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1 – Il centro di Lake Placid nel febbraio del 1980.

Lake Placid è una località sui monti Adirondack, nello stato di New York e al confine con il Canada, che ha ospitato per due volte le Olimpiadi invernali di cui la prima nel 1932 (la III Olimpiade) e la seconda nel 1980 (la XIII Olimpiade). Nella memoria collettiva statunitense, e più in generale nella memoria collettiva dell’hockey sul ghiaccio, fu l’edizione del 1980 a lasciare un segno indelebile.

Relativamente all’hockey su ghiaccio, poiché all’Olimpiade non potevano partecipare i professionisti, gli Stati Uniti si presentarono al via del torneo olimpico con una squadra composta dai migliori giocatori universitari mentre l’Unione Sovietica, non avendo ufficialmente un campionato professionistico ma solo amatoriale, metteva in campo i suoi migliori atleti.  I sovietici inoltre facevano giocare i loro campioni tutto l’anno e nella stessa squadra di club, il che portava ad una perfetta condizione fisica ed ad un gioco di squadra praticamente a memoria. L’URSS si era aggiudicata sempre la medaglia d’oro a partire dalle Olimpiadi di Cortina d’Ampezzo del 1956, con l’eccezione del 1960 in cui gli Stati Uniti avevano vinto il loro unico oro olimpico nell’hockey. I favori del pronostico erano quindi tutti per i sovietici.

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2 – Bandiere olimpiche alla cerimonia di apertura (o chiusura?) delle olimpiadi invernali 1980 a Lake Placid.

L’allenatore americano Herb Brooks non si diede per vinto in partenza, nonostante il divario tecnico e i pochi mesi di lavoro a disposizione e optò per un duro lavoro di preparazione. Brooks era un allenatore noto nell’ambiente universitario per aver condotto tre volte alla vittoria del campionato NCAA[1]i Golden Gophers, dell’Università del Minnesota, negli anni settanta. Consapevole della supremazia sovietica e dei limiti americani Brooks non si limitò a chiedere il tutto per tutto ai suoi atleti: pretese di più e non poneva fine all’allenamento finché i giocatori non erano letteralmente esausti. L’allenatore americano fece disputare anche un tour europeo di preparazione per far abituare i giocatori al campo internazionale che era più largo di quello utilizzato negli Stati Uniti. Durante il tour europeo il team USA pareggiò una partita contro la Norvegia che costò l’ira di Brooks tanto che costrinse i suoi, subito dopo la fine della partita e per quarantacinque minuti, a fare una serie di esercizi di pattinaggio, i cosiddetti bag-skate, che i giocatori detestavano e che dopo quella occasione ribattezzarono “Herbies”. L’allenatore li minacciò che ne avrebbero fatti altri se avessero perso la successiva partita in programma il giorno dopo sempre contro la Norvegia: finì 8 a 0 per gli americani. Brooks fece disputare alla sua squadra in tutto sessantatré partite prima delle Olimpiadi tra cui una, tenutasi il 9 febbraio 1980, contro i sovietici che sconfissero gli americani con un secco 10 a 3. Il duro allenamento diede però i suoi frutti: all’esordio il 12 febbraio contro la Svezia, favorita per una medaglia, gli americani strapparono, a 27 secondi dalla fine, il pareggio per 2 a 2 con un empty-net[2]. Nella partita successiva contro la Cecoslovacchia gli americani si imposero per 7 a 3, stupendo tutti in quanto la squadra cecoslovacca era considerata una probabile finalista. Gli USA sconfissero successivamente la Norvegia per 5 a 1, la Romania per 8 a 2 e infine la Germania Ovest per 4 a 2 qualificandosi così alla fase successiva. Il torneo Olimpico del 1980 prevedeva infatti il cosiddetto “girone delle medaglie” al quale si qualificarono USA, URSS, Svezia e Finlandia. L’URSS nel frattempo aveva vinto tutte le partite sconfiggendo Giappone (16-0), Olanda (17-4), Polonia (8-1), Finlandia (4-2) e Canada (6-4). Nel pomeriggio del 22 febbraio del 1980, all’Olympic Fieldhouse di Lake Placid, in un’atmosfera patriottica resa ancora più infervorata dalla guerra fredda si sarebbero trovate di fronte USA e URSS. Non era una partita normale, per molti non era solo sport, erano due blocchi e due mondi che si affrontavano e si sfidavano. L’URSS aveva da poco iniziato l’invasione dell’Afghanistan e gli USA avevano minacciato di boicottare l’Olimpiade estiva in programma a Mosca se i sovietici non avessero ritirato i loro carri armati. Chiunque avesse vinto la sfida di Lake Placid ne avrebbe sicuramente tratto spunto per la propaganda. I media nazionali americani però snobbarono l’evento, probabilmente per via dell’orario pomeridiano, tanto che l’ABC registrò la partita in diretta ma la trasmise in differita durante la prima serata. Prima della partita Brooks tenne un discorso[3] per motivare la squadra, dicendo tra le altre cose che era il loro momento e che erano nati per essere dei giocatori. Disse anche che era come Davide contro Golia per cui sperava si ricordassero di portare le fionde. Poi venne il momento di scendere in campo.

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3 – La partita USA-URSS di hockey su ghiaccio, il 22 febbraio del 1980 all’Olympic Fieldhouse di Lake Placid (NY).

