Land's end il teorema della distruzione


Trama

Un uomo e una donna che abitano a Land’s End, a picco sull’oceano, spiano i segnali della Fine dei Giorni che incombono dal cielo, dalla terra e dall’inconscio, tracimando identici nelle menti di esseri umani lontanissimi ma inconsapevolmente collegati. Ottobre 1995: ai piedi del Monte Graham, in Arizona, si consuma un atto di violenza disumana, neppure illuminato dalla cronaca, che mette in moto eventi fatali in grado di provocare la Fine dei Giorni a distanza di vent’anni. Qual è il legame che unisce un film girato in California e i sogni di una sciamana che vive in Cornovaglia? E quello tra gli incubi a occhi aperti dell’agente letteraria Cassandra Marsalis e il romanzo non ancora scritto dal suo autore migliore? Perché un monaco, prossimo alla morte, scrive sui muri della sua cella una sequenza di parole che preludono all’evento finale? Enigmi che riguardano tutti gli abitanti del pianeta prendono vita in una località magica e inquietante chiamata Land’s End.

Land's end. Il teorema della distruzione di Danilo Arona, Sabina Guidotti.

 


Land’s End. Il teorema della distruzione di Danilo Arona e Sabina Guidotti. Edizioni Meridiano Zero, 2016.

 

Land's End in una mappa del 1946.

Land’s End, Cornovaglia.


Ciao Danilo, ciao Sabina, benvenuti su Laputa, reggetevi forte finché non raggiungiamo il municipio. Volare con l’ausilio della sola forza magnetica non è come sedersi dentro un comodo superjet della Lufthansa, ci saranno scossoni e qualche turbolenza. Intanto vorrei domandarvi come vi siete conosciuti, giusto per rompere il ghiaccio.

D Non ci siamo mai conosciuti fisicamente. Può anche darsi che Sabina non esista e sia un parto del mio Id o della mia ghiandola pineale. Se come mi auguro esiste su questo piano di realtà, ci conosceremo ad Halloween, che per inciso è anche il giorno del genetliaco della Guidotti. Anzi, la notte… Sabina Guidotti non poteva che nascere a quell’ora e in quella data. La nostra è una conoscenza – si fa per dire – via rete. Siamo reciproci fantasmi.

S Potrebbe sembrare una trovata pubblicitaria per far parlare di noi e del libro, invece è la pura verità. Io e Danilo non ci siamo mai incontrati, nemmeno virtualmente su Skype. E anche su questo si potrebbe scrivere una storia. All’inizio Danilo era solo una voce. Detto così è un po’ inquietante, parlando dell’autore del romanzo Io sono le voci. Poi quella voce ha fatto parte di un sogno, e quel sogno si è trasformato negli incubi di Cassandra e nelle visioni di Dafne. Ma sono certa di aver incontrato uno dei tanti Danilo in un mondo parallelo.


Bene, attenzione adesso. Reggetevi! Siamo sopra un’intersezione elettromagnetica. Quando scoprimmo le due lune di Marte prima di tutti gli astronomi terricoli, fu necessario approntare uno stabilizzatore per il telescopio. Ricordo che ne parlammo per circa una decina di anni, prima di addivenire alla soluzione. Parlammo di altro, chiaramente. A noi laputiani piace divagare, non seguire alcuno Schema. Invece tu, Danilo, immagini che vi sia uno Schema al quale non si può sfuggire. Ce ne vuoi illustrare i dettagli, e per amore dei laputiani, non lesinare quelli che ritieni di secondaria importanza, qui da noi valgono oro!

D Lo Schema è la Sottotraccia – non a caso maiuscola – di tutta la mia ultima narrativa a partire da “L’estate di Montebuio”. Volendo rifarsi a una contabilità di tipo aziendale, è il nudo elenco dei segni che preludono alla fine dei giorni. Lo so che puzza molto di gruppi fondamentalisti escatologici – in rete se ne trovano a bizzeffe -, ma i materiali da usare in chiave fictional li trovo assolutamente efficaci e divertenti. E ad alcuni confesso di credere. Per esempio, a coloro che ho battezzato i “Renfield”, quegli individui che ormai quasi ogni giorno danno di matto e compiono atti – spesso omicidiari – senza spiegazione perché dal loro punto di vista “annunciano” che Qualcosa di Sinistro sta per Accadere (citando Bradbury). Non sono cose che m’invento, stanno in cronaca, basta saperle scoprirle e “rileggerle” in un’altra chiave. Se vuoi approfondire il discorso anche dal punto di vista saggistico, la mia rubrica su Carmilla Online “La Luce Oscura” negli ultimi anni è quasi totalmente dedicata allo Schema… che tra l’altro è un’entità dinamica, in mutazione. Ad esempio, L’ISIS ormai ne fa parte. Poi la terzultima voce dello Schema è “terrore globale”… Vedi tu. Consiglierei un saggio fondamentale di Paul Virilio accanto a “Land’s End”, giusto per capirne di più di Schemi e interpretazione della realtà. S’intitola “Città panico”.


(…) Sabina, e tu ci credi nello Schema? O ti sei lasciata irretire per poi riuscire a sfuggirne?

