia, ne scorge l’irriducibilità a qualsiasi forma di presenza. Cerca di ricordare qualcosa la cui perdita ne è momento fondativo e costitutivo, e il cui accesso è sempre metaforico e indiretto. Può darsi che lo scrutare meticolosamente il fondo di ogni bicchiere sia una forma di ricerca, il che dipingerebbe il bevitore come un novello Sisifo, la cui pena consisterebbe in dover svuotare ogni singolo calice di una serie infinita, per vederlo immediatamente riempito di nuovo, con l’irraggiungibile fine di vedere appagato tanto il proprio desiderio come la propria ricerca. Forse è quello che Deleuze intendeva quando diceva che c’è nella vita qualcosa che crediamo non poter sopportare senza alcool. Il problema non è dimenticare la nostra natura finita, come sicuramente vorrebbe qualche romantico, bensì il non poter ricordare cosa lasciò la trace, l’orma, l’oggetto di per sé perduto di un’archeologia impossibile.
Se è vero che la forma veicola un contenuto il chiudere così bruscamente questo scritto senz’altro qualcosa vorrà dire. Siamo forse a un punto morto, nel quale si mostra in tutta la sua forza la condizione di desamparado dell’alcolista. Se fosse un teorema matematico sarebbe ora di porre quod erat demonstrandum, ma non credo avessimo nulla da dimostrare. Come direbbe Tabucchi, si sta facendo sempre più tardi. Sarebbe il momento delle conclusioni, ma non credo ce ne siano nemmeno di quelle. Abbiamo aperto con una citazione di Wu-Ming e credo che, fosse solo per assonanza, chiuderemo con una strofa dei Wogiagia che recita così:
Oggi bevo,
non volevo
e mi scuso
per l’abuso
ma devo
Immagini: Depositphotos/Pixabay/Commons
Collisione di due buchi neri (© LIGO/Commons)
Quando Newton formulò il linguaggio che oggi conosciamo come “fisica classica”, dettò le regole per la comprensione del moto dei corpi. Queste regole consentono di prevedere lo stato di un corpo in qualsiasi istante di tempo. Ovvero, se il moto di un corpo è di un certo tipo (per es. rettilineo, uniforme o anche accelerato, oppure parabolico etc etc etc), le equazioni in grado di descrivere lo stato del sistema permettono di prevedere dove si trova il corpo al tempo t, al tempo t-1 o anche al tempo t+1. Allo stesso modo si può prevedere la sua quantità di moto, il valore della sua energia cinetica e così via di seguito. Grazie alla formulazione fisica elaborata da Newton, è stata matematizzata ogni osservazione macroscopica, inclusa quella che ci consente di vedere che ogni oggetto viene attratto verso il centro della Terra. La fisica classica è stata in grado, ed ancora lo è, di prevedere il moto dei pianeti e di ipotizzare l’esistenza di masse celesti laddove non era, ed è, possibile osservarne. Il fulcro della fisica classica è proprio questo, ovvero l’aver ipotizzato l’esistenza di una forza, detta di gravitazione, grazie alla quale è stato possibile prevedere il comportamento di tutti i corpi celesti. Adesso usciamo per un momento dall’argomento e tracciamo una immagine mentale molto semplice. Ovvero, immaginiamo di essere al centro di una stanza e di sollevare un secchio. Cominciamo a ruotare velocemente su noi stessi. Cosa osserviamo? Il secchio rimane attaccato a noi grazie all’azione della nostra mano a sua volta attaccata al nostro braccio. In altre parole, il secchio non si allontana da noi, perché lo teniamo saldamente con la mano. Ritorniamo, adesso, nello spazio ed al moto dei pianeti. Nessuno di essi è in grado di allontanarsi dal Sole, ma tutti si muovono seguendo delle orbite particolari in modo da risultare attaccati al Sole come a noi rimane attaccato il secchio dell’immagine precedente. Ma mentre è facile capire come mai il secchio rimane vicino a noi, non è altrettanto facile capire come mai i pianeti rimangono attaccati al Sole. Quali sono le braccia che trattengono i pianeti? In altre parole, qual è la natura della forza gravitazionale? Sebbene la fisica di Newton sia stata in grado di consentire le previsioni anzidette, non è mai stata in grado di rispondere alle domande: come è fatta la gravitazione? Perché i corpi celesti sono attratti tra loro? Cosa li spinge gli uni verso gli altri?