I sovietici passarono una prima volta in vantaggio nel primo periodo grazie ad una rete di Krutov a cui seguì il pareggio di Schneider. Makarov riportò in vantaggio l’URSS ma, grazie ad un tiro non trattenuto dal portiere sovietico Tretiak, Mark Johnson riportò il punteggio sul 2 a 2 ad un secondo dalla fine del periodo. A questo punto il grande allenatore sovietico Viktor Tikhonov prese una decisione che lasciò tutti di stucco e che anni dopo definì lo sbaglio più grosso che abbia mai fatto: sostituì Tretiak con il portiere di riserva Myshkin. Lo stupore generale era dovuto al fatto che Vladislav Tretiak non è “un” portiere di hockey ma “il” portiere di hockey ed è universalmente considerato uno dei portieri più forti, se non il più forte, di sempre. Nel secondo periodo i sovietici si riportarono di nuovo in vantaggio grazie a Maltsev che siglò il temporaneo 3 a 2. Nel terzo tempo Johnson riportò il punteggio sul 3 a 3 e poi grazie al capitano Mike Eruzione gli USA passarono in vantaggio, a 10 minuti dalla fine, per 4 a 3. I sovietici le tentarono tutte ma il portiere americano Jim Craig, in evidente stato di grazia, bloccò qualsiasi cosa. L’Olympic Fieldhouse si trasformò in una bolgia assordante con tutti gli spettatori che incitavano con il coro «U-S-A! U-S-A!», che tra l’altro sembrerebbe sia stato coniato proprio in questa circostanza, la squadra alla vittoria. Il telecronista dell’ABC Al Michaels iniziò a contare i secondi che mancavano alla fine ed entrò nella storia del giornalismo sportivo esclamando:

Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento… Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? SI![4]
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4 – La copertina di Sports Illustrated del 3 marzo 1980, senza titoli.

Era accaduto l’impossibile: i sovietici erano stati sconfitti. Herb Brooks subito dopo la fine della partita si ritirò di corsa nello spogliatoio e pianse; i giocatori dopo aver lasciato il campo iniziarono a cantare “God Bless America”. Il 3 marzo 1980 la celebre rivista Sports Illustrated uscì con in copertina la foto dell’esultanza finale del team USA ma senza alcun titolo; il fotografo Heinz Kluetmeier dichiarò: «Non ne aveva bisogno, tutti in America sapevano quello che era successo». La telecronaca di Michaels fece sì che la vittoria fu ribattezzata “Miracolo sul Ghiaccio”. In effetti non è un’esagerazione: come altro si può definire una partita vinta da venti studenti universitari contro una delle squadre più forti di sempre? Per tentare un paragone calcistico è come se nel 1982 a sconfiggere il Brasile di Falcao, Zico e Socrates anziché l’Italia di Bearzot fosse stata una formazione composta da atleti scelti nei vari CUS (Centro Universitario Sportivo). Fu una vittoria talmente incredibile che spinse una generazione di bambini americani a praticare l’hockey su ghiaccio. Anni dopo quando gli Stati Uniti vinsero la Coppa del Mondo di hockey del 1996, quasi tutti gli atleti di quella squadra indicarono nel Miracolo sul ghiaccio ciò che li aveva ispirati a giocare. Ancora oggi molti confondono la partita contro i sovietici con la finale olimpica, invece non fu così: tutte le squadre erano ancora in lizza per la medaglia d’oro e fu solo grazie alla partita successiva, giocata due giorni dopo contro la Finlandia e vinta per 4 a 2 che gli Stati Uniti si aggiudicarono l’oro olimpico.

Alcuni componenti della squadra statunitense tra cui Ken Morrow, Jim Craig e Mark Johnson continuarono la carriera nella NHL; Morrow vinse quattro Stanley Cup con i New York Islanders; Johnson successivamente approdò in Italia giocando tra le file dell’Hockey Club Milano. Anche l’allenatore Herb Brooks continuò la carriera nella NHL per poi tornare alla guida del team USA alle Olimpiadi nel 2002 dove conquistò l’argento; è purtroppo scomparso nel 2003 in seguito ad un incidente stradale[5]. L’International Ice Hockey Federation (IIHF) in occasione delle celebrazioni del centenario dalla fondazione (1908-2008) ha ufficialmente proclamato il Miracolo sul ghiaccio il più importante evento di hockey internazionale del secolo. La rivista Sports Illustrated premiò il team come “Sportsmen of the Year” nel 1980 mentre nel 1999 proclamò l’impresa come “Top Spots Moment of the 20th Century”. Per quanto riguarda invece i sovietici ebbero la loro rivincita nelle edizioni successive conquistando l’oro nelle edizioni di Sarajevo (1984), Calgary (1988)[6] e Albertville (1992); a quest’ultima Olimpiade, essendosi l’URSS nel frattempo dissolta, gli atleti parteciparono come Squadra Unificata e utilizzarono come bandiera quella olimpica. Sempre all’interno delle celebrazioni della IIHF del 2008 fu proclamato un All-Star Team del centerario di cui quattro giocatori su sei erano nel team sovietico del 1980: Vladislav Tretiak, Vyacheslav Fetisov, Valeri Kharlamov e Sergei Makarov[7]. Tretiak è stato inoltre il primo atleta sovietico ad essere inserito, nel 1989, nella Hockey Hall of Fame ed è stato scelto come ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Sochi 2014[8].