S Uno Schema esiste. Questo non è un libro di pura finzione. Lo scenario del mondo è ben peggiore di quello che abbiamo raccontato. L’Apocalisse è già sotto gli occhi di tutti, ma l’omologazione, il desiderio di immortalità, la perdita di valori morali, ha generato una cecità preventiva, come se fosse calato un sipario. Viviamo in una libertà apparente, una specie di limbo, dove la realtà spesso si confonde con l’immaginario. Chi scrive di horror, probabilmente per esorcizzare paure inconsce, lo sa. E lo sa perché fa rivivere i mostri, scava nel profondo delle coscienze, andando in quelle zone di confine spesso pericolose. Posso dirti anche che, mentre scrivevamo questo romanzo, sono accadute delle cose strane, intoppi, black out, incidenti, come se “Qualcuno” o “Qualcosa” non volesse che il libro vedesse la luce. Potremmo parlare di presenze, di fantasmi, di connettività con altri mondi, mondi nei quali questa storia era appena iniziata o aveva avuto un triste epilogo. Poi, una volta terminato, abbiamo avvertito entrambi un senso di pace. Avevamo rivelato lo Schema, o quello che noi abbiamo decodificato come Schema.


Eccoci arrivati al municipio, prego, accomodatevi. Il nostro popolo mi ha affidato una domanda: siete mai stati a visitare il vecchio faro di Land’s End? Ve lo chiedo perché a noi sono saltate tutte le antenne ricettive quando abbiamo saputo della pubblicazione dell’omonimo romanzo e, vi assicuro, ognuno di noi ne ha già tre copie. Una da leggere, una da portare in piazza per argomentare sui dettagli, e un’altra da conservare per il futuro. (link all’articolo di laputa, penso che ci sta tutto)

D Mai stato a Land’s End. Ma dopo quest’esperienza produttiva mi piacerebbe proprio. Per capire se le mie visioni – e quelle di Sabina – corrispondano al vero. In ogni caso la Cornovaglia sta nei miei programmi turistici.

S Vorrei andarci presto, magari proprio con Danilo! Vedere quella scogliera, la scogliera di Dafne e Angus, dove noi abbiamo stabilito il confine. Però, dormirei nel faro, non nel famigerato albergo onde evitare incontri spiacevoli.

Land's End

Il faro di Land’s End detto “di Longships” dal nome del gruppo di scogli, la cui sagoma ricorda un silenzioso e misterioso convoglio di “navi lunge” norrene.


Come siete riusciti, con una storia che spazia dai luoghi più remoti alle dimensioni parallele del tempo, a scrivere a quattro mani? Che metodo avete utilizzato? Noi laputiani siamo sempre alla ricerca di un metodo per rimanere concreti, chiaramente senza alcun successo.

D Sabina si è piacevolmente intromessa a storia già impostata. Quindi ha fatto il Paguro Bernardo della situazione. La trama è sostanzialmente mia in quanto tecnicamente la si può considerare un sequel de “L’estate di Montebuio” (lontano da Montebuio), anche se certe specifiche non hanno poi senso essendo il romanzo “nostro”. Lei ha creato approfondimenti, sottotrame e ha regalato a “Land’s End” un tocco femminile ovviamente carente da parte mia, dato che io sono un rude legionario. Per fortuna gli stili sono risultati congrui e molto simili. E il lettore percepisce la presenza di due sole mani.

S Ho lavorato su un’idea di Danilo. Una trama complicata, proprio perché la storia si sviluppa su più piani narrativi. Una storia conduce a un’altra storia. Un incubo prelude a un altro incubo. Danilo dava la traccia su cui lavorare e io rimandavo le cartelle ampliate o modificate. Questo all’inizio. Poi ci siamo “sentiti”, ovvero, io ho capito esattamente cosa voleva raccontare Danilo con questa storia. Non è semplice scrivere assieme; lui è un uomo e io sono una donna, e anche questo incide sulla scrittura. Come ti dicevo, durante la stesura del romanzo qualcosa è successo e le nostre scritture sono andate all’unisono, tant’è che nel libro, almeno spero, si percepisce un’unica voce narrante. Siamo entrambi due visionari, amiamo il cinema di David Lynch, avevamo dei punti di contatto nel nostro background culturale, forse questo ci ha agevolato.


Danilo, Halloween si avvicina, una festa molto sentita quassù. Che tipo di rapporto hai con le festività in generale? Ti senti partecipe?

D Le festività mi piacciono perché sono un uomo festoso. Halloween è una storia diversa. Sostanzialmente è uno stato d’animo che accomuna tutti gli appassionati transgenerazionali di gotico, weird, horror e via declinando. Li accomuna su tutto il pianeta e questo è straordinario nonostante il delirio talebano dei gruppi cattolici oltranzisti che la dipingono come un evento satanico. Questa gente non sa nemmeno di che parla soprattutto quando tira in ballo il Diavolo. Comunque, certo, mi sento e sono partecipe.


Sabina, la tua esperienza come editor ti pone nel settore di controllo della lunga lavorazione di uno scritto. Cosa si prova a passare dalla torre di controllo alla cabina di pilotaggio?

