B C D F G I L P R T V Z

azione intrapresa unicamente per saggiare le intenzioni o le reazioni di qualcuno o qualcosa; dal francese ballon d’essai, “pallone di prova”, che indica un piccolo pallone lanciato appunto prima di un aerostato per valutare la direzione del vento.

Un articolo della ‟Civiltà Cattolica” del febbraio 1914 […] apparve a molti come un ballon d’essai lanciato in vista di un documento pontificio destinato a rinfacciare al sindacalismo cristiano il suo crescente distaccarsi da quella ideologia sociale […] conforme alla ortodossia cattolica.

— Aubert, Roger “Democrazia Cristiana” in Enciclopedia del Novecento (Treccani 1977)

 

Vi sono poi due questioni che di tanto in tanto sono state avanzate, spesso come ballon d’essai per contrastare posizioni viste da alcuni paesi come contrarie ai proprio interessi.

— da Amendola, A. et al. Economia della globalizzazione (EGEA 2014)


Foto: Richard Bagan su Unsplash

tendenza a sminuire o deviare la discussione di un problema specifico e contingente mettendola pretestuosamente a confronto con argomentazioni più generiche e sostenendo la priorità di queste ultime rispetto all’argomento iniziale: deriva dall’espressione “ben altro”, rafforzativo di altro,  con il suffisso –ismo che evoca dottrine, atteggiamenti e comportamenti. Il termine benaltrismo è stato diffuso dal giornalista e scrittore Gianni Mura che ne fece ampio uso nella sua rubrica sportiva domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri” pubblicata dal 1976 sul quotidiano La Repubblica.

Ebbi contro i cosiddetti “benaltristi”, quelli che qualsiasi cosa tu voglia fare ti dicono “Ci vuole ben altro!”.

Corriere della Sera – Magazine 08/09/2005

Nel dibattito socio–politico la retorica benaltrista consiste nel sostenere ottusamente (o faziosamente) l’inutilità della soluzione di un determinato problema rinviandone la causa a un generico “ben altro”, ovvero che il problema in questione non sia altro che la conseguenza di una problematica più ampia su cui sarebbe quindi prioritario intervenire. Esistendo sempre, di fatto, un problema più importante o una soluzione più radicale, il benaltrismo sposta indefinitamente la discussione su argomenti sempre più generici e teorici (v. anche supercazzora) portando inevitabilmente all’inerzia e al “nulla di fatto” (→gattopardismo). In politica è anche un modo per sviare un discorso sgradito, o anche di ottenere maggiore consenso portando la discussione su argomenti qualunquisti e populisti, più sentiti dalla “pancia” del paese (→ggente), senza dover arrivare necessariamente ad una soluzione.


Immagine: succo/Pixabay.

(sostantivo e aggettivo) specialmente in politica, chi non prende una soluzione netta, che si destreggia tra due schieramenti cercando di non scontentare nessuno, che dà un «colpo al cerchio e uno alla botte»; democristiano, paraculo. In forma aggettivale indica una relazione con tale atteggiamento (es. «atteggiamento cerchiobottista», Repubblica 2017).

Deriva dalla fusione delle parole cerchio e botte, con il suffisso –ista che forma i nomen agentis della persona che svolge un’attività, segue un’ideologia o presenta determinate caratteristiche. A sua volta dall’espressione figurata «dare un colpo al cerchio ed uno alla botte», che significa accontentare un po’ l’una, un po’ l’altra parte in modo da non scontentare completamente nessuno. L’espressione è ispirata dal lavoro del bottaio, che per cerchiare le botti alterna i colpi di martello sul cerchio e sulle doghe.