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5 – Salt Lake City, olimpiadi invernali 2002: la squadra del Miracle on Ice del 1980 accende la fiamma olimpica.

L’onore di accendere il “sacro fuoco di Olimpia” è toccato anche ai giocatori americani del 1980. Alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City[9], nel 2002, diversi tedofori corsero fino al braciere olimpico con la divisa bianca del CIO ma fu la squadra del Miracolo sul Ghiaccio, che indossava la maglia del 1980, ad accenderlo[10]. Curiosamente ad apparire prima da solo con la fiaccola fu Mike Eruzione che ha poi chiamato a sé gli altri compagni proprio come fece durante la premiazione di Lake Placid, dove infranse parzialmente il protocollo olimpico invitando tutti sul podio alla fine dell’inno nazionale. Nel 2004 Hollywood celebrò l’impresa della squadra statunitense a Lake Placid con il film Miracle, diretto da Gavin O’Connor e con Kurt Russel nel ruolo di Herb Brooks.[11] In precedenza era già uscito nel 1981 un Film-TV sull’impresa dal nome Miracle on Ice. Fu così che, un lontano pomeriggio del 1980, venti studenti universitari dimostrarono al mondo che nessun sogno nello sport è impossibile, a patto di crederci e di impegnarsi con tutte le proprie forze.

Dopo l’edizione di Lake Placid gli Stati Uniti non hanno più vinto l’oro olimpico. I russi non vincono l’oro dal 1992. Alle Olimpiadi di Sochi l’oro è andato al Canada mentre russi e americani sono rimasti fuori dal podio.

Ringraziamenti

Desidero ringraziare Francisco Genre per l’informazione sulla militanza milanese di Johnson e insieme a lui gli appassionati di hockey che aspettavano questo articolo e che spero di non aver deluso. Desidero inoltre dedicare l’articolo, è la prima volta me lo si conceda, alla mia famiglia e ai miei amici con l’augurio che, quale che sia la sfida impossibile che si trovino davanti, possano sempre uscirne vittoriosi.

Note

  1. [1]La National Collegiate Athletic Association è l’organizzazione sportiva delle Università americane i cui tornei hanno un grandissimo seguito.
  2. [2]Per empty-net si intende quando il portiere viene sostituito per un giocatore di movimento. Questa mossa nell’hockey viene spesso utilizzata nei secondi finali di una partita per tentare, grazie al giocatore in più, di pareggiare il risultato.
  3. [3]Il discorso fu poi letto da Brooks ai giornalisti dopo la partita.
  4. [4]Il video originale dei secondi finali della telecronaca è disponibile su Youtube.
  5. [5]Nel 2006 il suo nome è stato inserito nella Hockey Hall of Fame
  6. [6]In questa edizione erano ancora presenti alcuni “reduci” del1980.
  7. [7]Gli altri due giocatori nominati sono lo svedese Borje Salming e, manco a dirlo, Wayne Gretzky.
  8. [8]Insieme alla pattinatrice Irina Rodnina.
  9. [9]La stessa Olimpiade in cui Brooks tornò alla guida della selezione americana.
  10. [10]La cerimonia olimpica di Salt Lake City è visionabile su Youtube
  11. [11]Nei titoli di coda compare la dedica alla sua memoria: «Non ha mai visto il film. Lo ha vissuto».

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. Dr. John Kelley (NOAA/NOS/CSDL), feb. 1980 [PD] NOAA Photo Library, wea03131;
  2. Dr. John Kelley (NOAA/NOS/CSDL), feb. 1980 [PD] NOAA Photo Library, wea03201;
  3. Dr. John Kelley (NOAA/NOS/CSDL), 22 feb. 1980 [PD] NOAA Photo Library, wea03180;
  4. © Heinz Kluetmeier/Sport Illustrated, fair use via en.wikipedia;
  5. Journalist 1st Class Preston Keres, 8 feb. 2002 [PD] U.S. Navy, 020208-N-3995K-001;
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1 – Il K-19.

Nel novembre del 1957 gli Stati Uniti avevano ultimato la chiglia di quello che sarebbe diventato il sottomarino USS George Washington, il primo sottomarino a propulsione nucleare dotato di missili balistici atomici. L’Unione Sovietica era indietro e il suo leader Nikita Chruščëv non ne voleva sapere di concedere un tale vantaggio strategico agli USA: bisognava fare presto e a tutti i costi nonostante i dubbi della marina militare. L’URSS infatti aveva già avviato nel 1955 la costruzione dei sottomarini a propulsione nucleare con il K-3 Leninskij Komsomol, primo sottomarino della classe “Progetto 627” (per la NATO classe “November”[1]) entrato in servizio nel luglio del 1958, ma oltre ai diversi problemi tecnici non erano in grado di lanciare i missili balistici. I sovietici idearono quindi la classe “Progetto 658” (per la NATO classe “Hotel”) riprendendo la tecnica del Progetto 627 su cui innestare la capacità di lancio di missili balistici come i sottomarini a propulsione diesel della classe “Progetto 629” (per la NATO classe “Golf”).

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2 – Il K-19 era un sottomarino nucleare “classe 658”, “Hotel I” per la NATO.