S Quando lavoro esclusivamente come editor o come ghostwriter, il mio compito è quello di far funzionare una storia, eliminare incongruenze, difetti stilistici, staticità dei dialoghi, snodi narrativi incompleti. Tengo sempre presente la regola degli ostacoli che il personaggio deve superare, se credibili o meno, e mi piace lavorare a stretto contatto con l’autore. Un bravo editor non snatura mai il lavoro di altri, ma accompagna, suggerisce, consiglia, però la storia alla fine è dell’autore. Posso battermi per far capire all’autore che un personaggio non funziona, ma se per qualche ragione quel personaggio è collegato all’emotività di chi scrive e per mille ragioni diventa intoccabile, ecco, allora, il mio compito è quello di migliorarlo fin dove è migliorabile. Come autrice invece hai delle responsabilità diverse. Tante volte con Danilo abbiamo parlato di Land’s End, romanzo che all’inizio ha lasciato un po’ tutti di stucco, sia perché, per chi conosce Danilo Arona, questa storia è meno truce delle altre, sia perché la storia si sposta volutamente su tematiche diverse, con la pretesa (mi auguro riuscita) di non dare al lettore tutte le risposte, perché quello che conta è il senso del mistero che si fonde col sacro. Volevamo raccontare una storia diversa, senza un mondo ricomposto. Io sono una sceneggiatrice, sono abituata a vedere le scene prima di scriverle e ho trasposto questa tecnica nella scrittura, incasellandomi nell’universo onirico di Danilo.


Il mondo sta per finire, questo è evidente. Noi pensiamo che sarà un eterno crepuscolo senza alcuna esplosione immanente. Voi come la immaginate la fine del nostro mondo?

D Guarda che l’abbiamo appena scritta… La immagino proprio così. Una casa sulla scogliera più alta, la propria donna al fianco, un bicchiere di buon vino da centellinare e gli occhi puntati verso il mare a guardare senza paura la fine che si avvicina. Si tratta di una visione che appartiene a tanto cinema, da “L’ultima spiaggia” a “These Final Hours”. Però è proprio così che vedo la Fine…

S La vedo come Danilo. Se la fine è inevitabile, puoi solo addolcire l’attesa. L’aspetterei su un luogo isolato, in alto, a strapiombo sul mare. Vorrei accanto le persone care, i miei animali e un amuleto in tasca. Non si sa mai…

Land's End: il cartello che segna la "fine della terra"

Land’s End: il cartello che segna la “fine della terra” (© L. Clarke/Geograph CC-BY-SA 2.0).


Se fossimo sulla Terra vi chiederemmo di parlare dello stato attuale della letteratura, a questo punto. Ma siamo quassù, per fortuna direi, e ci interessa di più conoscere qualcos’altro di voi. Per esempio, che grado di sincronia vi è fra i vostri personaggi e dei corrispettivi reali? Le fonti di ispirazione che muovono la trama di Land’s End hanno dei riferimenti concreti con la realtà quotidiana? C’è una volontà di descrivere l’orrore dei nostri giorni?

D I personaggi di coppia sì, per quel che mi riguarda sono “Proiezioni” del sé (Perdinka e Angus sono in parte anche frammenti di Danilo). Riguardo la realtà quotidiana, certamente l’horror – intelligente e per nulla imparentato col fantasy, per capirci – non perde mai d’occhio l’orrore dei nostri giorni. Anzi, spesso lo denuncia e lo anticipa. Così dovrebbe essere in “Land’s End”, laddove Dafne e Angus, per quanto vivano isolati, sono mentalmente immersi nel caos di anomalie che sta ovunque spappolando il pianeta. Effetto Farfalla, io ci credo.

S L’horror è un filtro della realtà. Dafne e Angus hanno percepito prima degli altri la follia del mondo e in qualche modo hanno scelto di starne fuori, andando a vivere sulla scogliera. I personaggi sono speculari uno all’altro e sono dei doppi. Morgan è l’alter ego di Danilo, in Dafne c’è qualcosa di me. E anche Soyoko, il personaggio per antonomasia, che dà vita all’immaginario horrorifico, rappresenta la disperata ricerca di giustizia, quella giustizia che Soyoko, come tante persone, non ha avuto in questo mondo. Ogni personaggio ha un segreto. Dafne ha un segreto, Ed e Frank hanno dei segreti, l’albergatrice ha un segreto e pure Morgan ce l’ha, e i loro segreti sono collegati alla brutalità del mondo.


Sciamani, evocatori, custodi delle chiavi dell’Oltre (qualunque esso sia). Danilo, ti senti un po’ sciamano nel creare le tue storie, o vittima di uno di essi, magari nascosto in quella piega grigia fra la coscienza e la follia che noi, qui, chiamiamo genialità?