Il termine fu coniato dal giornalista Giovanni Valentini in un articolo su la Repubblica del 2 marzo 1996 sulla nascita del cosiddetto “terzo polo televisivo” di Cecchi Gori:[1]

Non c’ è dubbio, comunque, che sulla testa di Cecchi Gori pende come una spada di Damocle un conflitto d’ interessi analogo a quello che noi abbiamo contestato fin dall’ inizio al Cavaliere e che ora riconoscono anche i teorici del ‘pensiero equidistante’ e perfino i ‘cerchiobottisti‘ di professione. [2]

«In pubblicistica» scrisse Battista in La Stampa il 7 luglio, «era passata l’idea che a coniare il neologismo ‘cerchiobottista’ sia stato Eugenio Scalfari», ex direttore di Repubblica.[3] Questa attribuzione dovette contrariare Valentini, che il 6 luglio successivo scrisse di nuovo su Repubblica un articolo in cui spiegava il significato di cerchiobottista, precisando che in realtà Scalfari aveca coniato «una definizione molto più colta e raffinata: “corifei del pensiero equidistante”».[4]

Da cerchiobottista derivò cerchiobottismo, formato con il suffisso –ismo che forma i nomi astratti collettivi di fazioni o correnti, che indica il comportamento del primo (secondo la classica relazione –ista / –ismo). Il termine cerchiobottismo, indicante l’atteggiamento del cerchiobottista, compare sempre su Repubblica il 5 maggio in un articolo di Curzio Maltesta:

Gli autori di estenuanti articolesse ed editoriali improntati al più puro cerchiobottismo doroteo. [5]

Il vocabolo diventò popolare nel lessico giornalistico dando origine ad una ondata di nuovi neologismi (del resto il XX fu il secolo degli –ismi) di carattere politico. In particolare, alla categoria dei cerchiobottisti fu contrapposta quella dei doppiopesisti (termine attribuito invece a Paolo Mieli[6]) costituita da coloro che applicano, rifacendosi ad un’altra comune espressione figurata, «due pesi e due misure» ossia si comportano in modo contraddittorio in circostanze analoghe.

L’ imparzialità, infatti, non ha nulla a che spartire con l’ equidistanza, con un colpo al polo e uno all’ ulivo, con i 2 più 2 o altre consociative alchimie, insomma con il cerchiobottismo, cui invano è stato contrapposto il doppiopesismo (che ne costituisce solo l’altra faccia).

Paolo Flores D’Arcais (direttore di MicroMega) in la Repubblica, 4/7/1996

Un’altra spinta di popolarità fu data a cerchiobottismo dal senatore Antonio di Pietro nel 1998, che così stigmatizzò il presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il cui comportamento era teso a mantenere una posizione equidistante dai due schieramenti principali, il Polo e l’Ulivo.

Variante meno comune è cerchiobottaio, formato con il suffisso –aio che solitamente forma i nomi d’agente relativa a mestieri ed attività (es. bottegaio), con accezione ancor più ironica e dispregiativa. Altra variante ancor meno comune è bottocerchista (nella quale le parole botte e cerchio sono invertite), utilizzato la prima volta per scherzo da Battista il 7 luglio 1996 su L’Unità, nella rubrica Il Parolaio[7] e poi sporadicamente usato.[8] Essendo il partito della Democrazia Cristiana, infine, noto per una politica spesso “cerchiobottista”, per estensione il termine democristiano (originariamente riferito all’appartenenza a tale partito) è entrato nell’uso corrente ad indicare, per estensione, chi non prende mai una posizione netta per non scontentare nessuno: in tal senso, può essere quindi considerato un sinonimo.


  1. [1]Durante gli anni 90 Cecchi Gori acquistò Videomusic e Telemontecarlo, formando un “terzo polo” televisivo generalista, nazionale e privato, in contrapposizione al duopolio RAI/Mediaset.
  2. [2]La Repubblica, 2/3/1996 op.cit.
  3. [3]Fu lo stesso Battista ad attribuire il conio di cerchiobottismo a Scalfari in occasione di una intervista a Liberal, in un suo articolo del 30/5 su La Stampa (op. cit.).
  4. [4]A tal proposito Battista notava anche che Valentini da una parte rivendicava la paternità del neologismo, dall’altra attribuiva a Scalfari quella di una «definizione molto più colta e raffinata», quasi a non voler scontentare l’ex direttore del periodico: questo comportamento faceva di lui stesso un “cerchiobottista” (cfr. )
  5. [5]La Repubblica, 16/5/1996 op.cit.
  6. [6]La Stampa, 30/5/1996 (op. cit.)
  7. [7]La Stampa, 7/7/1996 (op. cit. )
  8. [8]Dell’Anna, M.V. e P. Lala, “Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico nella seconda repubblica” Università degli Studi di Milano — Scienze Della Comunicazione.