Il 17 ottobre 1958 era così pronta la chiglia del sottomarino sovietico che avrebbe pareggiato i conti con lo USS George Washington: il K-19. Il sottomarino non ebbe fortuna fin dalla fase di costruzione nei cantieri di Murmansk: due uomini perirono in un incendio, sei donne rimasero soffocate dai fumi mentre applicavano l’isolante, un elettricista morì schiacciato da una copertura per i tubi dei missili, un ingegnere morì cadendo tra due compartimenti. Una volta completato lo scafo venne approntata la cerimonia per il varo previsto per l’8 aprile 1959. La cerimonia prevedeva che fosse un uomo (e non come da tradizione una donna) ad effettuare il lancio: la bottiglia però rimbalzò sullo scafo senza rompersi e per i marinai presenti l’antica credenza indicava un cattivo auspicio. Il sottomarino presentò diversi malfunzionamenti fin dai primi test in acqua tra il luglio e il novembre del 1960. Durante uno di questi test mentre il sottomarino navigava alla massima profondità operativa, circa 300 metri, il vano del reattore fu inondato da un perdita d’acqua causata da una guarnizione sostituita in modo non corretto; il capitano Nikolai Vladimirovich Zateyev diede l’ordine di svuotare tutte le zavorre e il sottomarino riuscì a riemergere su un lato. Zateyev era stato designato capitano del K-19 mentre il sottomarino era ancora in costruzione e -come tanti altri ufficiali della Marina- nutriva molti dubbi sull’opportunità di una produzione di sottomarini così frettolosa. Seppure dell’opinione che il K-19 non fosse adatto al combattimento, si impegnò in ogni caso a formare un equipaggio esperto e pronto al combattimento per tenere alto il prestigio della Flotta del Nord, insignita dell’ordine della Bandiera Rossa.[2]

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3 – Il percorso del K-19 nella prima tragica missione

Ultimati i test il K-19 intraprese con 139 uomini a bordo (tra cui il Vasilij Aleksandrovič Archipov che l’anno successivo si sarebbe imbarcato sul B-59 per l’operazione Kama) la sua prima missione il 18 giugno 1961: un wargame[3] in cui farà la parte di un sottomarino americano. La missione prevedeva che il K-19 arrivasse prima nell’Oceano Atlantico senza farsi scoprire dalle forze NATO e poi, una volta ricevuto il segnale da Mosca, navigasse sotto il ghiaccio polare fino ad arrivare nel mare di Barents, dove avrebbe dovuto simulare un attacco missilistico all’Unione Sovietica. Le prime due settimane della missione furono tranquille, il K-19 raggiunse la Groenlandia e tutto l’equipaggio festeggiò il trentacinquesimo compleanno del capitano Zatayev con gelato e doppia razione di vino, in attesa dell’ordine di partenza dal comando di Mosca. Il 4 luglio 1961, alle 4:15 del mattino mentre il K-19 navigava a centosessanta chilometri al largo dell’isola norvegese di Jan Mayen, scattò l’allarme: la pressione dell’acqua nel circuito del reattore di dritta era pari a zero. Il sistema di raffreddamento non funzionava più e la temperatura delle barre di combustibile nucleare rischiò di salire senza controllo. La situazione era da incubo: il sottomarino si trovava a duemila quattrocento chilometri dalla base, rischiava di esplodere e non c’erano procedure conosciute per una situazione del genere. Il capitano ordinò di emergere in superficie per chiedere aiuto a Mosca, ma l’antenna radio non funzionava. Zatayev, insieme ad altri, aveva più volte fatto pressioni per l’installazione di sistemi di raffreddamento secondari proprio per scongiurare una situazione del genere e ora, perfida ironia della sorte, lui e il suo equipaggio dovevano cavarsela da soli in qualche modo. Purtroppo non c’era altro modo che entrare nel vano del reattore, detto anche la “bocca del boa”, con il rischio di esporsi ad una dose letale di radiazioni e riparare il guasto convogliando l’acqua potabile di scorta per l’equipaggio. Otto uomini guidati dal comandante di manovra Yuriy Povstyev si offrirono volontari per alternarsi nelle riparazioni. L’aria, il vapore, la pozza d’acqua, qualsiasi cosa dentro la bocca del boa emanava radiazioni letali ma i marinai vi rimasero per due ore finché, proprio quando la temperatura delle barre di combustibile aveva ormai toccato il punto di fusione, l’improvvisato e disperato sistema di raffreddamento cominciò a funzionare. Il pericolo di esplosione fu scongiurato ma tutto l’equipaggio del K-19 era ancora in pericolo per via del diffondersi delle radiazioni a tutto il sottomarino. Il capitano Zatayev era consapevole che non potevano navigare in quelle condizioni fino alla base nella Baia di Kola. Due ufficiali suggerirono a Zatayev la possibilità di abbandonare la nave ma il capitano non ne volle sapere e decise di correre un rischio: far rotta verso sud, nella speranza di ricongiungersi agli altri mezzi coinvolti nella simulazione che avrebbero dovuto trovarsi ancora in quelle acque. Zatayev ordinò inoltre di dare una razione di liquore a tutti i marinai perché convinto che l’alcool potesse avere un effetto sull’assorbimento delle radiazioni: pensò che in fondo, anche se così non fosse, un po’ di “coraggio liquido” all’equipaggio non avrebbe fatto male. Dopo circa otto ore di navigazione il K-19 non aveva ancora incontrato navi amiche e a Zatayev non restò che ordinare di invertire la rotta verso nord. Poco dopo il cambio di rotta il K-19 avvistò il sottomarino S-270: era la salvezza. Zatayev salì sul S-270 e contattò Mosca; tranne 60 uomini essenziali per le manovre del K-19 tutti gli altri membri dell’equipaggio furono evacuati; non avendo mezzi e conoscenze adeguate per soccorrere gli uomini gravemente avvelenati dalle radiazioni i loro colleghi del S-270 provarono a de-contaminarli con l’acqua bollente. Il K-19 tuttavia era troppo pesante per essere rimorchiato dal solo S-270 e altri due sottomarini, lo S-159 e lo S-268, giunsero per trainarlo fino a Murmansk. Con l’arrivo degli altri due sottomarini il K-19 venne evacuato del tutto e il capitano Zatayev fu l’ultimo a lasciare la nave. Nell’operazione di salvataggio furono coinvolte altre navi sovietiche e alla fine l’equipaggio e il K-19 arrivano a Polyarnyy, sul fiordo di Murmansk, rispettivamente il 9 e il 10 luglio 1961.