D Faccio parte, mi piaccia o meno, di quella razza di scrittori che quando producono si “connettono” con qualche zona al di là del tempo, e forse anche dello spazio, e scrivono quasi in trance automatica. Ne conosco qualcun altro in Italia: lo affermo senza tema di smentita a proposito dei miei amici Altieri e Nerozzi, e anche del grandissimo e purtroppo deceduto prematuramente Valter Binaghi, un vero e proprio Rabdomante del Male, come lui stesso era solito definirsi. Perciò scrivo un romanzo quando la storia “arriva” o quando mi connetto senza quasi accorgermene. Poi, okay, ci sono un sacco di altri miei racconti che sono soltanto frutto di mestiere e di esperienza. Ma che non fanno parte del repertorio “connesso”. O connettivista, come direbbero Sandro Battisti e Kremo Baroncini.


Sabina, questa è tutta per te: una trasposizione cinematografica di Land’s End chi vedrebbe protagonisti? E con quale tecnica filmeresti le scene? Ma soprattutto, proiettereste la prima al cinematografo di Laputa?

S Certo che lo proietterei al cinematografo di Laputa, e mi interesserebbero le reazioni. Se dovessi realizzare una trasposizione cinematografica, lavorerei sui colori, sul bianco abbacinante della scogliera che fa da catarifrangente per altri mondi reali, come quello milanese dove vivono Morgan e Cassandra. Lavorerei sugli occhi. Un primissimo piano sugli occhi di un gabbiano che si trasformano in quelli di Dafne per scorgere dentro le sue pupille un bambino che grida. Poi, con una dissolvenza incrociata, mostrerei gli occhi di Ed e quelli di Frank mentre una cantilena macabra fa girare la giostra di un luna park. Darei importanza anche alle musiche, da quelle rockettare che sottolineano la presenza dello scrittore maledetto ai silenzi di Land’s end, dove un tike tike tike può fare davvero paura. Sai meglio di me che l’anima di un film dipende anche dal montaggio. Se fossi io a decidere, monterei la storia utilizzando un frame ricorrente collegato a un solo personaggio: Morgan. Il punto di vista sarebbe quello di un terzo occhio, la sua ghiandola pineale impazzita, che sta facendo collassare il mondo.


Ogni volta che termini un lavoro, Danilo, ti senti di aver lasciato qualcosa di tuo o di aver ricevuto dell’esperienza? La legge di conservazione dell’energia non si applica, in questo caso, quindi puoi rispondere senza dover dosare le sensazioni.

D Ogni volta mi sento strano, insoddisfatto. Con estrema sincerità neppure so perché l’ho fatto. Mi chiedo quasi sempre a chi possa essere utile. Prendi una storia come “Land’s End”. Ce l’avevo in testa, una grande storia d’amore sul crinale – alla lettera – dell’Apocalisse. Poi, va da sé, è diventata un’altra cosa perché ci si è messa di mezzo la mia incondizionata passione per i generi popolari, la fantascienza, l’horror e il thriller. E si è trasformata in qualcos’altro, con in più l’esigenza sempre presente in me di “sperimentare”, perché se nell’horror non ti cimenti in qualche provocazione sperimentale è proprio inutile, secondo me, scriverne. Sabina non solo mi ha assecondato su questo fronte, ma si è dimostrata ancora più sfrenata. E forse, almeno in questo caso, un’esperienza, utilissima, c’è stata.


Sabina, come si imbriglia una forza come quella di Danilo Arona? E tu, come hai gestito la tua di forza, quella che hai portato al motore narrativo di Land’s End?

S Una forza come Danilo non si imbriglia. Danilo è l’onda, o ti sommerge e anneghi o ti insinui nelle sue correnti per amplificarne la potenza. Danilo ha una mente stupefacente, oltre a un’abilità stilistica innegabile. E questo, concedimelo, a prescindere dal fatto che uno ami o non ami il genere di storie che scrive. All’inizio eravamo due menti diverse, poi siamo riusciti a diventare una sola mente, perché la mia forza non ha cozzato nella sua, ma ha assecondato la sua visione distopica e geniale. In Land’s end nulla è messo a caso, ci sono citazioni e omaggi cinematografici per chi vorrà trovarli, ma Land’s end è strutturato per generare incubi.


Smettiamo di tormentarvi, giuro, solo un’ultima domanda. Sono passati 27 giorni dalla lettura pubblica del romanzo. Siamo sicuri che le regole per non essere fatti a pezzi da Soyoko funzionino?

D Ma proprio no. Un mostro come Soyoko in primo luogo è un’Orchessa ingannatrice. Per non finire a pezzi, bisogna risultarle simpatici e avere la coscienza a posto. Soprattutto nei confronti dell’Altra Metà del Cielo.

S Basta sapere cosa rispondere, e allora Soyoko non ti ucciderà.



Siete stati gentilissimi, ospiti graditi e che portano lustro alla nostra comunità volante. Per questo volevo insignirvi del titolo di Laputiani Onorari. Venite a trovarci quando desiderate, non occorre annunciarsi.