Foto in alto: bottega di bottaio (tonnelier) al Village des Metiers d’Antan, Saint Quentin, France | foto: Jametlene Reskp/Unsplash

(femminile corifea) portabandiera, gonfaloniere; in senso figurato portavoce, leader (anche non ufficiale), esponente più noto o più attivo di una corrente, di un movimento o un partito:

…pensatore indipendente e non certo corifeo del potere…

S. Ronchey, La Repubblica, 17/3/2018

Nella seconda accezione, spesso usato in tono ironico o spregiativo:

…autoproclamati difensori della tradizione, di corifei dell’abbuffata, di cantori del “se magna tanto e se spenne poco”. 

A. Scuteri, La Repubblica/Sapori, 8/9/2020

Attestato in italiano dal XVI secolo, deriva dal latino coryphaeu(m), a sua volta dal greco koruphaîos (κορυϕαῖος), “capo del coro” dell’antico teatro — specialmente quello drammatico — a sua volta derivato di koruphḗ (κορυϕή), “cima”, “cocuzzolo”. In tedesco esiste l’equivalente Koryphäe.


  • Pianigiani, Ottorino “corifeoVocabolario Etimologico della Lingua Italiana, 1907. <etimo.it>
  • corifeo” in Vocabolario online. Treccani. Web.
  • corifeo” in Il Nuovo De Mauro. L’Internazionale. Web <internazionale.it>

Foto in alto: Antonio La Trippa (Totò) nel film Gli onorevoli del 1963.

divieto di accesso ad una manifestazione sportiva (daspo sportivo) o ad una determinata area di una città o ad una infrastruttura di trasporto (daspo urbano) per motivi di pubblico ordine e sicurezza, inteso come misura sanzionatoria o preventiva; per estensione divieto di avvicinamento a un luogo/persona o interdizione imposta da un’autorità.

Decreto sicurezza, multe e Daspo a chi abusa della movida

Corriere della Sera, 13 giugno 2016 

Il termine deriva dall’acronimo di “Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive”, misura introdotta con la legge 13 dicembre 1989 n. 401 (e successive modificazioni ed integrazioni) con la quale il questore vieta al soggetto ritenuto pericoloso di accedere, per un periodo di tempo stabilito, ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive. La normativa in materia di restrizioni al pubblico delle manifestazioni sportive fu concepita principalmente per le partite di calcio e adottata nel contesto della ratifica di una convenzione europea[1] sottoscritta a Strasburgo il 19 agosto del 1985 a seguito della strage dell’Heysel del 29 maggio 1985 nella quale morirono 39 persone e ne rimasero ferite oltre 600, avvenuta allo stadio Heysel di Bruxelles poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles.

daspo sportivo

Il termine daspo per indicare il divieto di accedere alle manifestazioni sportive ex Legge 401/89 comparve sulla stampa a metà degli anni ’90:[2]

…tutti e diciassette sono segnalati all’autorità giudiziaria, sei sono colpiti dal provvedimento Daspo che vieta l’accesso allo stadio.

C. Fusani, la Repubblica, 1 giugno 1995, pag. 44

daspo urbano

Quando fu introdotta, con il Decreto Legge 20 febbraio 2017 n°14[3] o “Decreto Minniti”, la misura dell’ordine di allontanamento e divieto di accesso ad un’area o infrastruttura, per analogia con il “daspo” sportivo tale provvedimento fu soprannominato “daspo urbano“.[4]

Qualche settimana fa, il sindaco Beppe Sala aveva accennato ai Daspo nei confronti dei nomadi che occupano alcune aree pubbliche.

la Repubblica, 23 luglio 2019

daspo per i corrotti

La cosidetta “Legge spazzacorrotti” ossia Legge 3 gennaio 2019 nº 3[5] adottava, come misura di contrasto alla corruzione, l’interdizione dai contratti con la pubblica amministrazione per i responsabili di reati contro la stessa. Tale misura, sempre per analogia con le precedenti, fu soprannominata “daspo per i corrotti