È qui che entra in gioco A. Einstein con la sua teoria della relatività. Fino all’inizio del ventesimo secolo, tutta la fisica si basava sull’uso di un linguaggio matematico che prendeva in considerazione solo le tre dimensioni dello spazio. Ovvero, tutta la fisica era costruita sull’assunzione che un qualsiasi corpo dotato di massa si muovesse lungo uno qualsiasi degli assi cartesiani che abbiamo imparato a conoscere fin da piccoli, o nello spazio da essi definito. Einstein per primo osò immaginare che alle tre dimensioni spaziali dovesse essere aggiunta una quarta dimensione: quella temporale. La sua assunzione si basava sulla considerazione che quando noi ci muoviamo, lo facciamo non solo nello spazio, ma anche nel tempo. In altre parole, se devo andare in aeroporto, vado in stazione, salgo sul treno e (dopo un tempo t) mi trovo a destinazione. Mi sono, quindi, mosso non solo lungo la terna di assi cartesiani, ma anche lungo un asse temporale. Se noi includiamo la dimensione tempo nel sistema di coordinate spaziali, non facciamo altro che generare un nuovo sistema di coordinate che ci consente di descrivere sia il moto di un corpo nello spazio che nel tempo. È intuitivo che una operazione del genere consente di dire che come si va avanti ed indietro nello spazio, si può andare avanti ed indietro anche lungo l’asse del tempo. Tuttavia, esistono princìpi che consentono di escludere i viaggi indietro nel tempo . Non è questo, però, lo scopo della nota. Il sistema di coordinate spazio-temporali può essere usato per riformulare la fisica classica. Ed è ciò che, nel 1916, A. Einstein ha fatto. Senza entrare nei dettagli, basti sapere che questo sistema di coordinate può essere immaginato come una rete invisibile in cui sono intrappolati tutti gli oggetti che compongono il nostro universo. Come una rete viene deformata quando un pesce si inserisce tra le sue maglie, allo stesso modo i corpi celesti deformano lo spazio–tempo, ovvero la rete fatta dalle 4 dimensioni precedentemente descritte. L’intensità delle deformazioni dipendono dalla massa dei corpi celesti stessi: più è grande il corpo, più profonda è la deformazione.
Curvatura dello spazio-tempo (Johnstone /Commons)
Usciamo di nuovo dal tema per generare un’altra immagine mentale. Immaginiamo di tendere un lenzuolo. Immaginiamo, ora, di poggiare un oggetto come un libro al centro del lenzuolo. Cosa accade? Semplicemente che il libro deforma il lenzuolo. E se lasciassimo scivolare una palla? Beh, ci accorgeremmo che la palla comincerebbe a girare intorno al libro fino a che non si esaurisce la forza con cui l’abbiamo spinta. A quel punto la palla cade sul libro. Ritorniamo in tema. Le deformazioni dello spazio–tempo dovute ai corpi celesti sono l’equivalente della deformazione del lenzuolo per effetto del libro. Il Sole, molto più grande dei pianeti, deforma lo spazio–tempo esattamente come fanno anche i pianeti. Il punto è che l’entità della deformazione dovuta al Sole è molto più ampia di quella dei pianeti, per cui questi, come la palla dell’esempio più sopra, tendono a cadere verso il sole seguendo le traiettorie che noi abbiamo chiamato orbite. La forza di gravità, quindi, altro non è che un parametro che noi usiamo per descrivere il comportamento dei corpi che scivolano gli uni verso gli altri a causa della deformazione dello spazio–tempo generata dalla massa dei corpi in esame. E cosa c’entrano le onde gravitazionali in tutto questo?
Facciamo un passo indietro e ricordiamo che tutti i corpi deformano lo spazio–tempo. I corpi più piccoli tendono a cadere nella buca, ovvero la deformazione spazio–temporale, generata dai corpi più grandi fino a che entrambi non si “toccano”. L’avvicinamento dei corpi piccoli a quelli più grandi avviene con moto accelerato man mano che diminuisce la distanza tra di essi. È intuitivo, infatti, che la palla che cade verso il libro dell’esempio fatto prima, lo farà accelerando man mano che si avvicina al corpo più grande, ovvero al libro. Nel loro movimento accelerato i corpi, che sono dotati di massa, non solo generano delle deformazioni, ovvero delle buche, ma tendono anche a generare delle “increspature”. Tanto per dare un’idea usando una super semplificazione. Avete mai provato ad usare l’aspirapolvere su un tappeto? Ebbene, se lo fate, vi accorgerete che andando avanti ed indietro, l’aspirapolvere tende a increspare il tappeto. Ecco, lo spazio–tempo è come il tappeto, i corpi celesti sono come l’aspirapolvere. Le increspature sono generate dal moto dei corpi celesti nella rete spazio–temporale in cui essi sono immersi. Il comportamento di queste increspature è simile a quello delle onde luminose, per questo motivo si usa il termine “onde” per descriverle. Dal momento che sia le deformazioni che le increspature spazio–temporali dipendono sia dalla massa che dalla velocità con cui i corpi si muovono, le “onde” suddette vengono aggettivate come “gravitazionali”. L’intensità di queste onde è generalmente troppo piccola per poter essere rilevata. Solo corpi molto più grossi del nostro Sole possono generare onde gravitazionali misurabili.