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Danilo Arona

Danilo Arona, classe 1950, giornalista, scrittore e musicista. Ha pubblicato articoli per Focus, Robot, Aliens, Cinema & Cinema, Horrormania, Nocturno, Duel e Pulp, analisi critiche sul cinema fantastico (ultimo, Gli uccelli di Alfred Hitchcock per Un mondo a parte) e saggi sul lato oscuro della realtà (Satana ti vuole per Corbaccio e Possessione mediatica per Marco Tropea). Da anni si dedica alla narrativa con titoli quali Palo Mayombe e Cronache di Bassavilla (Dario Flaccovio), Finis Terrae, La croce sulle labbra e Bad Visions (Mondadori), L’estate di Montebuio (Gargoyle Books), Ritorno a Bassavilla, Rock (EDS), Io sono le voci (Anordest) e Malapunta — L’isola dei sogni divoratori (Cut Up). Due nuovi testi sono in fase di pubblicazione con Odoya edizioni e Vincent Books (uscita prevista: autunno 2016). Il suo sito: www.daniloarona.com 

Sabina Guidotti

Sabina Guidotti è sceneggiatrice, scrittrice e editor. Allieva di Francesco Scardamaglia e Jean-Claude Carrière, si diploma in sceneggiatura all’Accademia Nazionale del cinema a Bologna. Ma è a Vincenzo Cerami a cui deve la sua formazione professionale. Lavora per anni come story editor. Uno dei suoi soggetti, L’ipotesi, commuove la poetessa Alda Merini, che decide di trovare per il testo una collocazione letteraria ancor prima che cinematografica. La poetessa firma la prefazione e L’ipotesi viene pubblicata con le serigrafie di Ugo Nespolo, in un’edizione artistica da Incisione Arte. L’opera viene presentata e recensita da Vincenzo Mollica sulla rubrica di approfondimento del TG1 “Do Re Ciak Gulp”. L’incontro con Alda Merini, a cui resterà legata fino alla morte, è fondamentale, perché la poetessa la esorta a sperimentare altri linguaggi narrativi. Per il teatro scrive il monologo “Giuda — La verità di un traditore”, pubblicato sulla rivista Teatri delle diversità n.46/47 -ottobre 2008, curata da Emilio Pozzi e Vito Minoia. È stata lettrice di manoscritti editoriali per Mondadori, per le collane Urania, Segretissimo, Epix. Lavora come editor per importanti scrittori italiani.

Land’s End. Il teorema della distruzione di Danilo Arona e Sabina Guidotti.
Edizioni Meridiano Zero, 2016.

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Giovanni Melappioni

Marchigiano, classe 1980, scrittore. Vincitore della "Giara d'Argento" RAI 2014 con il romanzo Missione d'onore. Terzo classificato al concorso "Parole Resistenti" dell'ANPI di Atessa (CH). Scrive su Laputa e Raccontare la Storia.

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Parliamo di sicurezza nei tribunali. Qualcuno dovrebbe dire quanta pressione fanno gli avvocati e i magistrati per non essere “stressati” dalle guardie giurate all’ingresso. Ricordo benissimo, data la mia esperienza come guardia presso il tribunale di una città capoluogo di provincia, le parole dell’ordine degli avvocati «Non ci romperete mica i coglioni tutti i giorni con questi tesserini!» e il procuratore di allora preoccupatissimo che magistrati e importanti membri dell’avvocatura potessero risentirsi di controlli troppo approfonditi. Il regolamento prevedeva di mostrare un tesserino, di plastica o su cartoncino, con timbri sbiaditi e una foto tessera che in confronto quella delle nuove patenti era un poster. Noi chiedevamo di mostrarlo ma poi il riscontro dov’era? Sapete che la metà dei censiti negli albi degli avvocati non ha una fotografia in tale albo? Quindi entra tizio X che mostra un tesserino con una fotina (può essere la sua, che cambia?) e tu non puoi riscontrare nulla. I primi giorni eravamo stressanti, telefonavamo in procura, all’ordine degli avvocati, alla questura finché non ci è stato fatto capire che «esagerate, che volete che succeda? Fatevela finita o tutti a casa!». Non è mica finita: c’erano avvocati che facevano entrare chiunque al grido «sta con me!»… e quindi? Quando li fermavi succedeva il finimondo. Come si permettono questi straccioni di ritardati -perchè se fai la guardia giurata è chiaro per tutti che tu sia un fallito- di mettere in dubbio la mia onestà? E quelli che entravano dalle porte di sicurezza aperte dagli amici e con un sorriso del cazzo ti dicevano «Che fai, mi spari?»

Ma il vero problema era che se facevi il tuo dovere diventavi una rottura di coglioni (e fascista), il servizio era stressante ma, ok, qualcuno di noi ci credeva che fosse importante e faceva spallucce, rimanendo ligio ai doveri imposti dal servizio. Quando però si scolla il collegamento con le forze dell’ordine, quelle vere, e pure loro pensano che tutto sia una farsa esagerata, che tanto che vuoi che accada, che dovete darvi una calmata che poi gli avvocati e i magistrati si incazzano… ecco, allora si può entrare con una pistola in tribunale.