Il Daspo per i corrotti […] vieta in modo permanente a chi ha commesso un reato del ceppo della corruzione (anche peculato, corruzione in atti giudiziari, traffico di influenze, induzione a dare o promettere utilità) di contrattare con la pubblica amministrazione.

la Repubblica, 19 dicembre 2018

Fra i punti principali del ddl, il “daspo” per i corrotti e la possibilità di utilizzare anche per i reati contro la PA l’agente sotto copertura.

divieto di avvicinamento

Il termine “daspo”, da acronimo del “divieto di accedere alle manifestazioni sportive” quale era in origine, per estensione assunse il senso generico di “allontanamento”, “divieto” imposto da un’autorità, come ad esempio il c.d. foglio di via o il “divieto di avvicinamento” di cui all’art 282–ter del C.P.P:

Daspo” alla stalker, via da casa propria

la Repubblica, 12 aprile 2017

…l’adozione di misure cautelari come il divieto e l’obbligo di dimora in un determinato comune – e, più specificamente, il divieto di «avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» (una sorta di Daspo sui generis) – possono già oggi disporsi in via cautelare…

Avvenire.it, 10 ottobre 2017

altri usi

Per estensione, nel linguaggio comune il termine daspo può essere utilizzato in modo ironico e figurato per riferirsi ad una situazione di divieto o inopportunità a frequentare un determinato luogo o ambiente (ad es.  «c’ho il daspo alla coop», «c’ho il daspo universitario!»)

Un’ulteriore recente accezione, questa volta tutt’altro che ironica, è quella di “via!”, “fuori!”, ordine imperativo ad andarsene espresso dalle scritte «daspo» con le quali alcuni vandali xenofobi hanno imbrattato luoghi e insegne di negozi frequentati o gestiti da stranieri a Trento nel 2017.[6] Un messaggio che evoca in modo inquietante gli «Juden raus»[7] dei nazisti e dei loro emuli.


  1. [1]Dettagli del Trattato n°120 – Convenzione europea sulla violenza e i disordini degli spettatori durante le manifestazioni sportive, segnatamente nelle partite di calcio, Consiglio d’Europa, 1º novembre 1985.
  2. [2]Repubblica del 1° giugno 1995, p. 44, Sport (Claudia Fusani); cit. in Treccani, Vocabolario Online (op. cit.)
  3. [3]Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città
  4. [4]Ufficialmente “ordine di allontanamento”.
  5. [5]Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici
  6. [6]Trento, scritte “Daspo” contro alcuni negozi gestiti da stranieri” in Giornale Trentino. 31 lugli 2017. Web.
  7. [7]“Fuori gli ebrei!”, in tedesco.

IN ALTO: foto di Djordje Nikolic da Pixabay

(scritto anche dazebao o tazebao) manifesto politico, specialmente se scritto a mano, o grande scritta murale a carattere politico. Deriva dalla trascrizione del cinese 大字报 (pinyin: dàzibào) che significa letteralmente giornale a grandi caratteri e si riferisce ai giornali murali scritti a mano che in Cina, sin dai tempi dinastici, venivano affissi in apposite bachche pubbliche per permetterne a tutti la lettura. La massima diffusione dei dazebao a scopi politici si ebbe durante la Grande Rivoluzione Culturale di Mao Zedong del 1966, quando le scritte murali divennero «mezzo di pubblico dibattito, protesta, propaganda, critica e comunicazione popolare» (Lu Pan, 2015 op. cit.).

Cina, 2008: scritte murali che invocano la riforma della tassazione rurale a nord di Futu: sono i moderni dazibao.
(Commons/CC-BY-SA 3.0)

slogan scritti su una lavagna in una scuola

Italia, 1968: slogan scritti su una lavagna in una scuola occupata.

Il termine arrivò in Italia alla fine degli anni ’60, quando i manifesti cartacei scritti a mano divennero il mezzo più diretto e veloce per comunicare le ragioni delle proteste e le prese di posizione durante i movimenti del Sessantotto. Questi manifesti, chiamati tazebao per analogia con quelli della rivoluzione cinese, diventarono una efficace forma di comunicazione politica “diretta” e popolare, che si contrapponeva ai mezzi di comunicazione unilaterali della politica tradizionale.