L’interferometro VIRGO a Cascina, in provincia di Pisa (Virgo/Commons).
La recente scoperta delle onde gravitazionali si riferisce al fatto che due buchi neri, oggetti celesti tra i più “massicci” tra quelli conosciuti, sono “caduti” l’uno sull’altro generando un oggetto ancora più “massiccio”. La combinazione tra le deformazioni spazio–temporali dei due buchi neri in fase di avvicinamento con un moto accelerato, ha generato onde gravitazionali la cui intensità è stata misurata dai rilevatori LIGO e VIRGO. L’importanza della scoperta diretta delle onde gravitazionali è lasciata alle bellissime parole di Licia Troisi, una astrofisica Italiana: «ora è possibile studiare l’Universo in una nuova banda, non più solamente la luce visibile (l’ottico) o le alte energie. In sintesi, non possiamo più misurare solo l’emissione elettromagnetica dei corpi celesti. Adesso possiamo misurare anche l’emissione gravitazionale, aprendo un campo completamente nuovo di indagine. E questo significa chissà quanti altri misteri da spiegare, quante altre scoperte che ci attendono».
Letture consigliate
Stavo ascoltando la radio in auto quando sento dal conduttore la parola umarell. Non conoscendone il significato, non appena possibile l’ho cercata su internet. Nulla. Almeno non così facilmente, infatti ad una ricerca più approfondita l’arcano è stato svelato. Mi è allora venuta in mente un’altra parola della quale da tempo mi sfuggiva il significato: cosmobimbi, che ricordo di aver visto scritta a bomboletta su un muro della mia città tanti anni fa (accompagnata da epiteti poco amichevoli che mi sarebbero stati più chiari in seguito). Ogni volta che chiedevo a qualcuno se ne sapesse qualcosa, ho sempre ottenuto in risposta sempre e solo facce perplesse e scrollate di capo: eppure, era al plurale, cosmobimbi, erano più d’uno, e chi ha scritto il graffito aveva precisato “bastardi”, quindi ci doveva essere un secondo gruppo al quale i primi non stavano propriamente simpatici. Ci doveva essere sotto qualcosa, forse c’era dietro una storia! E infatti c’era: alcuni termini hanno un significato oscuro e un’origine curiosa, nota a pochi, a volte legata a piccole realtà locali, ma che meriterebbe di essere raccontata. Oggettivamente però scrivere un intero articolo su una singola parola non è sempre possibile; i termini dovrebbero essere perlopiù trattati dal punto di vista linguistico e poi organizzati alfabeticamente, come un dizionario. Ecco, ci vorrebbe un “Laputazionario”: le parole più insolite e meno note, raccolte e spiegate con la stessa cura a passione che contraddistingue la nostra enciclopedia, ma concentrandosi sull’origine e significato del singolo lemma più che sui concetti o i fatti cui il termine si riferisce. E così, l’abbiamo fatto: nasce il dizionario di Laputa delle parole insolite o curiose, legate alla cultura popolare, controculture e sottoculture, slang e termini di ambiti specifici e circoscritti, stereotipi, modi di dire, neologismi, regionalismi e parole di origine dialettale… insomma le parole che di solito non si trovano sui dizionari. E che nemmeno vi verrebbe in mente di cercare.
Immagine: © Depositphotos
Battaglia di Gettysburg – 150º rievocazione 2013 (Commons).
La guerra civile americana contrappose non solo Stati del Nord dell’Unione contro Stati del Sud della Confederazione, ma anche due modi diversi di essere americani. E questa differenza non poté non riflettersi anche in nomignoli e canzoni popolari. Il termine Yankee è universalmente conosciuto ancora oggi e identifica i cittadini statunitensi. Inizialmente con questo termine venivano chiamati i soli cittadini del New England, ovvero la regione che comprendeva le colonie del Massachusetts, Maine, New Hampshire, Vermont, Connecticut e Rhode Island. Lo scrittore americano Elwyn Brooks White (1899 – 1985) riassume così i diversi significati della parola yankee a seconda della prospettiva geografica:[1]
To Americans, a Yankee is a Northerner.