Chiudo con la spiegazione della foto qui allegata. Quel coltello l’ho rilevato io con lo scanner a raggi-x. Non era un modellino da mercatino ma una lama in acciaio. Ho testimoniato al processo che ne è seguito. Sapete cosa ricordo di tutta la faccenda? Il carabiniere della polizia giudiziaria che mi dice «e fallo andare via, sai che coglioni adesso che tocca verbalizzare?» E l’avvocato dell’uomo che mi disse se avevo idea di quanto tempo avevo fatto perdere a tutti, visto che l’uomo aveva dichiarato di essersi sbagliato e che voleva riportare la lama in macchina! Certo, i miei sono tutti aneddoti. Aneddoti.

fucile d'assalto subacqueo APS (foto: R. Wilk CC-BY-SA 3.0)

(R.Wilk/Commons CC-BY-SA 3.0)

Questo fucile, dagli insoliti proiettili calibro 5.66 –lunghi ben 10 cm– è un TsNIITochMash “APS”, che sta per Avtomat Podvodny Spetsialnyy (Автомат Подводный Специальный, “fucile d’assalto speciale subacqueo”). Arma sviluppata appunto per il combattimento subacqueo, fu ufficialmente adottata dalla Marina sovietica nel 1975. La punta appiattita dell’ogiva creava una cavità idrodinamica che diminuiva l’attrito con l’acqua mentre la lunghezza conferiva stabilità al proiettile: la velocità di uscita risultava quindi superiore a qualsiasi altro dardo lanciato con i metodi tradizionali, aumentandone la gittata e la letalità. Poteva anche sparare fuori dall’acqua con una gittata utile fra i 50 e i 100 metri. In acqua, invece, le sue prestazioni variano a seconda della profondità: a 5 metri riusciva a mantenere forza sufficiente per causare ferite serie fino a circa 30 metri.
Nel 1989 la strana arma e il suo ancor più particolare munizionamento vennero mostrati “involontariamente” al mondo per la prima volta durante l’incontro fra George Bush e Michail Gorbačëv al Summit di Malta, uno degli ultimi atti della guerra fredda, poche settimane dopo la caduta del muro di Berlino Parte della scorta del presidente sovietico era composta da uomini delle operazioni speciali subacquee (gli “uomini rana”), armati appunto con il fucile APS.U

Valletta 2 dicembre 1989: il presidente degli Stati Uniti d’America George Bush e il segretario del partito comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv al Summit di Malta. Foto: JONATHAN UTZ / staff (Getty)

Ménagier de Paris, pag. 278

Ménagier de Paris, vol.1 pag.9Il Ménagier de Paris fu scritto intorno al 1393 e pubblicato a Parigi nel 1846 dalla Société des Bibliophiles Français in un’edizione curata da Jérôme Pichon, presidente della stessa Società. Noto nei paesi angolofoni come The Goodman of Paris, è un’opera omnia sulla conduzione della casa, sulla cucina, sul sesso e sul giardinaggio. Il testo si presenta come un insieme di consigli che un vecchio ed anonimo marito, la voce narrante, fornisce alla sua giovane -ed inesperta- moglie. Purtroppo, essendo un testo vario e che abbraccia tutto quello che viene considerato consono che una moglie sappia (e faccia), la parte dedicata alla cucina non è esattamente precisa come una moderna guida, soprattutto nelle dosi degli ingredienti. L’andare a naso, e per esperienza, era una delle qualità richieste a una brava donna di casa, in quel tempo. La ricetta è stata aggiornata dagli autori Odile Redon, Francoise Sabban e Silvano Serventi.

Ingredienti

  • 1 maialino da latte svuotato, le interiora vanno tenute da parte;
  • una grossa lombata di maiale;
  • 5 etti di prosciutto cotto;
  • Un etto di castagne bollite;
  • 20 uova;
  • Formaggio grattugiato (del tipo parmigiano andrà bene) 300-400 gr;
  • zenzero, zafferano, sale;

Preparazione

Far bollire le interiora e la lombata, il fegato non dovrà cuocere più di venti minuti. In una terrina schiacciare le castagna mescolandole con i tuorli delle uova. Prendere il bollito misto e unirlo al parmigiano, al prosciutto fatto a striscioline piccole e infine alla mousse di castagna e tuorli. Salare e unire le restanti spezie. Asciugare l’interno del maialino e cospargere le pareti di sale, riempirlo poi con il composto preparato in precedenza e cucire a sacco. Cuocere in una pirofila per circa 3 ore a 200 gradi. Consiglio: coprite le orecchie con alluminio se le si vuole mantenere croccanti e non completamente bruciate. Da accompagnare con la salsa camellina o salsa gialla (la seconda è più indicata per i periodi freddi).

Per concludere, ecco la ricetta in lingua originale direttamente dalla penna (d’oca) dell’anonimo maritino.

 POURCELET FARCI. Le pourcelet tué et acouré par la gorge soit eschaudé en eaue boulant, puis pelé: puis prenez de la char meigre de porc, et ostez le gras et les issues du pourcelet et mettez cuire en l’eaue, et prenez vint oeufs et les cuisiez durs, et des chastaingnes cuites en l’eaue et pelées: puis prenez les moyeux des oeufs, chastaingnes, fin fromage vieil, et char d’un cuissot de porc cuit, et en hachez, puis broyez avec du saffran et pouldre de gingembre grant foison entremellée parmy la char; et se vostre char revient trop dure, si l’alaiez de moyeux d’oeufs. Et ne fendez pas vostre cochon parmy le ventre, mais parmy le cousté le plus petit trou que vous pourrez: puis le mettez en broche, et après boutez vostre farce dedans, et recousez à une grosse aguille; et soit mengié ou au poivre jaunet se c’est en yver, ou à la cameline se c’est en esté.