I giornali murali appesi in bacheca, chiamati in tedesco Wandzeitung, furono popolari anche nelle fabbriche dell’ex Germania Est come mezzo di comunicazione e propaganda.

dazibao o tazebao?

La grafia oggi ritenuta più corretta e universalmente utilizzata dazibao, dalla trascrizione secondo il metodo pinyn (dàzibào) che dal 1982 è lo standard internazionale ISO per la trascrizione del cinese oggi adottato ufficialmente anche nella Repubblica Popolare Cinese,  Singapore e Taiwan. Questa grafia era già attestata però, in Italia, dagli anni ’70:

 …sulla scia dell’onda di «dazibao», alcuni dei quali sembrano mettere in dubbio la «legalità della risoluzione»…

da Nazione 28 novembre 1978[1]

Tuttavia, soprattutto prima dell’introduzione del pinyin, il termine si presenta in varie grafie a seconda dell’adattamento fonetico:

  • dazebao: (attestato dal 1969) trascrizione comune in italiano, riportata nel 1986 dal Dizionario di parole nuove 1964 – 1984 di Cortelazzo e Cardinale (op. cit.) come «grafia più recente», dal Collins Italian Dictionary del 1995  e online da Treccani,  De Mauro,  Sabatini–Coletti. 

 Abbiamo fatto una grande propaganda per far conoscere i dazebao di Shanghai, Nanchino e Lanchow e incoraggiati da questi dazebao abbiamo scritto i nostri.

da Vento dell’Est (rivista), Anno VIII, Novembre 1973, pag. 27.

  • tazebao: fu la grafia più comune in Italia durante la contestazione del Sessantotto (1968), prima quindi che venisse adottato il pinyn come standard internazionale.

…il tazebao è la negazione del modo tradizionale di fare politica con grandi mezzi, ma contro o senza le masse. I tazebao sono canali costanti di dibattito e vivono della vita di un movimento rivoluzionario di massa

da Almanacco Bompiani 1973[1]

 …il ’68 vide nascere nuove forme di comunicazione politica: non solo il comizio (o il discorso parlamentare) ma anche il volantino, il tazebao (o dazebao: parola cinese che indicava il ‘manifesto murale’) e soprattutto lo slogan, in cui a lungo si esercità la “fantasia al potere”…

da AA.VV. I linguaggi del ’68, FrancoAngeli 2009

  • tatsebao: altra grafia utilizzata per lo più dalla stampa negli anni ’70:

I segni più evidenti di questo malessere non consistono tanto nelle roboanti frasi dei Tatsebao quanto piuttosto in alcuni cifrati editoriali che compaiono in certe occasioni sulla stampa di Pechino.

da L’Espresso, 1974.

  • tatzebao o tatze-bao: altra grafia utilizzata in italiano, riportata da Cortelazzo e Cardinale (1986, op. cit.) e online da De Mauro  e Treccani  come variante «meno corretta» di dazebao.

 ecco i tatze-bao che non solo tappezzano le pareti esterne delle università occupate, ma spesso appaiono sulle mura cittadine

da Almanacco Bombiani 1971, pag. 47[1]

 Affisso come tatze-bao all’università…

da AA.VV. Care Compagne Cari Compagni. Lettere a Lotta Continua, pag. 295 (1978)[1]

 È soprattutto il linguaggio usato nelle riviste, nei tatze-bao o nelle trasmissioni delle radio libere quello che colpisce gli osservatori esterni.

da Grispigni, Marco Il Settantasette: un manuale per capire, un saggio per riflettere Il Saggiatore, 1997

  • tatzepao: grafia utilizzata in inglese, probabilmente dalla trascrizione Wade–Giles (v. →ta-tzu-pao):

 We bought three big pieces of yellow paper, made the statement into a tatzepao entitled “My Determination” and I took it to the Academy.

da Life magazine, vol. 62, nº 22, 2 giugno 1967, pag. 33

  • ta-tzu-pao: dalla trascrizione Wade–Giles (ta4-tzu4-pao4), in uso nei paesi anglofoni prima dell’introduzione del pinyn, variante utilizzata in inglese e in tedesco (dizionario Pons ):

Ma and the others spent much of their time writing repeated self-examination essays dealing with the charges made against them in the ta-tzu-pao.

da King Whyte, Martin Small Groups and Political Rituals in China, University of California Press, 1974

L’uso in italiano della grafia ta-tzu-pao, di probabile provenienza anglofona, è riportato da Cortelazzo–Cardinale (1986) come «variante grafica occidentale» e dal dizionario online Olivetti  come «variante grafica meno comune»:

 Sui muri degli edifici appaiono i primi ta-tzu-pao

da Enciclopedia Italiana, 1978[1]

La grafia più comune è comunque dazibao, come si evince anche dai risultati delle ricerche su Google:

  1. dazibao: c.a 264.000  risultati
  2. dazebao: c.a 79.000 risultati
  3. tazebao: c.a 46.900 risultati
  4. tatzebao: c.a 7.860 risultati
  5. tatzepao: c.a 1.200 risultati
  6. ta–tzu–pao: c.a 1.000 risultati

Risultati delle ricerche su Google a gennaio 2017

Ulteriore conferma si ottiene da Google Trends, che conferma che la grafia dazibao sia quella che registra il maggior numero di ricerche su internet:

Grafico dei volumi di ricerca dei termini dazibao, dazebao e tazebao su Google

Confronto tra i volumi di ricerca nel 2016:  dazibao  dazebao  tazebao

Fonte: Google Trends

IN ALTO: attivisti cinesi preparano dazibao di propaganda, 1957 (Commons).


  1. [1]riportato da Cortelazzo–Cardinale (op. cit.)

scritto anche “debacle”; (s.f) “disgelo”; (fig.) “umiliante sconfitta” (es. «La debacle del Movimento 5 Stelle, i grillini mai così in basso» TPI News, 27/5/2019); impropriamente anche “dibattito”. Deriva dal francese débâcle (derivato di débâcler, “sbloccare”, “sgelare”, a sua volta contrario di bâcler, “fermare”) originariamente (XV secolo) con il significato di “liberazione di un porto dai battelli che lo ostruiscono”, poi (1690) con quello di “scioglimento”, riferito al disfacimento di lastroni di ghiaccio su laghi o fiumi e al conseguente flusso di piena o alluvione:

…entendez-vous ce craquement profond et formidable? C’est la débâcle! c’est la Néva qui s’écroule! c’est le fleuve qui reprend son cours! c’est l’eau vivante, joyeuse et terrible qui soulève la glace hideuse et morte et qui la brise!
… senti questo profondo e formidabile scricchiolio? È la débâcle! è la Neva che crolla! è il fiume che riprende il suo corso! è l’acqua viva, gioiosa e terribile che solleva il ghiaccio orribile e morto e lo spezza!


Victor Hugo, Napoleone il piccolo (1852)

Nel significato letterale, geologico, il termine viene mutuato dalla lingua inglese (nella grafìa debacle) dal 1802, mentre è registrato (tra le voci francesi, però) dal dizionario francese–italiano di Annibale Antonini già dal 1752 come «il disciorsi, che si fa del ghiaccio nei fiumi».[1]

Dal XIX assume anche il significato figurato di rivoluzione (citato nel Dictionnaire universel de la langue françoise di Boiste, 1803), con probabile richiamo all’immagine della dirompenza della piena dopo il disgelo; dal 1840 c.a anche quello, sempre figurato, di “disfatta”, “totale sconfitta” e infine, dal 1920, anche di “diarrea” (con evidente, ironico riferimento all’onda di piena).

battaglia di Sedan

Soldati bavaresi si scontrano con la fanteria di marina francese nel villaggio di Bazeilles, durante la battaglia di Sedan del 2 settembre 1870 (Richard Knötel, 1900).

Il significato più diffuso è quello di “sconfitta”, alla cui affermazione anche al di fuori dell’ambiente francofono contribuì il romanzo di Émile Zola, La débâcle (La disfatta) pubblicato nel 1891, che racconta della schiacciante disfatta francese da parte delle forze germaniche nella battaglia di Sedan del 1870 durante la guerra franco–prussiana.