To Northerners, a Yankee is an Easterner.
To Easterners, a Yankee is a New Englander.
To New Englanders, a Yankee is a Vermonter.
And in Vermont, a Yankee is somebody who eats pie for breakfast.
Per gli americani, uno Yankee è del nord.
Per quelli del nord, uno Yankee è del nordest.
Per quelli del nordest, uno Yankee è del New England.
Per quelli del New England, uno Yankee è del Vermont.
E in Vermont, uno Yankee è qualcuno che mangia la torta a colazione.[2]
Lo Yankee Stadium a New York (Ed Yourdon/Commons CC-BY-SA 2.0).
La parola è di origine incerta, si ipotizza possa derivare o dalla parola scozzese yankee “furbo”, o dall’irlandese Jankin “piccolo Jan”, o anche dalla pronuncia indiana di anglais. Le truppe inglesi durante la guerra di indipendenza estesero l’appellativo a tutti i ribelli americani, che deridevano cantando la canzone Yankee Doodle: un modo per rispondere ai canti dei ribelli che descrivevano il re d’Inghilterra Giorgio III come un tiranno ubriacone. Ironia della sorte, anche i ribelli adottarono Yankee Doodle che finì così per essere inno ufficioso della nuova nazione. Oggi oltre a essere considerato un canto popolare patriottico americano Yankee Doodle è l’inno ufficiale dello Stato del Connecticut. Anche se la città di New York non si trova nel New England, qui ha base la squadra di baseball più famosa al mondo: i New York Yankees.
The Great Dixieland Band Spectacle a Seattle nel 1909 (Frank H. Nowell/Commons)
Il Sud era invece appellato Dixieland ovvero “terra dei Neri” e anche qui l’origine del nome è incerta. Per alcuni Dixie fu il nome della casa, a New York, dove per la prima volta nelle colonie furono impiegati schiavi africani. Altri invece considerano più plausibile che il nome derivi da una banconota: a New Orleans la Banque des Citoyens de la Louisiane emise poco tempo prima della Guerra Civile una banconota da dieci dollari recante sul retro la scritta “DIX”, dieci in francese. Secondo questa teoria ben presto la banconota fu soprannominata “Dixies” e da qui il termine è passato a significare il Sud degli Stati Uniti e tutto ciò che è ad esso collegato (→Stati Confederati d’America).
Anche in questo caso vi è una canzone popolare chiamata Dixie, conosciuta anche come Wish I Was in Dixie o anche Dixie’s Land, che diventerà un inno dei sudisti anche se in realtà fu composta a New York. La canzone è un chiaro omaggio alle terre del Sud e alle piantagioni di schiavi; curiosamente era anche una delle canzoni preferite del presidente Lincoln e durante la guerra civile anche le truppe nordiste ne cantavano una propria versione. L’accezione più scevra da implicazioni razziali del termine Dixieland riguarda la musica: esso infatti indica lo stile originario del jazz di New Orleans a cui possiamo ascrivere pezzi celebri come When the Saints go marchin’in, Basin street blues e Tiger Rag e artisti del calibro di Louis Armstrong.
I cittadini bianchi del Sud degli Stati Uniti sono detti anche redneck, ovvero “colli rossi”, e il termine ha forse origine da una bandana rossa indossata dai minatori di carbone durante una protesta ai primi del novecento; ad oggi invece la credenza più diffusa associa il termine semplicemente al fatto che sotto il sole del Sud la pelle si arrossa. Ai giorni nostri il termine ha assunto più che altro l’accezione negativa di indicare una persona dalla mentalità arretrata, provinciale e conservatrice tanto da diventare uno stereotipo presente in cartoni animati come i Simpsons (il personaggio di Cletus Spuckler) e The Cleveland Show (Lester Krinklesac).
The Rocket City Rednecks è uno show televisivo trasmesso su National Geographic Channel (2011 — 2013), nel quale un gruppo di ingegneri e scienziati interpreta un gruppo di “redneck” che tentano di impiegare il proprio scibile per risolvere problemi pratici della vita rurale (Commons).