Bibliografia e fonti

Anonimo, Ménagier de Paris, Société des Bibliophiles François. Parigi: 1393.

Credo sia bene premettere subito che un viaggio come quello che stiamo per descrivere e, più in generale, una simile visualizzazione dell’atomo e dei suoi componenti non sarà mai possibile effettuarla realmente. Nessuno strumento potrà mai mostrarci come è fatta una particella (addirittura dovremmo considerare come non-esistenti, da un punto di vista dell’umana idea di esistenza, le particelle sub-atomiche). Una volta il geniale fisico Werner Heisenberg si avvicinò ad una lavagna, durante un convegno, e cancellò la rappresentazione “a sistema solare” di un atomo -nucleo centrale e elettroni che orbitano intorno – affermando che solo le equazioni forniscono un disegno preciso, il resto è superfluo e fuorviante. Quello dei Quanti è un mondo senza luce, senza forme, pur tuttavia innegabilmente vero. Vi è però un modo per ovviare a questo limite scientificamente inviolabile: la nostra fantasia! Uno strumento adattabile a qualsiasi esperimento. Chiedo pertanto venia ai fisici e a tutti gli addetti ai lavori per questa forzatura ma sono, prima di tutto, un sognatore. Non ho saputo resistere.

1

1 – il nostro inviato Ettore

Siamo pronti, qui dal laboratorio scientifico dell’isola di Laputa, a partire con l’esperimento. Il nostro Ettore, inviato speciale offertosi volontario per la missione, è appena stato miniaturizzato e stiamo per spararlo con un acceleratore verso un atomo di idrogeno, in sospensione in un contenitore stagno.

«Prova. Mi senti Ettore?»

«Sì, confermo. Ricevo forte e chiaro»

«Ettore. Siamo pronti. Dovrai descrivere ogni particolare, ti ricordo che non riusciremo a visualizzare nulla, da qui»

Prepariamoci, sto per premere il pulsante di accensione. Il nostro inviato scorrerà lungo un tubo costituito di magneti, utilizzati per convogliare l’atomo prescelto verso il punto di rendez-vous, ed entrerà all’interno della speciale scatola di contenimento.

«Ettore. 3, 2, 1… via!»

Partito. Da questo momento non avremo modo di tracciare ogni suo singolo spostamento con la precisione necessaria, anche lui sarà soggetto al principio di indeterminazione di Heisenberg (vedi articolo precedente: “Meccanica quantistica sul campo di calcio“), speriamo di non perdere il collegamento vocale.

«Se mi senti, Ettore, direi di fare subito un check»

«Sì, tutto bene. Dà un po’ fastidio essere quasi privo di massa ma almeno perturberò il minimo necessario il nostro obiettivo. Ora sono in uno spazio decisamente quieto, nessun segno di attività energetica»

Il nostro Ettore è stato portato alla massa di 0,05 eV·c-2 (all’incirca la massa presunta del neutrino) assumendo carica neutra, questo per limitare le interazioni con le particelle che incontrerà, dandoci un quadro più o meno esatto della situazione di H (simbolo chimico dell’atomo di idrogeno che andremo a esplorare) al momento del contatto. A questo punto il nostro inviato dovrà inforcare le speciali lenti di cui è dotato, perché i fotoni, particelle responsabili della vista umana e di tutte le altre emissioni elettromagnetiche, saranno all’incirca della sua stessa taglia. Un po’ complicato per loro interagire con i suoi occhi.

«Ettore, cosa osservi in questo istante?»

«Mi sto avvicinando a quella che sembrerebbe una nuvola, o meglio ancora, l’effetto è quello che si ha osservando un nugolo di api che sciamano intorno all’alveare. Credo di essere vicino al guscio orbitale dell’elettrone»

L’atomo di idrogeno è l’atomo “madre”, il più nobile e il più facile da reperire in natura, composto da un solo elettrone orbitante intorno al nucleo. Vi sono tre isotopi (atomi uguali con differente numero di neutroni) di idrogeno: in questo particolare viaggio entreremo in contatto con il Deuterio, l’isotopo composto da un elettrone, un protone e un neutrone. Torniamo a Ettore che si è avvicinato all’orbitale (da non confondersi con orbita intesa come nella meccanica newtoniana. In realtà si tratta di una porzione di spazio in cui la probabilità di reperire un elettrone è alta ma non assoluta) dell’elettrone, descritta da lui come una coltre nebbiosa, quasi una nuvola ma uniformemente solida e distribuita, a causa dell’incredibile velocità e dell’indeterminazione con la quale questa particella si muove intorno al nucleo. Per fare un esempio che potrebbe in qualche modo rendere tutto più chiaro immaginate una matita fatta muovere molto velocemente fra le dita della mano, quando per effetto ottico sembra sventolare con i contorni indefiniti e riempire ogni spazio fra i due estremi del movimento oscillatorio.