In italiano, nel linguaggio corrente e giornalistico, ha assunto anche il significato improprio di “dibattimento”, “disputa”, querelle, probabilmente solo per somiglianza con la parola “dibattito” (es: «Continua la débâcle tra il Ministro dell’Interno e il regista siciliano…» Popcorntv, 18/8/2018 ); uso che si riscontra però anche in spagnolo («… esto fue lo que desencadenó la debacle entre ellos»[2])

La Débâcle di Émile Zola



Grafia

Sebbene la grafia corretta in francese sia débâcle, in italiano viene spesso scritto débacle per mancanza dell’accento circonflesso nell’alfabeto, o addirittura debacle. Quest’ultima grafia è quella utilizzata in inglese, lingua il cui alfabeto non prevede segni diacritici se non nei prestiti linguistici.

embâcle e debâcle

Nel lessico geologico il contrario di débâcle è embâcle, che si riferisce appunto alla formazione del ghiaccio il cui successivo scioglimento darà luogo ad una débâcle:

…dopo un breve accenno all’andamento delle temperature nell’inverno del 1929 e delle circostanze idrauliche e idrologiche del Po e dei suoi affluenti, studia il formarsi del ghiaccio nel fiume, illustrando il fenomeno della débâcle e della embacle e le alterazioni da queste apportate al regime.

da Bollettino della Reale Società geografica italiana, 1932.


  1. [1]Antonini, Annibale. Dictionnaire françois, latin & italien Venezia, 1752. Tomo II, pag. 169.
  2. [2]da La otra mitad del códice di Juan Octavio Schietekat Ballesteros, 1996. Pag. 53.

In alto: Múlaþing, Norvegia. Foto di Bernd Dittrich / Unsplash

ordine autoritario e indiscutibile, editto bulgaro, condizione non negoziabile imposta da una autorità superiore o dal vincitore di un conflitto alla parte soccombente.
Sopra: seduta del “Soviet Supremo” a Mosca nel 1974.

Dictatus Papae

Il Dictatus Papae del 1075.

Deriva dal tedesco Diktat, propriamente “dettato” (che infatti significa anche precetto, norma[1]), a sua volta dal latino dictatus, participio passato di dictare, “prescrivere”: il Dictatus Papae fu infatti un documento redatto nel 1075 circa dal papa Gregorio VIII, nel quale si enunciavano unilateralmente i poteri attribuiti al Pontefice e si rivendicava la superiorità dell’istituto pontificio su tutti i sovrani laici, imperatore incluso. Nel XIX secolo fu utilizzato il termine Diktat in riferimento alla “Pace di Tilsit” del 1807, siglata da Napoleone con lo zar Alessandro I di Russia (7 luglio) con il re Federico Guglielmo III di Prussia (9 luglio):


August 1807 auch die Geburt des neuen Königreichs W.[2] vollbracht. Denn durch den für den Imperator so glücklichen Frieden zu Tilsit war der Sieger von Jena nicht bloß zum Herrn aller preußischen Staaten bis zur Elbe gemacht worden, sondern er war auch in den Vollbesitz der Länder der Kurfürsten von Hessen und Hannover und des Herzogs von Braunschweig gelangt, die er sich durch das Glück seiner Waffen erobert hatte und deren Regenten flüchtig geworden waren. […] Es folgte sogleich Dekret auf Decret, denen daö kaiserliche Diktat abzumerken war…
Nell’agosto del 1807 anche la nascita del nuovo regno di Vestfalia[2] era compiuta. Per la pace a Tilsit, che fu così fortunata per l’Imperatore, non solo il vincitore di Jena fu nominato signore di tutti gli stati prussiani fino all’Elba, ma era anche in possesso delle terre degli Elettori di Hesse e di Hannover e del Duca di Brunswick, che aveva conquistato con la fortuna delle sue armi e i cui reggenti erano diventati fugaci. […] Immediatamente seguì decreto su decreto, da cui si doveva notare il diktat imperiale…


da Staats- und Gesellschafts-Lexikon. Berlino, 1866.
Pace di Tilsit, 7 luglio 1807

Pace di Tilsit: il 7 luglio 1807 Napoleone riceve lo Zar Alessandro I su un pontone galleggiante firmato su un pontone galleggiante nel mezzo del fiume Nemunas, che segnava la linea di demarcazione tra le zone di influenza francese e russa (dipinto di Adolphe Rohen, 1807).

La pace di Tilsit impose infatti dure condizioni alla Prussia, la quale dovette rinunciare ad ampie porzioni del proprio territorio a favore del Regno di Vestfalia e al Ducato di Varsavia, neocostituiti stati–vassallo di Napoleone; cedere Cottbus alla Sassonia e Białystok all Russia, aderire al “blocco continentale” ossia una sorta di embargo imposto dalla Francia alle navi britanniche in tutti i porti di influenza francese; limitare l’organico del proprio esercito.

Alla fine della prima guerra mondiale, nella Germania sconfitta, furono definiti “Diktat” i trattati di Versailles e di Saint-Germain-en-Laye del 1919 che imposero le condizioni della pace e il pagamento delle riparazioni senza possibilità di negoziazione. Il giornale francese Temps, in un articolo del 1919 sula pace di Versailles parlò di «paix de justice dictée», il che potrebbe aver suggerito il termine Diktat, che però — come abbiamo visto — era già in uso in tedesco già dal XIX secolo.
Le delegazioni riunite a Versailles, 1919

Le delegazioni riunite a Versailles, 1919


La parola diktat fu poi utilizzata anche dalla stampa straniera, dapprima in riferimento alle condizioni umilianti imposte dai trattati di pace alla Germania, ma anche ad altri paesi visto che le condizioni non soddisfarono appieno nessuna delle parti firmatarie (in Italia si parlò di “vittoria mutilata”, espressione coniata da Gabriele d’Annunzio); in seguito in senso generico per indicare una imposizione vessatoria imposta unilateralmente sul modello di Versailles. Il termine diktat è attestato dal 1933 in inglese (Douglas Harper, op. cit.) e dal 1936 in francese (Ortolang, op. cit.).

Nel linguaggio giornalistico italiano entrò definitivamente alla fine della seconda guerra mondiale, dove per lo stesso motivo fu definito diktat il trattato imposto dai vincitori all’Italia sconfitta, fissandone definitamente l’accezione negativa:

Pagheremo 100 milioni di dollari alla Russia con: macchinari, navi, beni italiani all’estero e consegna di merci fra tre anni. […] Le decisioni dei quattro frattanto suscitano commenti non sempre benevoli per gli uomini che si sono assunti la responsabilità del «diktat» nei confronti dell’Italia.

“Il 29 luglio, conferenza della pace”. in La Stampa, 5 luglio 1946.

L’uso della parola diktat si diffuse ulteriormente in italiano durante i successivi anni della guerra fredda, per definire i rigidi ordini imposti dal Politburo di Mosca ai paesi satelliti dell’Unione Sovietica:

Tito risponde “no„ al diktat di Mosca

Corriere d’Informazione, 12 maggio 1958. Pag. 1.

Diktat nei titoli del "Corriere d'Informazione" in relazione ai fatti della Primavera di Praga (1968)

La parola “Diktat” nei titoli del Corriere d’Informazione del 1968 in relazione ai fatti della Primavera di Praga: «Mosca: stasera il diktat?» (26 agosto); «Il diktat di Mosca a Praga» (18 luglio); «DIKTAT!» A PRAGA: «Non ce ne andiamo!» (5 ottobre).

Il termine diktat è tuttora utilizzato dalla stampa nei campi più disparati, che vanno dall’economia («Banche: no al diktat sul costo del denaro» Corriere dell’economia e della finanza, 15 maggio 1977) allo sport («Napoli–Genoa il diktat di Sarri» Corriere della Sera, 10 febbraio 2017) con il significato di “ordine perentorio”, “condizione non negoziabile” che presuppone un aut aut, sempre con connotazione negativa.

  Il diktat leghista contro la biblioteca

 in Repubblica, 7/4/2019

 


  1. [1]dettato” in Vocabolario online. Treccani. Web.
  2. [2]Königreich Westphalen (regno di Vestfalia).