Polyarnyy, sul fiordo di Murmansk, dove fu riparato il K-19.

Una volta attraccato il K-19 con le sue radiazioni contaminò tutto quello che c’era nel raggio di 700 metri. A seguito della dose letale di radiazioni gli otto uomini che lavorarono al reattore morirono in pochi giorni.[4] Altri quattordici uomini morirono nel giro di due anni. Tutti gli altri centodiciassette uomini ebbero diverse malattie legate alle radiazioni. L’inchiesta avviata dalle autorità sovietiche sollevò Zatayev e il suo equipaggio da ogni responsabilità; l’incidente fu coperto dal segreto di stato e per questa ragione le motivazioni delle onorificenze, che furono date ad alcuni membri ma non a tutti, risultarono generiche. Una volta decontaminato e riparato il K-19, ribattezzato Hiroshima[5] dai marinai, tornò nuovamente in servizio nel 1964. Il sottomarino ebbe però altri incidenti:

  • nel novembre del 1969, mentre era in navigazione, ebbe una collisione con il sottomarino americano USS Gato che lo stava pedinando;
  • nel febbraio del 1972 una perdita idraulica causò un grave incendio che costò la vita a ventotto uomini;
  • negli anni successivi scoppiarono altri due incendi ma senza causare vittime.

2190662Il K-19 ha terminato il suo servizio nel 1991 ed è stato smantellato nel 2002, lo stesso anno in cui uscì il film K-19: The Widowmaker che in Russia suscitò non poche polemiche. Il K-19 ha avuto quindi una storia travagliata, non certo per colpa del varo non riuscito ma solo per errori umani a diversi livelli; inoltre a differenza di molti altri sottomarini, sia sovietici sia statunitensi, ha avuto una lunghissima vita operativa completando il proprio ciclo con lo smantellamento. Resta altresì indubitabile che se il K-19 non esplose con conseguenze incalcolabili, come sarebbe accaduto a Černobyl’ venticinque anni più tardi, lo si deve solo al coraggio di otto marinai.

Note

  1. [1]I veri nomi dei veicoli o armamenti sovietici erano spesso sconosciuti per motivi di segretezza, o quando anche fossero conosciuti potevano rappresentare un problema per la pronuncia, ostica ad un anglofono. Per questo motivo la NATO usava ribattezzare tutti i mezzi a disposizione del nemico con “nomi in codice” (NATO report name) facili da pronunciare in inglese. Ciò preveniva anche fraintendimenti nelle comunicazioni.
  2. [2]La “Flotta del Nord” (in russo: Северный флот, Severnyj flot) è una delle cinque flotte della Marina Sovietica, la stessa a cui apparteneva il B-59. La flotta è stata insignita dell’ordine della Bandiera Rossa e pertanto poteva fregiarsi del titolo nel nome, che diventava così “Flotta del Nord Bandiera Rossa” (Red Banner Northern Fleet). La sola squadra di sommergibili della Flotta del Nord era invece insignita anche dell’ordine di Ushakov.
  3. [3]Wargame: esercitazione militare. Così sono definite, in inglese americano, le esercitazioni che prevedevano lo scontro simulato tra due squadre.
  4. [4]Per gli autori del libro Immersione rapida (op. cit.) i marinai sono stati sepolti in bare di piombo.
  5. [5]Con riferimento alla prima bomba atomica sganciata sulla città giapponese di Hiroshima nel 1945; l’incidente di Černobyl’ (1986) non era ancora avvenuto.