Lasciando da parte le accezioni negative, ci piace ascoltare sia Yankee Doodle (no, non siamo contro gli Inglesi, ma è pur sempre un pezzo di storia) sia Wish I Was in Dixie (no, non siamo schiavisti ma piaceva pur sempre al presidente Lincoln). Il nome di queste canzoni non vi dice niente? Sicuri? Provate ad ascoltarle e forse la memoria tornerà:
Yankee Doodle
In Italia è il motivo su cui viene cantata la canzonetta popolare noi siam del gruppo alcolico, originaria probabilmente del Nord-Est (Emilia Romagna e Triveneto) e declinata in diverse versioni in genere inneggianti all’alcolismo e/o legate alla tifoseria calcistica (era spesso cantata agli stadi negli anni ’80–’90). Ad esempio:
«Noi siam del gruppo alcolico / sezione di scoppiati
veniam da Ronzo–Chienis / e siam tutti alcolizzati»
è la canzone degli ultras della Val di Gresta, in Trentino.[3] Una versione veneta è invece:
«Noi semo dell’alcolica / sezione Valsugana
el nostro simboeo de guera / xè la damigiana!»
I wish I was in Dixie
Metropolitan Mixed Chorus con Donald Chalmers, Ada Jones e Billy Murray, 1916 —
Nel film Il principe delle maree (The Prince of Tides, 1991, reg. di Barbra Streisand, dal romanzo di Pat Conroy) il grande violinista newyorkese Herber Woodruff (Jeroen Krabbé) odia Tom Wingo (Nick Nolte) allenatore di football di suo figlio, che considera “provinciale” e sospetta avere una relazione con sua moglie (e dopotutto non si sbaglia). Tom Wingo è del South Carolina, quindi “sudista”, e per “sfotterlo” il musicista del nord suona sul suo prezioso violino Stradivari I Wish I Was in Dixie, inno non ufficiale degli Stati Confederati d’America. Le prime note del brano sono ormai un’icona, grazie anche al fatto che sono il motivo prodotto dalle trombe del “Generale Lee”, l’auto dei fratelli Duke della serie tv Dukes of Hazzard.
A sinistra: scena del film Il principe delle maree: Herber Woodruff suona I Wish I Was in Dixie con il violino (fair use). A destra: il “Generale Lee” della serie tv Dukes of Hazzard è una Dodge Charger R/T del 1969; il clacson suona le prime note di I Wish I Was in Dixie (foto: Erik814u2/Commons CC-BY-SA-3.0).
Note
- [1]da National Geographic, op. cit.↩
- [2]La tipica torta americana è la torta di mele (apple pie o american pie) originaria del medio–atlantico e in particolare del Delaware (quindi del nordest).↩
- [3]“Gli Ultras del Gresta: birra e Arancia Meccanica” Trentino Corriere Alpi, 10/1/2007.↩
Bibliografia e fonti
- Luraghi, Raimondo Storia della guerra civile americana
. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), 2009.
- “Yankee“. National Geographic Education – Encyclopedia.
- Maffi, Mario “Dixie” in Americana: Storie E Culture Degli Stati Uniti
Dalla A Alla Z. Milano: Il Saggiatore, 2012. Pag. 200.
Logo è l’abbreviazione di logotipo (dal greco λόγος logos “parola” and τύπος typos “lettera”) ovvero un simbolo, una scritta, un segno grafico distintivo di una azienda, di una organizzazione, di un prodotto. Ogni giorno ne abbiamo sotto gli occhi centinaia: lo smartphone che usiamo, le riviste che leggiamo, le emittenti televisive, i siti che visitiamo sono immediatamente riconoscibili dal logotipo. I loghi si evolvono, vengono adeguati all’evoluzione dei gusti, della tecnologia, o semplicemente vengono migliorati. Un logo che si rinnova è segno di cura, quindi di impegno, di maggiori risorse per dedicarsi alla propria immagine: è segno di salute. A volte non ce ne accorgiamo perché i cambiamenti sono minimi (per garantire continuità nella visual identity), ma se confrontiamo i loghi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni con gli stessi di qualche anno fa, molto probabilmente in alcuni noteremo delle piccole differenze, anche solo nei caratteri delle scritte o nelle spaziature. Anche il logo di Laputa è cambiato nel tempo, mano a mano che il sito diventava più grande e seguito. Con l’inizio del 2016 adottiamo un nuovo logo: la scritta in caratteri minuscoli ed il payoff in italiano (prima era in esperanto) sono forse i cambiamenti più evidenti, ma tutto è stato curato nei dettagli, compresi gli spazi. Ecco l’evoluzione del nostro logo dall’apertura del sito: