Plutone (foto NASA)

Se chiediamo ad un gruppo di bambini di disegnare un pianeta, statisticamente la maggioranza disegnerà Marte. Qualcuno si cimenterà con la Terra, un minimo gruppo magari con Saturno che per via dei suoi anelli ha un fascino grafico tutto suo. Marte rimane comunque il preferito. Già il nome è forte, evoca il dio della guerra, è rosso. Sarà protagonista della prossima conquista, la nostra generazione assisterà ad un uomo (o una donna) che, posando piede sulla superficie vermiglia, come un novello/a Armstrong dirà una frase che entrerà nella storia. Marte è forte, Venere bellissima, Giove evocativo. Tutti i pianeti li associamo alle divinità da cui prendono il nome e in un ipotetico quanto infantile gioco tutti cercherebbero di accaparrarsi i migliori. O almeno, i più famosi. Ammetto che Marte era ed è ancora il mio preferito.


Eppure crescendo, se dovessi scegliere un pianeta oggi, sarei Plutone. Ma perché probabilmente Plutone è quello più “umano” in mezzo ai colossi del sistema solare. Un po’ malinconico, se ne sta nella Fascia di Kuiper lontano dal Sole a tal punto da non essere stato visto subito. Esisteva, ma per il principio per cui se non vedo o sento qualcosa allora non è reale, era come se non esistesse. Non è solo, è senz’altro in buona compagnia: Caronte, Notte, Idra, Cerbero e Stige sono i suoi satelliti e potrebbero essere esatta metafora di come anche noi nella vita, per quanto interconnessi con il mondo, alla fine ci leghiamo davvero solo ad un massimo di cinque persone. Non avranno nomi epici e danteschi come i suoi, ma d’altronde immagino che prendersi una birra con Caronte sarebbe piuttosto insolito.


Plutone è di ghiaccio e roccia, eppure le sue cromie sono bellissime perché non omogenee. Nero come l’ebano, arancione come il tramonto, bianco come la neve. Con una regione a forma di cuore (che bella la pareidolia) che forse è lì a ricordare che per quanto tu possa essere freddo e duro, hai anche tu un cuore. E poi ha una regione a forma di balena, ma questa è epica già solo per il nome: Cthulhu Macula. Soprattutto Plutone, con la lunga disputa sul se sia o meno un pianeta, ci ricorda che anche noi viviamo in un mondo che ci mette a confronto. E non ne usciamo sempre vincenti. Soprattutto nell’era social in cui basta un click per scoprire qualcuno di più bello, più intelligente, più simpatico. Plutone è stato definito troppo piccolo, troppo lontano, un pianeta nano, un oggetto nella Fascia di Kuiper: «Guarda Marte quant’è bello! Dovresti essere come lui!» Però Plutone, è bello anche così, e sarebbe probabilmente meno speciale se fosse più simile agli altri: in un mondo di Marte e Venere, sii Plutone.

Immagine: foto di Plutone ricreata dalle immagini scattate dalla fotocamera LORRI e da Ralph della sonda New Horizon.

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Benedetta Melappioni

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Classe 1994, cresce a libri e videogiochi. Archeologia, Lego®, spazio, softair, modellismo, Star Wars™ sono solo alcune delle passioni che la rendono una gran brutta persona. È solita rintanarsi nel mondo immaginario che ha creato e che forse un giorno uscirà dalle pagine word che gelosamente lo custodiscono; nel frattempo quando non è in giro, beve una birra al pub locale assieme a Murray, il suo amico scheletro Playmobil®.

La “festa della donna” nacque negli USA nel 1909 ma non ha nulla a che vedere con la macabra storia dell’incendio di una fabbrica come si sente raccontare ogni anno in occasione di questa ricorrenza. Il 3 maggio del 1908 la socialista Corinne Brown presiedette infatti la conferenza domenicale del Partito socialista di Chicago nel Garrick Theater. Quella giornata, cui parteciparono moltissime donne, fu chiamato “Women’s Day”. Visto il successo dell’evento, alla fine dell’anno il Partito socialista americano raccomandò a tutte le sezioni locali di riservare l’ultima domenica di febbraio 1909 ad una manifestazione in favore del diritto di voto alle donne (women’s suffrage): fu così che la prima “giornata della donna” si tenne il 23 febbraio di quell’anno negli Stati Uniti. Da allora, questa data fu fissata appunto il 23 febbraio di ogni anno – non l’8 marzo – e divenne a poco a poco internazionale. Nel 1913 arrivò anche in Russia per iniziativa del partito bolscevico e fu qui che slittò all’8 marzo, data oggi conosciuta, per una “confusione” di calendari: era il 23 febbraio del 1917, proprio nella giornata internazionale della donna, quando a San Pietroburgo si tenne una grande manifestazione delle donne che invocavano la fine della prima guerra mondiale (foto). I cosacchi tentarono con scarso successo di reprimere la manifestazione, scatenando per reazione una serie di sollevazioni popolari con l’appoggio delle forze armate, che portarono al crollo dello zarismo. Quella giornata della donna del 23 febbraio 1917 fu così associata all’inizio della rivoluzione russa, ma in Russia vigeva il calendario giuliano, per cui il loro 23 febbraio coincideva con l’8 marzo del calendario gregoriano in vigore nel mondo occidentale: ecco perché questa data divenne così celebre. La celebrazione dell’8 marzo nacque quindi come una festa antifascista ante litteram e non come la commemorazione di una tragedia come vorrebbe la leggenda. Infatti, l’associazione di questa data con l’incendio di una fabbrica nella quale morirono solo donne operaie, addirittura – secondo alcune versioni della leggenda – appiccato da un padrone caifasso e maschilista mentre le stesse protestavano per i propri diritti, è un falso storico: probabilmente negli anni si fece confusione con il disastroso incendio (realmente avvenuto) della fabbrica Triangle Shirtwaist Factory di New York del 25 marzo 1911 nel quale morirono 123 donne e 23 uomini, ma che non ha nulla a che vedere con la storia della ricorrenza e di cui fu oltretutto esclusa l’origine dolosa. Nella narrazione femminista, la storia della fabbrica bruciata divenne un tearjerker propagandistico di sicuro effetto che, ripetuto ogni anno nelle assemblee, finì per fissarsi nell’immaginario collettivo. Anche i vari significati simbolici che legano la mimosa all’8 marzo sono inventati ex post: questa tradizione nacque in Italia nel 1946 da una proposta delle deputate comuniste Teresa Noce, Lidia Montagna e Teresa Mattei, che scelsero la mimosa semplicemente perché fiorisce tra febbraio e marzo e perché, essendo poco costosa, era adatta a tutte le estrazioni sociali. 

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Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Adelaide, 1923: dopo la chiusura dei bar.

Adelaide (Australia), 1923: poco dopo la chiusura dei pub.

Se oggi le grandi città australiane possono vantare una nightlife piuttosto movimentata, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale passeggiare per Sidney, Melbourne o Adelaide dopo le 18:00 poteva essere un’esperienza desolante: da quell’ora tutti i bar erano chiusi ex lege, il sole era ancora alto ma le strade deserte e silenziose.

I Movimenti per la Temperanza erano gruppi politico/religiosi cristiani integralisti, puritani e moralisti che propagandavano l’astinenza dall’alcol come soluzione ai problemi di salute, sociali e ad un presunto degrado morale del Paese. Non si limitavano però a non bere: volevano imporre a tutti l’astinenza facendo pressione perché si adottassero leggi proibizioniste. Esistevano in diversi paesi, dal Regno Unito agli USA (dove divennero un partito politico) alla Svizzera (la cosiddetta “Croce Blu”) e anche in Australia e Nuova Zelanda. Qui esistevano dal XIX secolo, ma furono quasi inascoltati fino a quando l’inizio della prima guerra mondiale (1914) e la conseguente “austerity” non diedero loro una chance di fare leva sul sentimento patriottico: sostenendo che il consumo di alcol danneggiava l’economia di guerra e corrompeva il fisico dei “giovani soldati”, nel 1916 riuscirono a far passare tramite referendum una legge proibizionista.

Non era però un proibizionismo totale all’americana, ma una limitazione dell’orario di apertura dei pub alle ore 18:00. Il che ebbe come conseguenza lo svuotamento totale delle strade delle città il tardo pomeriggio e la sera (foto). Come il proibizionismo americano introdotto nel 1919 ebbe conseguenze più gravi dello stesso alcol alimentando contrabbando e criminalità organizzata, anche quello australiano ebbe un effetto opposto a quello auspicato dai promotori. Il consumo di alcol, infatti, anziché diminuire aumentò in breve tempo del 40% a causa del cosiddetto binge drinking.

1941: avventori del bar del Petty’s Hotel di Sydney durante la “Six o’clock swil”.



La gente, infatti, si recava al pub alle 17:00 appena dopo il lavoro e beveva più che poteva sapendo di dover “fare il pieno” anche per la sera. Questo fenomeno diventò noto come “the Six o’ clock swill”, la “sbobba della sei” (la sbobba è una brodaglia dall’aspetto disgustoso) perché in quell’ora d’oro i pub diventavano simili a «trogoli per i maiali». Racconta Caddie Edmonds, scrittrice e barista di Sidney, nella propria autobiografia Caddie, A Sydney Barmaid (1953):

Fu uno spettacolo rivoltante e impiegai molto tempo ad abituarmi. L’odore di liquore, l’odore del corpo umano, l’odore caldo del vino; un uomo, piuttosto che rinunciare al suo posto al bancone, urinava contro il bar…

Copertina della Prima edizione di Caddie, a Sydney barmaid (1953) di Caddie Edmonds.



Infine, all’orario di chiusura gli avventori si riversavano in strada barcollando come zombie o si accasciavano sui marciapiedi sotto il sole pomeridiano. Mentre il proibizionismo americano terminò nel ’33, quello australiano-neozelandese durò quasi 50 anni. Il supporto dell’opinione pubblica ai puritani però, andava dissolvendosi: già nel 1937 la Tasmania prolungò l’orario alle 22:00 e ne avvertì immediatamente i benefici. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947, il nuovo Galles del Sud rimosse l’obbligo di chiusura, nel 1961 si concesse ai ristoranti (ma non ai bar) di servire liquori fino a mezzanotte, ma si dovette arrivare al 1966-67 perché gli altri stati australiani e la Nuova Zelanda abbandonassero definitivamente il proibizionismo. Ma alla fine, ciò che fu evidente anche in America, fu che la legge che pretendeva di combattere il degrado non aveva fatto altro che crearlo.

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Quanti sono i colori LEGO? Come ogni set ed ogni singolo mattoncino, inclusi quelli “speciali”, ogni colore disponibile è identificato da un codice identificativo univoco. Stiamo parlando naturalmente dei moulding colors (colori di stampaggio), i colori propri dei mattoncini ottenuti colorando la plastica con cui il mattoncino viene formato; al netto quindi degli eventuali pattern, ossia le serigrafie applicate su molti pezzi speciali (i cosiddetti decorated), o degli sticker, ossia gli adesivi, per i quali non esiste virtualmente un limite alla varietà di colori.


mattoncino lego 2x1 con stampa "spazio"

Differenza tra moulding color e pattern, su un classico mattoncino Lego 2×1 (3004): in questo caso abbiamo il colore di stampaggio (moulding color) che è il blu, mentre la serigrafia riproduce il classico logo della serie “spazio”. Questo mattoncino, codice 3004p90, fu prodotto dal 1979 al 1987 ed utilizzato in 20 set.



 

Lego palette 2016

La palette ufficiale Lego rilasciata nel 2016 riporta solo 43 colori solid e 14 trasparenti.

Tra gli appassionati, detti AFOL (Adult Fans Of Lego), ci sono alcuni collezionisti specializzati che perseguono la difficile missione di possedere almeno un pezzo rappresentativo per ogni colore e completare così la tavolozza. Ma la storia dei colori lego è una jungla nella quale non è facile districarsi. La palette ufficiale rilasciata dall’azienda ammonta a 57 colori, dei quali 14 trasparenti e 4 speciali (oro, argento, titanio metallizzato e bianco luminescente), ma è ampiamente incompleta dato che si stima siano stati prodotti almeno un centinaio di colori solid e una trentina di trasparenti, oltre ai numerosi colori speciali. A partire degli anni duemila ne furono introdotti molti nuovi: tra i colori più recenti abbiamo il verde sabbia 151, introdotto nel 2000 per la Statua della Libertà (set 3450), il verde oliva 330, introdotto nel 2011 con la serie “Cars” (dal film Disney) e utilizzato poi nelle serie “Dino” e “Movie 2” a partire dal 2012; infine il “vibrant coral” (353) del 2019, comparso la prima volta con il “party bus” della serie “Movie 2”.[1]

statue of liberty 3450

Con la “Statua della Libertà” del 2000 (set 3450) fu introdotto un colore ad hoc: il verde sabbia 151.

pezzi Lego "vibrant coral"

Il “vibrant coral” 353 comparso per la prima volta nel “party bus pop-up” (set 70828) della serie “Movie 2”, 2019.



Poi ci sono i mattoncini Modulex, una serie degli anni ’70 ottimizzata per il modellismo architettonico che gode di una cartella colori a sé stante. Le tinte moulding inoltre sono cambiate nel tempo: alcuni colori furono abbandonati, sostituiti, o modificati. Ad esempio i classici grigi medio (nº 2) e scuro (nº 27), rispettivamente del ’54 e del ’61, furono sostituiti nel 2003 rispettivamente dal “medium stone grey” 194 e dal “dark stone gray” 199, molto simili ma virati verso il blu: questi nuovi grigi leggermente bluastri sono chiamati dai collezionisti “bley“, fusione di blue e gray. Anche il giallo originale nº 3 fu gradualmente abbandonato e sostituito dal “cool yellow” nº 226 a partire dal 2003. Ad aumentare la confusione, alcuni colori sono cambiati mantenendo però il codice e la denominazione: il “new dark red” 154 fu modificato intorno al 2011 e anche il rosso trasparente nº 41 a un certo punto è stato leggermente schiarito, così come l’arancione trasparente nº 182 presenta una grande variabilità. Dulcis in fundo, non sembra facile nemmeno identificarli univocamente: alcuni siti specializzati (ad esempio Bricklink) utilizzano codici e denominazioni differenti da quelle ufficiali[2] e inoltre, come osserva il prof. C. Bartneck dell’Università di Canterbury (Nuova Zelanda),[3] non esiste una corrispondenza univoca con i sistemi RGB, CYMK o Pantone: le stesse palette ufficiali rilasciate nel 2010 e nel 2016 mostrano tonalità leggermente diverse per lo stesso colore. Ad esempio, il “brick yellow” nº 5 è rappresentato nel 2010 con il colore RGB (217, 187, 123) mentre lo stesso è riprodotto nel 2016 come RGB (221, 196, 142),[3] siti indipendenti riportano codici ancora differenti. Ma, in tutto questo, l’azienda sembra non essere mai venuta in aiuto degli appassionati nel fare chiarezza sulla questione cromatica.

Trasparenti e speciali

La gamma dei colori include una serie di colori trasparenti, piuttosto comuni, che accompagnano i solid sin dagli albori e che venivano utilizzati per riprodurre parti vetrate e le luci dei veicoli. Esistono poi i colori speciali, in gran parte introdotti a partire dagli anni duemila e creati per le esigenze specifiche di alcuni set: abbiamo colori metallici, perlacei, fluorescenti (aka glow-in-the-dark), i “lattiginosi” (milky), trasparenti-glitterati e i cosiddetti speckle (lett. “macchiolina”) ossia composti da due colori, uno dei quali è diffuso in piccoli puntini all’interno dell’altro con un effetto “granito”. Ci sono poi pezzi composti da parti di colore diverso inscindibili tra loro: sono i “multicombination” e sembra esistere un codice anche per loro, il nº 30. Caso particolare sono i cosiddetti marbled, ossia “marmorizzati”. Non si tratta di un colore codificato, ma mattoncini (talvolta di test) fatti nei primi anni ’50 con gli avanzi dei pellet di plastica di altri stampaggi: i colori così mischiati formavano sfumature e strisce del tutto casuali, cosicché ogni mattoncino così ottenuto era unico.[4] Questi venivano venduti sfusi nei rivenditori in Danimarca come “seconda scelta”, ma oggi – che questa pratica è stata abbandonata ormai da tempo – sono ricercatissimi dai collezionisti e possono raggiungere quotazioni molto alte.[5]

30293 speckle black silver

Un esempio di “speckle”: il “cool silver” (nero-argento) 304 su un mattoncino 30293.

marbled

Mattoncini “marbled” (anni ’50-’70).



trasparente

Trasparente neutro 40

warm gold 297

“Oro caldo” 297, aka “oro perlaceo”.

glitter transparent pink

“Rosa trasparente-glitter” 114.



 

I più longevi

Alcuni colori, comunque, sono rimasti in produzione da quando furono commercializzati i primi set Lego negli anni ’50 e sono fondamentalmente i colori “base”: il bianco (nº 1), il rosso brillante (nº 21), il blu brillante (nº 23), il giallo brillante (nº 24), il verde scuro (nº 28) e il “trasparente” neutro (nº 40), mentre il già citato rosso trasparente (nº 41) — anch’esso in catalogo dagli anni ’50 — come abbiamo visto sembra essere leggermente cambiato. Stranamente il nero (nº 11), anch’esso immutato, è stato introdotto più recentemente, nel 1960. Il grigio originario (nº 2) fu introdotto nel 1954 ma abbandonato nel 2003 con l’arrivo del nuovo bley, il “medium stone gray” 194.

mattoncino 2x2 3003 vari colori

I più longevi colori ancora in uso: bianco 1, rosso 21, blu 23, giallo 24, verde scuro 28, trasparente 40, nero 11.

I più diffusi sono i “grigi”

Non tutti i colori sono stati prodotti nella stessa quantità: alcuni ovviamente sono molto più frequenti. Secondo Brick Architect,[6] prendendo in considerazione una scatola per ognuno dei set in vendita nel 2019, i colori prevalenti sono nella scala dei grigi: il 17% sono neri, il 16% sono grigio medio (194), il  il 12% sono grigio scuro (199) e il 10% sono bianchi. Il restante 45%, meno quindi della metà, è costituito dai mattoncini colorati, con una prevalenza dei colori “base” come il il rosso, il blu, il marrone, il giallo, e tutti i restanti colori più o meno rari. A questa nettissima predominanza dei grigi rispetto agli altri colori contribuiscono sicuramente le serie “Star Wars” e “Technic“, dove il grigio e nero costituiscono un’ampia parte dei mattoncini contenuti nei set.
distribuzione colori nei mattoncini Lego

Distribuzione dei colori dei mattoncini nei set Lego nel 2019 (fonte: Brick Architect).



Ma esiste anche un set totalmente monocromatico, come i vecchi film: si tratta infatti del battello a ruota “Steamboat Willie” (set 21317), dedicato allo storico cortometraggio d’animazione Disney del 1928 che vede Mickey Mouse alla guida di un battello a vapore. Una volta assemblato, all’esterno restano visibili solo pezzi bianchi, neri e grigio scuro (199) dando l’impressione di una vecchia pellicola in bianco e nero, mentre quelli colorati (comunque presenti) sono relegati alle parti strutturali e meccaniche all’interno.

Lego Star Destroyer 75055

La serie “Star Wars” ha certamente contribuito alla predominanza dei grigi (foto: set 75055).

Lego "Steamboat Willie" (set 21317)

Lo “Steamboat Willie” (set 21317) del 2019 è il primo set monocromatico.



I più rari


I colori più rari sono quelli prodotti specificamente per una particolare serie (aka “tema”) o un set, e solitamente si tratta di colori cosiddetti “speciali” come i glitterati e gli speckled, ma non sempre. Tra questi abbiamo ad esempio il rosso chiaro 100 e il rosso medio 101, che si trovano solo nella vecchia serie “Scala”; il “pastel blue” 11 utilizzato quasi esclusivamente nei set Maersk, il “transparent reddish lilac” 284 o il “transparent bright yellowish green” 227, utilizzati solo nella serie “Clickits“, incentrata sulla produzione di braccialetti e monili per ragazzine: il primo abbastanza diffuso, il secondo si trova solo in 5 pezzi. Il “black IR” 109 (nero infrarosso) è utilizzato solo per i trasparenti di copertura del LED infrarosso dei telecomandi.
elmo di Atlantis

L’elmo dell’imperatore di Atlantis (89918) è uno degli unici due pezzi prodotti nel colore “speckle black-gold”: l’altro è l’armatura.



Ma fanno di meglio lo “speckle black-gold” (oro puntinato di nero, codice Lego sconosciuto) utilizzato solo per l’elmo e armatura dell’imperatore di Atlantis (2 pezzi) e il “ruggine” (rust) 216, anche’esso solo in due pezzi: il “rastrello del contadino” della serie Scala (33173) e il braccio di sollevamento (2651) della motovedetta della guardia costiera (set 6353). Alcuni colori, poi, addirittura esistono in un solo pezzo dello sterminato catalogo Lego, ad esempio:

Lego Fabuland Peter Panda

  • La tinozza (4424) di Peter Panda della serie Fabuland (1983), cui il simpatico plantigrado è molto affezionato, ha un colore tutto per sé: il “Fabuland orange” 19.


gatto Lego Scala

  • il gatto della serie “Scala” del 2000, chiamato 6251px2 (nome insolito per un felino), è l’unico pezzo Lego nel colore “very light orange” 36.


Cristallo 52 "chrome green"

 

  • nel colore “chrome green” (codice Lego sconosciuto) risulta solo questo “cristallo di roccia” nº52, comune a molti set a partire dal 2006. Non va confusa però la rarità del colore con quella del pezzo: pur avendo un colore considerato “raro”, alcuni pezzi possono essere presenti in svariati set, come dimostrano gli ultimi due esempi di questa lista.




Ma ci sono colori ancora più rari: quelli non utilizzati in nessun pezzo, nemmeno uno. Com’è possibile? Talvolta trapela documentazione tecnica da cui si evince l’esistenza in catalogo di colori, i quali però non risultano utilizzati in alcun pezzo conosciuto. Forse vecchi colori dimenticati, utilizzati solo per prototipi e mai entrati in produzione; forse progetti accantonati. Questi sono ad esempio il “cobalt blue” 8, il “flame reddish orange” 193, il “dark curry” 209. Li vedremo un giorno in qualche nuovo set? Chissà. Nel frattempo, se volete addentrarvi nel magico e cervellotico mondo dei colori Lego, sull’argomento il già citato prof. Bartneck ha pubblicato un libro: The Unofficial LEGO Color Guide.

The unofficial Lego color guide




Note

  1. [1]New part out – Set # 70828 ‘Pop-Up party bus’” in Briks-4-Kicks. Web.
  2. [2]Esistono diverse numerazioni utilizzate da siti indipendenti, ad esempio Bricklink. In questo articolo si fa riferimento esclusivamente agli ID ufficiali Lego.
  3. [3]Bartneck, Christopher (PhD) “The curious case of LEGO colors” in bartneck.de Web.
  4. [4]Secondo Howerter (op. cit.), questi mattoncini sono anch’essi classificati come “multicombination” nº 30.
  5. [5]Marbled Lego brick and other parts” in Brickset Forum. Sett. 2014. Web.
  6. [6]Alphin, Tom “Understanding Lego: Bricks“,

Fonti

 

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Secondo gli appassionati, la minifigure Lego più sexy (e più nuda) di sempre è quella raffigurante la principessa Leia Organa nel cosiddetto “slave outifit”, ossia il succinto costume metallico disegnato dalla costumista Aggie Rodgers, che nella trama del film le viene imposto dal gangster Jabba The Hutt durante la prigionia su Tatooine. Ne Il ritorno dello Jedi (1983), terzo film della trilogia originale, la principessa era stata catturata da Jabba mentre tentava di recuperare, insieme a Chewbecca e Luke Skywalker ed altri, il corpo di Han Solo ibernato nella carbonite negli eventi del film precedente (L’Impero colpisce ancora, 1980) e conservato dal criminale Hutt nella sua sala del trono. Catturata, Leia (Carrie Fisher) viene quindi incatenata ai piedi del trono di Jabba, costretta ad indossare la provocante mise. Ma alla prima occasione si ribella, e strangola Jabba con la stessa catena con la quale era stata legata. Questa la storia del film.

Leia Organa slave outfit

La principessa Leia Organa (Carrie Fisher) nel costume noto come “slave outfit”.

2003

Lego 4480 Jabba's Palace

Il “Palazzo di Jabba”, set 4480

Veniamo alla minifigure: nel 1999, in concomitanza con l’uscita nell’uscita nelle sale dell’Episodio I della nuova “trilogia prequel“, il gruppo LEGO strinse un accordo con la Lucasfilm per la produzione di una serie a tema Guerre Stellari, che rappresentò la prima partnership dell’azienda danese con altri franchise. Negli anni successivi produzione dei set di Star Wars avrebbe coperto retroattivamente l’intera trilogia originale, tra cui anche  — appunto — il film Il ritorno dello Jedi, che era stato ridistribuito nel 1997 come Episodio VI. Nel 2003 uscì il set del “Palazzo di Jabba” (nº 4480) che includeva Leia nell’outfit da “schiava”, con tanto di “collare” (rimovibile) e catena.


Leia “schiava” versione 2003 (sw0070), aka “yellow flesh” (YF)

Non solo quella di Leia “slave” fu la prima minifigure in bikini, ma con la schiena completamente nuda, l’ombelico in vista e uno slip minimale resta forse la più succinta mai prodotta ufficialmente. Inoltre — novità assoluta — vede rappresentati caratteri sessuali che vanno al di là dei classici tratti del viso e della pettinatura: la forma dei fianchi e quella del seno sono infatti esplicitamente disegnate. Nemmeno la serie “Paradisa” del 1993, ambientata in uno stucchevole villaggio balneare dai colori pastello (che pure conteneva svariate figure femminili in costume da bagno), aveva personaggi in “due pezzi” e non si sarebbe visto un altro bikini fino al 2011, con le Minifigures da collezione (la “hula dancer” con gonnellino rimovibile, contenuta nella serie 8830). E poi è Leia Organa, sogno erotico di ragazzini degli anni ’80 che ora sono adulti nerd collezionisti. Oggi nota presso i collezionisti come la versione “YF”, che sta per yellow flesh, questa del 2003 (codice sw0070) aveva però ancora la “pelle” della iconica tonalità gialla che caratterizza le minifigure sin dal 1978, colore volutamente neutro per non rappresentare nessuna etnicità particolare, lasciando questa scelta alla fantasia del bambino. Questo dettaglio sarebbe stato corretto con la versione successiva.

2006

leia slave light flesh

Leia “schiava” versione 2006 (sw0085), aka “light flesh”

Di Leia “slave” ne esistono infatti tre versioni. La seconda, la sw0085, arrivò nel 2006 con l’uscita di un nuovo set, la nave volante di Jabba (set nº 6210), quella con cui il lumacone-gangster stava per buttare Luke Skywalker nella bocca del terribile sarlacc. Questo nuovo set contiene ancora Leila prigioniera, sostanzialmente identica alla prima ma con la “pelle”, anziché gialla, di un più realistico incarnato (colore nº 283 “light flesh”) che sicuramente le dona. Nel frattempo, a partire dalla serie Basketball del 2003, l’azienda danese aveva iniziato a produrre minifigure di colore diverso dal giallo: questo perché — spiega — «con l’arrivo di prodotti sotto licenza come LEGO® Star Wars™ e LEGO® Harry Potter™ i  personaggi hanno cominciato ad avere un ruolo ben definito» e potevano quindi essere caratterizzati ricevendo un colore della pelle realistico. L’acconciatura però non è ancora molto accurata: anziché svilupparne una ad hoc, infatti, fu utilizzata la coda di cavallo x104 già presente in numerosi set sin 1992, una coda liscia, piuttosto corta e nel colore reddish brown (88). Ma Carrie Fischer nel film porta una treccia nera, non rossiccia, e con un fermacoda dorato. Di questa Leia “light flesh” nel 2007 fu realizzata anche la versione portachiavi (851938) e nel 2009 quella magnete-da-frigo, inclusa nel set di magneti 852552 insieme a Boba Fett e a una guardia reale.
Leia slave back

Vista da dietro, Leia schiava è praticamente nuda.



2013

Leia "redesigned" 2013

Leia “schiava” 2013 (sw0485), aka “redesigned”

Ma Leia sarebbe tornata, ancora più accurata e attraente. Nel 2013 uscì infatti il nuovo set 50207, una riedizione della nave volante di Jabba contenente una nuova versione di Leia “schiava”, la sw0485 che i collezionisti chiamano “redesigned”. Nonostante la situazione, Leia sfoggia un sorriso più convinto rispetto alle edizioni precedenti, nella quali sembra invece atterrita. A dire la verità le espressioni sono due, perché girando il mattoncino-testa di 180° può mostrare anche la faccia incazzata, forse più consona tanto a una principessa tenuta in catene quanto a una guerriera che sta per strangolare il suo carceriere. La grafica ridisegnata presenta anche fianchi più sinuosi e i legacci del costume sulla schiena, che nelle versioni precedenti appariva invece total nude. Finalmente, è fornita di una nuova acconciatura specifica (codice 13198pb01) che riproduce esattamente quella di Carrie Fisher nel film: capelli neri, una lunga treccia e gli ornamenti metallici color oro.

Leia slave "redesigned"

La nuova acconciatura della versione “redesigned” è più fedele al film; la schiena presenta questa volta i legacci del costume, assenti sulle precedenti.


leia slave torso

Confronto tra il décolleté della versione 2006 (a sinistra) e della versione “redesigned” (a destra): la mastoplastica riduttiva è evidente.

Ma la nuova “minifig” sembra aver subito anche una importante riduzione del seno: il décolleté così generosamente disegnato sulle versioni precedenti è eufemisticamente sostituito dal piccolo segno a “v” dell’articolazione sterno-clavicolare; anche la parte superiore del costume è ridisegnata in modo da non lasciare intendere alcuna rotondità.

Leia in catene in una scena di "Il Ritorno dello Jedi" (1983)

Leia in catene in una scena di Il Ritorno dello Jedi (1983).

Come sarà la prossima? Forse non vedremo mai una quarta versione: dal 2012 il marchio Star Wars è di proprietà Disney che da sempre si rivolge ad un pubblico di famiglie. Si diffondono così voci che Disney voglia rimuovere da tutto il merchandising (Lego compreso) l’outfit di Leila schiava, perché considerato troppo sexy e quindi non in linea con l’immagine dell’azienda.
Ma forse il motivo non è così banale: se così fosse, infatti, andrebbero forse riviste anche Jasmine di Alladin e Ariel, la Sirenetta. Il fatto è che il tema di fondo dell’avventura su Tatooine è la storia d’amore di Han e Leia: prima che lui venga ibernato, ne L’impero colpisce ancora (1980) lei le confessa i suoi sentimenti. È per salvare il suo uomo che Leia viene catturata ed incatenata, che da eroina ribelle è costretta a diventare un giocattolo sessuale. Cosa si è disposti a fare, per amore? Anche essere imprigionata e rischiare la vita. Anche ribellarsi e sconfiggere il mostro. Tutto bellissimo, ma oggettivamente Star Wars ha un approccio un po’ maldestro e sessita a questo tema, che viene ridotto — scrive N. Berlatsky su The Guardian[1] — a «una cacofonia di feticci»: la sequenza di Jabba è una fantasia da harem orientale, un sogno pruriginoso di esotismo e catene, di sottomissione e oggettizzazione della donna. Tutto questo gettato in mezzo ad una storia molto apprezzata dai bambini. Carrie Fisher stessa dirà alla giovane Daisy Ridley, che si accingeva a diventare la nuova eroina femminile ne Il risveglio della Forza (2015): «Non essere schiava come lo sono stata io. Continuerai a combattere contro quel costume da schiava.» È probabilmente questo, e non un semplice abito troppo succinto, il motivo per cui la Disney ha deciso di tirarsi indietro sul tema di Leia “schiava”.

  1. [1]Berlatsky, Noah “The ‘slave Leia’ controversy is about more than objectificationThe Guardian, 5 Nov. 2015. Web.
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Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.

Il dialetto lombardo occidentale, quello della celebre cadrega assurta agli onori del lessico politico e giornalistico, ha due pittoresche espressioni che non trovano corrispondenza in italiano e che si riferiscono ai colori indefiniti. Non stiamo parlando di tonalità che necessitano ulteriore specificazione rispetto al colore di base più vicino, come “verde malva” o “grigio cenere”, ma proprio di nomi “trasversali” per colori imprecisati, anche molto diversi da loro ma accomunati dall’essere brutti, sgradevoli o insignificanti. Ma se per un generico colore “brutto” basterebbe un solo aggettivo, il dialetto lombardo si conferma molto preciso nel descrivere le umane disgrazie, facendo distinzione tra un colore sì indefinito, ma più sul viola – il color trasüdeciuck – da uno altrettanto vago ma più sui toni più neutri del grigio, del beige o del marroncino – il color baldàsi “aka” cancascàpa. E con diversa sfumatura di bruttezza: mentre il primo è solitamente un colore vistoso e sguaiato, il secondo è preferito per descrivere tinte più insulse e banali. Nelle sfumature intermedie tra i due estremi di questa infame scala cromatica, sta alla fantasia del parlante collocare come meglio crede il colore che si vuole descrivere.

scala baldasi-trasudeciuk

Trasüdeciùc

Il trasüdeciùc (o trasüd’ciùc o trasüdeciòc a seconda delle varianti locali) è il nome comune di una gamma indefinita di colori che ha il centro della propria gaussiana, se così possiamo dire, nei toni del color viola o “vinaccia”: deriva infatti dalla contrazione di trasü de ciùck, locuzione che nel dialetto lombardo significa letteralmente “rigurgito di ubriaco”. Il trasüdeciùck può essere quindi preferibilmente un colore violaceo non particolarmente gradevole, ma anche qualunque altro colore caratterizzato dall’essere indefinibile, o ancora un accostamento improbabile, una cacocromìa (dal greco κακός, “cattivo”, non da “cacare” che pure potrebbe sembrare appropriato), un rivoltante guazzabuglio di colori come può esserlo appunto l’emesi dell’avvinazzato che ha ingurgitato troppo barbera e lo ripropone parzialmente digerito, magari insieme al resto della cena. Se state dicendo ad una persona che il suo maglione è color trasüdeciùc, va da sè che non le state facendo un complimento.


Baldàsi e cancascàpa

Fiat Ritmo beige

Un tipico colore baldàsi: la Fiat Ritmo “beige daino” (cod. 553) dei primi anni ’80. Nelle intenzioni del centro stile doveva essere un colore elegante, che ricordava «i cappotti buoni della domenica».[1]

Il baldàsi sembra essere un termine più segnatamente pavese e differisce dal trasüdeciùc in quanto indica un colore più anonimo e insipido, che di per sé sgradevole. E proprio per questo, pur essendo anch’esso indefinito ed applicabile ad una gran varietà di colori, è più adatto a descrivere toni neutri come il marroncino, il grigio, il beige, il tortora e simili. Il termine deriva anch’esso da una contrazione, questa volta della locuzione bal d’āsi, che significa “palle (nel senso di testicoli) d’asino”. L’origine di tale accostamento è evidente: i testicoli, penzolanti e sballottati con i movimenti del corpo, nel linguaggio popolare sono divenuti metafora di persona inetta o sciocca (accostamento che si ravvede anche nel termine “coglione”); allo stesso modo il colore baldàsi è un colore “sciocco”, insignificante. Ancor di più se detti ammennicoli appartengono all’asino, considerato animale stupido per eccellenza nell’immaginario collettivo. Sebbene raro, viene talvolta italianizzato in baldasio, che resta però un localismo strettamente pavese. Classici colori definiti “baldasio” furono quelle tinte pastello, tra il beige opaco ed il marroncino “zuppa di fagioli”, offerte su alcune utilitarie negli anni ’70 / ’80, come la A112 o le Fiat 127 e Ritmo.

Nel pavese e lodigiano il baldàsi è detto anche cancascàpa, letteralmente “cane che scappa”. L’espressione dà contezza della sua indefinibilità: un cane che scappa può essere di qualunque colore e tampoco importa quale, dato che scomparirà velocemente alla vista. Ma forse l’etimologia è analoga a quella di baldàsi. Nella pragmatica civiltà contadina il cane era una necessità più che un vezzo; la sua funzione non era tanto di compagnia quanto di fare guardia, aiutare i pastori transumanti a tenere il gregge o i cacciatori a recuperare la preda. Ne consegue quindi che un cane pavido, che si dà alla fuga, viene meno alla sua funzione ed è quindi di scarsa utilità: è insignificante, privo di valore. Fuggendo mostra inoltre le terga, quindi le “balle”: come nel baldàsi, il riferimento pare essere quindi alle gonadi di un animale stupido, il cui colore – esibito durante una fuga ignominiosa –  non può essere che privo di senso.

D’altronde – senza addentrarci nel concetto di relatività linguisitica – se è vero che la lingua riflette l’esperienza, il dialetto lombardo rispecchia una quotidianità rurale più vicina ad asini ed osterie, che ai nomi evocativi dei colori à la mode.

  1. I super colori” in Fiat Ritmo Super. Web.
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Massiccio dello Jôf Fuârt, Alpi Giulie

Massiccio dello Jôf Fuârt, Alpi Giulie

Per tradizione ogni autunno una sezione del CAI organizzava una settimana di vacanza gratuita, offerta agli iscritti più giovani e meritevoli. Nel 1974 io ero una socia nemmeno ventenne della sezione di La Spezia e mi assegnarono l’ambito premio: una settimana intera a Udine, ospite della SAF. Credo che avessero scelto me perché non c’erano molte donne alpiniste e pertanto ritenevano che la presenza di una arrampicatrice, di roccia e non sociale, avrebbe messo in buona luce la nostra minuscola e sconosciuta sezione. Comunque lo confesso con grandissima vergogna: non sapevo nemmeno che esistesse una sezione del CAI chiamata “SAF”. Furono costretti a spiegarmi che era, in pratica, la sezione di Udine, ma aveva una denominazione peculiare perché dalla sua fondazione, avvenuta nel 1881 aveva avuto vita autonoma finché (nel 1929) il governo mussoliniano aveva costretto tutte le associazioni, minoritarie come numero, ma importantissime come storia e dignità, a confluire nel CAI. Subì la stessa sorte anche la SAT, la grandissima Società Alpinisti Tridentini, che era nata, forse, più per promuovere l’annessione di Trento al Regno d’Italia che per organizzare gite in montagna. Non a caso annoverava tra i suoi soci più attivi Cesare Battisti, l’irredentista che sarà catturato dagli austro–ungarici e impiccato come reo di alto tradimento. Anche la SAG (Società Alpina delle Giulie ) viene fagocitata dal CAI, che in quell’infausto periodo era intriso di retorica fascista.

Udine, piazzale Osoppo negli anni ’70 (cartolina)

Arrivai dunque a Udine, forse un pochino meno ignorante grazie alle letture che mi avevano propinato per evitare gigantesche figure da sprovveduta e, come preannunciato, alla stazione trovai un socio della SAF che accoglieva i nuovi giunti, proprio come facevano i sergenti con le reclute: vedendosi comparire davanti una tizia tutta addobbata con scarponi, braghe alla zuava, zaino e tutti gli altri ammennicoli prima fece un salto di mezzo metro, poi mi squadrò come se gli fosse comparso davanti un basilisco tricefalo e, infine, recuperata la parola, bisbigliò attonito: «Ma tu da dove accidenti arrivi?» Gli spiegai che «io sono quella di Spezia» e mi chiamavo Annalisa Neviani. Visto che il galantuomo pareva titubante esibii la busta con la convocazione e qui si chiarì l’enigma: i friulani attendevano un tale A. L. Neviani, che per loro avrebbe potuto essere, putacaso, Antonio Luigi, Andrea Lorenzo, Alberto Livio, ma mai e poi mai Anna Lisa! A me pareva un falso problema, ma a lui no, proprio no. Alla fine mi venne annunciato, in tono severo, che avrebbero dovuto parlarne con… Monsignor Vescovo! Già, perché i trenta fortunati vincitori avrebbero dovuto essere accasermati nel Seminario Vescovile e tale venerabile struttura non era mai stata violata da piede muliebre, nemmeno se calzato da robusti scarponi numero 42. Non ho mai saputo cosa abbia detto l’eminente prelato, ma alla fine mi sistemarono nell’infermeria destinata ai seminaristi con malattie infettive, mentre i miei colleghi usufruivano di una camerata unica.

Duomo di Udine, anni 70 (cartolina).

Ovviamente un socio, promosso sul campo guardiano dell’harem, ma non evirato (almeno spero!) pernottava assai scomodamente su una branda in corridoio per impedire una mia eventuale evasione. Già, perché si prevedeva una libera uscita serale per i maschi, ma non per me. Nessuno pensava che una corda da 40 metri nel mio zaino potesse porre rapidamente fine al problema. Così una sera mi ritrovai a dover riportare all’ovile un gregge berciante e indisciplinato: sapendo di dover risalire la corda con staffe e Prusik mi ero mantenuta rigorosamente sobria, mentre i miei amici erano tutti più o meno ciucchi. Devo aver tirato giù svariati Santi del calendario, perché a un certo punto alcuni Alpini in libera uscita pensarono bene di farmi la predica. Male gliene incolse, perché li precettai all’istante per ricondurre sulla retta via i mie ventinove sbronzi: evidentemente avevo già sviluppato quella virtù che si richiede ai medici di area critica e che viene comunemente definita ”attitudine al comando”. Devo ammettere che furono davvero comprensivi e solidali: solo grazie a loro guadagnai il portone del Seminario, dove fui però obbligata a palesarmi!

In seguito ci portarono anche a fare svariate vie ferrate. Durante una di queste gite alcuni gendarmi austriaci, che arrampicavano sopra di noi, provocarono una caduta di pietre che mi rovinò malamente il casco. Arrivati al rifugio incontrammo questi sprovveduti e io feci le mie più sentite rimostranze in un misto di italiano, tedesco da angiporto e genovese. Devo aver fatto un gran brutto effetto, perché alla fine il loro maresciallo (o come accidenti si chiama in Austria[1]) commentò (in perfetto italiano, maledetto lui!): «La Fraülein chissà dove ha imparato a parlare tedesco!». Avrei voluto vedere lui con il casco diviso in due come una noce di cocco!

Rifugio "Guido Corsi" allo Jôf Fuârt

Rifugio “Guido Corsi” allo Jôf Fuârt (Commons).

L’ultimo giorno andai a lavarmi la faccia nel bagno di un rifugio e, orba come sono, caddi a pera cotta con gli occhiali in mano. Risultato: montatura a pezzi e uno sbrego nel palmo, prontamente medicato versandoci sopra la grappa per disinfettare (che spreco!) e fasciato con un fazzoletto pulito. In serata cena di gala con il Senatore Giovanni Spagnolli, allora Presidente nazionale del CAI . L’Onorevole mi vide con il braccio al collo, chiese delucidazioni e gli risposero che ero caduta «sullo Jôf Fuârt[2]». Il fatto magari era anche vero, ma tralasciarono il dato fondamentale, cioè che ero scivolata maldestramente nel bagno e non ero certo precipitata da una parete di roccia. Errore fatale: durante il pistolotto finale il Senatore andò avanti un’eternità con la storia dell’eroica fanciulla che, con mirabile sprezzo del pericolo, si avventura tra precipizi e forre, sui sacri confini della Patria, cadendo poi eccetera. Alla fine ridevano TUTTI e Spagnolli non si capacitava dell’effetto che aveva suscitato il suo discorso patriottico. Non sono mai più ritornata a Udine: peccato!


  1. [1]Vizeleutnant, (n.d.r.)
  2. [2]Montagna delle Alpi Giulie, alta 2662 m s.l.m: nota come Viš in sloveno e Wischberg in tedesco, appartiene alla catena Jôf Fuârt-Montasio (n.d.r.)
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Annalisa Neviani

medico ospedaliero in pensione, chiacchierona e curiosa.

Il 5 ottobre 2018 lo street artist Banksy, conosciuto dal grande pubblico per il suo rivoluzionario e sfuggente approccio al mondo dell’arte, ne combina una delle sue. Durante un’asta a Sotheby’s (Londra) l’opera A girl with balloon, battuta per 1,2 milioni di sterline, si autodistrugge, tagliuzzandosi in tante esili parti. Ad azionare il meccanismo di autodistruzione contenuto all’interno della cornice, un semplice tritacarte da ufficio, si pensa sia stato lo stesso Banksy. Non ci sono dubbi: l’artista torna a stupire con una performance che, in poche ore, diventa virale sul web. L’opera cambia nome in Love is in the bin, ovvero “l’amore è nel cestino”. Trascurando per un attimo la viralità dell’evento, tutti noi, chi più, chi meno, ci saremo soffermati sul significato del gesto, o meglio, sul senso. Marketing? Ironia? Si, certamente, ma non solo.

Banksy Girl with balloon, Waterloo Bridge 2002

Il primo murales di Banksy in cui compare il tema “girl with balloon” (aka “there is always hope”), realizzato nel 2002 a South Bank, Londra (foto: D. Robinson/Flickr CC-BY-SA 2.0).

Ad offrirci uno spunto interessante per delineare un quadro sensato della faccenda è un privato cittadino, proprietario di una delle 600 stampe originali dell’opera. Questo signore, subito dopo l’accaduto, riduce l’oggetto in striscioline di carta, augurandosi di raddoppiarne il valore. Niente da fare. Se prima la stampa valeva 40 000 sterline, ora vale un misero pound! Perché? Perché Banksy può e io non posso? Ci troviamo di fronte alla grande differenza tra immanenza di un oggetto e sua trascendenza. Quello che è successo all’asta di Londra è un evento unico, per spazio e tempo; l’artista crea una situazione che sgomenta, agendo egli stesso sulla sua creazione; l’opera d’arte è esposta e quindi assume un carattere pubblicitario, inclusivo per tutti i presenti… diciamo pure che si dona. Ciò che succede è trascendente, perché fuori dal quotidiano, dal buonsenso e dai comuni parametri di valutazione di un’opera. Accade quel giorno e mai più. La stampa invece, pur essendo un originale, è una rappresentazione dell’opera prima. Non solo l’oggetto è una rappresentazione, ma anche l’atto del tagliuzzarlo è rappresentazione, ovvero mero copia–incolla dell’atto primo di Banksy. La stampa poi assume anche tutte le caratteristiche di un oggetto da collezione, casalingo, privato e statico. L’artista non possiede nessun potere su questa e non agisce sulla sua esistenza in alcun modo. La stampa è quindi un oggetto immanente, ovvero statico nella sua essenza. Non c’è nessun atto pubblico, virale o eccezionale da parte del povero disgraziato che prova tragicamente a far sì che aumenti il suo valore. Per questo motivo Banksy sì e io no.


Il video della “autodistruzione” dell’opera.

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Luigi Bandiera

20 anni, studi classici. Mi muove il fascino dello scritto, l’insaziabile curiosità, il superarmi continuamente . Un amico mi definì “browser”, ovvero un’applicazione per il recupero, la presentazione e la navigazione di risorse sul web.