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. Foto: U.S. Navy [PD].
  2. Mike 1979 Russia [CC-BY-SA-3.0] da Commons.
  3. © S.Dell’Acqua/Collaboratori di OpenStreetMap [CC-BY-SA 2.0]
Baia di Kola

1 – Baia di Kola, o Golfo di Murmansk. Da qui partirono i sottomarini dell’operazione Kama nel 1962.
(foto: 2009, © V. Lobanov CC-BY-3.0)

1962: il nome in codice dell’operazione è “Kama”, come un affluente del Volga. Vasilij Aleksandrovič Archipov si trovava però nel fiordo di Murmansk, sul mare di Barents, ed era il secondo in comando del sottomarino B-59, del 4° Bandiera Rossa, facente parte del prestigioso squadrone di sommergibili della Flotta del Nord sovietica (squadrone tra l’altro insignito dell’Ordine di Ushakov). La missione era talmente segreta che anziché partire dal porto militare di Poljarnyj, base del 4° Bandiera Rossa, la partenza avvenne da Sayda-Guba che all’epoca era un piccolo porto di pescatori. Il sottomarino B-59 è stato varato nel 1960 ma non era proprio tecnicamente all’avanguardia, trattandosi fondamentalmente di un sommergibile diesel derivato dagli U-Boot tedeschi della seconda guerra mondiale mentre nel 1960 i sommergibili nucleari erano già diventati realtà. Il B-59 non era solo nel piccolo porto, insieme ad esso ci sono altri sommergibili del tipo “Progetto 641” o, come li chiamava la NATO, “classe Foxtrot”: il B-4, il B-36 e il B-140. Caratteristica di questi sottomarini è la stazza, tanto che la B sta per Bolshoi, in russo “grande”. Vasilij alla partenza non sapeva ancora che missione sarebbe stata affidata loro perché gli ordini erano di aprire le buste sigillate solo una volta al largo; sapeva solo che le comunicazioni sarebbero state vietate sia tra i sommergibili della piccola flotta e il Comando di Mosca sia anche tra di loro durante tutta la missione al fine di mantenere la totale segretezza.

Partenza e destinazione dei sottomarini dell’operazione Kama: da Sayda-Guba sul fiordo di Murmansk (Russia) a Cuba.

Completati i rifornimenti e con tutto l’equipaggiamento artico la flotta salpò, il 1 ottobre 1962, dal fiordo di Murmansk e giunti al largo scoprì la destinazione: si trattava di un viaggio di ottomila chilometri con meta Cuba, con la finalità di proteggere dagli attacchi la rotta degli ottantacinque mercantili che avrebbero trasportato i missili balistici da installare sull’isola. Il comando militare di Mosca ha voluto che la flotta salpasse con l’equipaggiamento artico, quindi colbacchi, pellicce e tutto il resto, per ingannare eventuali curiosi anche se la meta erano i tropici. Il B-59 a bordo aveva ventuno siluri convenzionali dipinti di grigio ed uno dipinto di viola: il colore indicava una testata nucleare. Il Comando militare aveva autorizzato il B-59 a utilizzare ogni mezzo per la riuscita della missione, compreso l’uso dell’atomica purché, come da protocollo, fossero d’accordo sul lancio in maniera unanime il comandante, il primo ufficiale e lo zampolit[1] ovvero l’ufficiale politico che nell’Armata Rossa rappresentava il Partito Comunista e doveva controllare la “lealtà” dei comandanti militari. L’operazione Kama rientrava nella più grande operazione “Anadyr”, decisa da Chruščëv (in italiano traslitterato come Krusciov) in accordo con Castro e che prevedeva di installare missili balistici con testate nucleari sull’isola di Cuba. Il piano Anadyr è stato uno dei momenti più critici di tutta la guerra fredda, che tenne il mondo intero letteralmente col fiato sospeso per paura dello scoppio di una guerra termonucleare. Chruščëv aveva intuito che gli Stati Uniti stavano vincendo la guerra fredda e con il dispiegamento dei missili intercontinentali Minuteman e Titan si erano decisamente avvantaggiati in termini strategici. La rivoluzione di Fidel Castro e il tentativo americano di sovvertirlo nel 1961, con l’invasione della baia dei Porci, aveva fatto sì che l’URSS e Fidel Castro si avvicinassero a tal punto che nel giugno del 1962 concordarono di trasformare di fatto Cuba in una base militare sovietica a cielo aperto. Nonostante i camuffamenti, il 14 ottobre un U-2[2] americano fotografò le postazioni militari sovietiche installate a Cuba dando vita all’escalation di tensione.

San Cristobal

2 – Una delle fotografie scattate a Cuba tra ottobre e novembre del 1962 dai ricognitori americani Lockheed U-2, che confermavano la presenza di installazioni missilistiche sull’isola (John F. Kennedy Library).

USS Upshur, Guantanamo 1962

3 – Il personale civile della base americana di Guantanamo a Cuba viene evacuato a bordo della USS Upshur il 22 ottobre 1962, giorno della dichiarazione di Kennedy della “quarantena cubana”.

Il 22 ottobre il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy fece una dichiarazione straordinaria ai mass media in cui accusò l’URSS di disporre armamenti d’attacco a Cuba, ne condannò la manovra segreta, richiese che fossero portati via e dichiarò la “quarantena”[3]dell’isola, cioè il suo blocco navale. La situazione precipitò: entrambi gli schieramenti misero le proprie forze armate in stato di massima allerta e sia Chruščëv sia Kennedy dovettero affrontare il dilemma su quale fosse il passo successivo da compiere. Entrambi gli schieramenti avevano al loro interno i cosiddetti “falchi”, gli interventisti, che spingevano per sferrare il primo colpo e per quanto entrambi i leader non volessero davvero lo scoppio di un conflitto armato su vasta scala, la situazione era così tesa che il minimo incidente avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. I due schieramenti si minacciavano a vicenda, mostravano i muscoli ma entrambi temevano più di tutto che qualcosa potesse cambiare la situazione facendola andare fuori controllo.

Kennedy firma la "quarantena cubana"

4 – J.F. Kennedy sigla ufficialmente la “quarantena cubana” il 23 ottobre 1962.

I rischi infatti ci furono tutti[4] ed i più pericolosi si sono concentrati nella giornata del 27 ottobre. Chruščëv continuò infatti a scherzare con il fuoco: aveva già deciso dopo il discorso di Kennedy del 22 ottobre di ritirare i missili ma volle mantenere la pressione sul presidente americano. Nella notte del 27 ottobre Robert Kennedy, fratello del presidente americano, e Anatolij Dobrynin, ambasciatore sovietico negli USA, trovarono l’accordo sul ritiro dei missili da Cuba in cambio di due concessioni: gli USA avrebbero pubblicamente dichiarato di non intromettersi nelle vicende politiche cubane e segretamente avrebbero tolto i propri missili dalla Turchia. Nella giornata in cui Robert Kennedy e Dobrynin trovavano un accordo per uscire dalla crisi, la guerra rischiava di scoppiare.

U2

5 – Un ricognitore Lockheed U-2 della U.S. Air Force in volo.

Il 27 ottobre un U-2 pilotato dal capitano Rudolph Anderson venne abbattuto sui cieli sopra Cuba da un missile terra-aria sovietico costando la vita al pilota. Fidel Castro si assunse pubblicamente la responsabilità ma quando Chruščëv lo chiamò per rimproverarlo Castro gli disse: «il comando sovietico potrà fornirvi ulteriori notizie su ciò che è accaduto». Per quanto la contraerea cubana avesse in effetti aperto il fuoco ad abbattere l’aereo fu un’unità sovietica. Nessuno aveva autorizzato ad abbattere l’aereo americano ma il tenente generale Stepan Gretchko, comandante delle forze di difesa aerea sovietica a Cuba, vedendo i cubani sparare dedusse che la guerra era cominciata e fece fuoco a sua volta. Contemporaneamente un altro U-2 violava lo spazio aereo sovietico innescando il decollo di alcuni MIG per intercettarlo; il decollo dei MIG provocò a sua volta il decollo dei caccia F-102A dall’Alaska che, dato il livello di massima allerta, erano equipaggiati con missili “aria-aria” atomici ed i piloti erano autorizzati a usarli se lo avessero ritenuto necessario. Per fortuna gli aerei sovietici e americani mantennero la calma e l’allarme rientrò.

Raggio d'azione dei missili installati a Cuba durante la crisi del 1962.

6 – Una mappa utilizzata dalla CIA durante la crisi. Raffigura il raggio di azione dei missili sovietici installati a Cuba. L’anello da 1020 miglia nautiche si riferisce alla portata dei missili R-12 “Rackete” (noti agli americani come SS-4 “Sandal”) mentre quello più esterno da 2200 NM ai missili R-14 (SS-5 “Skean”).

Infine il rischio più grosso di innescare la guerra nucleare lo corse il B-59 con a bordo Vasilij Aleksandrovič Archipov. L’operazione Kama infatti stava proseguendo e i quattro sommergibili erano nei pressi della linea di interdizione decisa dagli USA. Fin dal 24 ottobre gli americani erano venuti a conoscenza dell’avvicinarsi dei sommergibili sovietici ma l’ordine dato da Kennedy fu perentorio: tenerli sotto continua pressione ma per nessun motivo le unità americane avrebbero dovuto aprire il fuoco per prime. Una volta rilevata la posizione si aprì la caccia al B-59 e sulle sue tracce si mise la USS Cony. Il cacciatorpediniere americano[5] attivò il sonar e iniziò a inviare i suoi “ping” sullo scafo sovietico: equivaleva a dire «vi abbiamo scoperto». Il nervosismo assalì l’equipaggio del B-59 e il capitano Valentin Grigorievitch Savitsky capì che la segretezza della missione era ormai saltata. Savitsky sapeva che il suo sommergibile, essendo a motore diesel, una volta localizzato non poteva far perdere le sue tracce in quanto necessitava periodicamente di un cambio d’aria attraverso uno snorkel, cioè una presa d’aria retrattile a pelo d’acqua, che ne avrebbe rivelato la posizione; nonostante ciò decise di non emergere e di continuare la navigazione. Il comandante del Cony optò quindi per alzare il livello di pressione: la nave iniziò a sganciare bombe di profondità ma con cariche d’addestramento, ovvero esplodevano senza arrecare danni. Fu una decisione davvero azzardata, in quanto rischiava d’innescare lo scontro a fuoco con il sommergibile sovietico. ll capitano Savitsky capì che non era ancora un attacco diretto ma la situazione a bordo del B-59 si faceva sempre più critica man mano che la scorta d’ossigeno si riduceva. Si arrivò al punto in cui l’anidride carbonica era ormai ai livelli di guardia, la temperatura a bordo raggiungeva i 45° Celsius e la velocità del sommergibile era ridotta al minimo. In queste condizioni di estremo stress Savitsky ipotizzò che l’azione del cacciatorpediniere era la dimostrazione che la guerra tra USA e URSS era in atto: diede pertanto l’ordine di puntare la prua verso il Cony e di armare il siluro nucleare. Savitsky tentò anche di contattare il Comando a Mosca ma senza successo, e questo aumentò la convinzione che la guerra fosse iniziata. Per lanciare il siluro nucleare però c’era un protocollo e Savitsky lo rispettò chiedendo l’opinione del comandante in seconda Archipov e dell’ufficiale politico Maslennikov. Lo zampolit Ivan Semonovich Maslennikov sostenne il comandante nel voler lanciare il siluro atomico: due voti su tre. Possiamo solo immaginare cosa stessero provando in quei momenti i membri dell’equipaggio del B-59, la tensione sarà stata così spessa da poter essere tagliata con una motosega. Mancava però il voto del primo ufficiale. Fu allora che Vasilij Aleksandrovič Archipov scosse la testa e disse niet: non c’era l’unanimità, il missile nucleare non poteva essere lanciato e al B-59 non restò che emergere in superficie. Dato che il numero identificativo del B-59 era stato raschiato, sempre per via della segretezza della missione, il Cony chiese ai sovietici di quale unità si trattasse e la risposta fu «nave X». La nave offrì inoltre assistenza al sottomarino, il capitano Savitsky rifiutò ma da questo capì definitivamente che non erano in guerra contro gli Stati Uniti.

B-59

7 – Il sottomarino “B59” costretto all’emersione dalla cacciatorpediniere USS Cony il 29 ottobre del 1962.

Vasili Arkhipov

8 – Vasilij Aleksandrovič Archipov negli anni ’80, ormai viceammiraglio.

Al ritorno a Murmansk gli equipaggi furono messi agli arresti per aver fallito l’operazione Kama. Vasilij Aleksandrovič Archipov continuò poi la sua carriera nella marina sovietica e morì nel 1999. La sua storia divenne pubblica solo nell’ottobre del 2002 durante una conferenza all’Havana in occasione dei quarant’anni della Crisi dei missili di Cuba: in quella occasione l’organizzatore, il professor Thomas Blanton,[6] lo definì l’uomo che aveva salvato il mondo.

Rileggendo gli eventi dell’Ottobre 1962 possiamo dire che per nostra fortuna il buonsenso alla fine prevalse impedendo agli eventi di prendere una brutta piega. Negli anni successivi si ebbero altri “finti allarmi” e vere tensioni ma nessuna toccò più il livello di guardia raggiunto con la crisi di Cuba. Archipov ci ha probabilmente risparmiato un finale della storia simile a quello del film Il dottor stranamore di Stanley Kubrick. A proposito di film: un “incidente” simile, ma con un finale differente, è descritto nel film del 1965 Stato d’Allarme (titolo originale: The Bedford Incident) di James B. Harris, tratto dal romanzo omonimo di Mark Rascovich del 1963; i fatti dell’anno precedente erano però coperti da segreto e la somiglianza è probabilmente dovuta ad una singolare coincidenza (bisogna considerare che in quel periodo vi era un quotidiano timore di una guerra nucleare incombente). Una vicenda molto simile è quella narrata nel film Allarme Rosso (titolo originale: Crimson Tide) del 1995: come nella realtà dei fatti di Cuba è il primo ufficiale ad opporsi al lancio di una testata nucleare, ma il sottomarino questa volta è americano. Secondo la Marvel -e per Hollywood- la crisi cubana fu invece risolta grazie all’intervento dei supereroi mutanti “X-men”, come raccontato nel film X-Men Le Origini (2009). Supereroi a parte, è a Vasilij Aleksandrovič Archipov che mandiamo invece il nostro più sentito spasibo (“grazie” in russo): Спасибо Василий!

Note

  1. [1]Zampolit: замполи́т, abbreviazione di замести́тель команди́ра по политрабо́те, “addetto del comandante sui lavori politici”.
  2. [2]Il Lockheed U-2 è un aereo statunitense da ricognizione ad alta quota equipaggiato con macchine video e fotocamere. Ad esso è ispirato il nome della famosa band musicale irlandese U2.
  3. [3](en) May, prof. Ernest R. “John F Kennedy and the Cuban Missile Crisis.” BBC News. BBC, 18 Nov 2013. Web.
  4. [4]Tra gli episodi più rischiosi ricordiamo anche che un missile della NASA lanciato da Cape Canaveral fu scambiato momentaneamente per un attacco missilistico sovietico proveniente da Cuba e un orso curioso nei pressi di una base aerea fu scambiato per una squadra di sabotatori allertando un F-106 armato di testate nucleari.
  5. [5]Classe “Fletcher”.
  6. [6]Direttore del National Security Archive presso la George Washington University in Washington, D.C.

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. Foto: © V. Lobanov, 2009 [CC-BY-3.0] da Commons.
  2. U.S. Department of Defense, San Cristobal (Cuba) 1 nov. 1962 [PD] National Archives and Records Administration #193933.
  3. 22-10-1962, Guantanamo [PD] da The Wire n°24 vol.9, 15-9-2008: p. 13
  4. Foto: Robert Leroy Knudsen, 23-10-1962. White House, Washington. [PD] National Archives and Records Administration #194218.
  5. Foto: Master Sgt. Rose Reynolds, Bale Airforce Base, California [PD] da Airman Magazine, 6/1996.
  6. C.I.A, 16 ottobre 1962 [PD] John F. Kennedy Library, via Commons.
  7. U.S.Navy 28/29-10-1962, mar dei Caraibi vicino a Cuba [PD] U.S. National Archives, Still Pictures Branch, Record Group 428, Item 428-N-711200.
  8. 1980-85 circa. Autore e licenza sconosciuta (fair use) da en.wikipedia.