Atomo di Elio

2 – Atomo di elio: l’orbita dell’elettrone è una “nuvola”  costituita dalle probabili posizioni dell’elettrone.

«Ettore, descrivici qualcosa. Sei vicino all’elettrone?»

«Credo di sì ma potrei anche sbagliare. E’ davvero veloce, riesco solo a percepire l’onda energetica che ogni tanto mi sfiora. Praticamente è ovunque quasi contemporaneamente»

«Riesci a proseguire oltre?»

L’urto con l’elettrone potrebbe provocare l’emissione di particelle. Gli urti generano energia e dato che l’energia è massa e viceversa -come Einstein ha ormai reso noto più di un secolo fa con la sua celeberrima formula- deve fare attenzione, non può correre il rischio di spezzettarsi in elementi ancora più piccoli.

«Davvero, è incredibile. È come trovarsi di fronte all’elica di un aeroplano. Da ferma la sappiamo composta da due pale ma a pieni giri è come se fosse un muro, un pericolosissimo muro»

«Ettore, fai attenzione!»

«Sono passato. Qualcosa -non io spero- ha leggermente perturbato l’orbita dell’elettrone e mi è praticamente passato sopra, senza che io potessi percepire il movimento. Ora è dietro di me, sono all’interno del guscio»

Eccitazioni esterne possono comportare il cambiamento di livello energetico, in questo caso l’elettrone ha acquistato energia allontanandosi dal nucleo. Nel farlo non si è spostato nel nostro comune senso di movimento. Dobbiamo accettare il fatto che ora sia “più indietro” rispetto a poco prima. Immaginando il sistema atomico come una cipolla potremmo affermare che gli spicchi ben distinti corrispondono a orbite elettroniche, e ogni qual volta vi sia una perturbazione tale da variare l’orbita semplicemente ci si riferirà a uno spicchio di cipolla successivo e non a uno “spostamento” vero e proprio di un unico pezzo del vegetale da soffritto.

Atomo di idrogeno

3 – Atomo di idrogeno: l’orbitale elettronico a confronto con il nucleo (non in scala, le misure sono espresse in Ångström: 1Å = 1×10−10 m)

«Bene Ettore, prosegui verso il nucleo allora»

«Sarà dura. C’è un enorme vuoto ora»

Il nucleo di un atomo dista dagli orbitali elettronici dalle 10.000 alle 100.000 volte il raggio del suo nucleo. Se un nucleo fosse grande quanto un uomo alto 1,80 m, l’elettrone più vicino disterebbe circa 20 km.

«Eccolo laggiù, pulsante di energia. Mi avvicino»

Le particelle più macroscopiche e più note, componenti il nucleo sono i protoni e i neutroni. Nello specifico atomo in cui abbiamo inviato Ettore vi sono un protone, con carica positiva (opposta a quella dell’elettrone che è negativa) e un neutrone con carica nulla.

«Sembrano due figure ondulate, all’incirca circolari. Ma non sono “solide”, piuttosto sembra oscillare e intersecarsi come le onde d’acqua che si generano se lanciamo contemporaneamente due sassi in uno stagno, solo che non tendono a diradarsi, qui il movimento è continuo. Provo ad avvicinarmi ancora.»

Il legame che tiene strette le due particelle è dato dalla cosiddetta Forza Nucleare Forte, un risultato dell’enorme energia che tiene insieme i Quark (componenti delle particelle del nucleo, fra poco cercheremo di descriverli tramite Ettore).

«Come uno sciame di formiche, elementi che non saprei come altro definire -informi e mutevoli come macchie di inchiostro che cola- circondano le due particelle.»

«Ettore, confermi quanto dici? Devono essere I gluoni! I gluoni nascono dal cambiamento di colore, termine utilizzato per descrivere lo stato dei Quark…» «Base. Devo interromperti… sta avvenendo qualcosa…»

«Ettore? Ettore?» Il nostro inviato non risponde più.

Cerchiamo di ripristinare il contatto modificando le frequenze… fatto! Dovrebbe funzionare.

«Ettore! Ci ricevi?»

«Eccomi, mi sono dovuto spostare. Qualcosa non va nel contenitore ermetico»

«Cosa intendi? Spiegati meglio, e cerca di non farti male»

«Puoi tranquillizzare gli ascoltatori, sono al sicuro»

Le radio, pur speciali, gracchiano e spezzettano la conversazione, rendendo difficile avere un quadro della situazione.

«Va bene ma spiegaci cosa sta avvenendo»

«C’è stata una specie di onda di energia che mi ha investito. Credo di aver interagito con l’atomo, anche se in forma molto lieve. Mi devo allontanare»

«Bene»

Mentre il nostro inviato si sposta per non influire sulla stabilità atomica riprendiamo per un attimo il concetto di colore dei quark. In tutto sono tre: rosso, blu e verde; gli antiquark si presentano con gli anticolori: antirosso, antiblu e antiverde rappresentati come ciano, magenta e giallo nelle tabelle. I gluoni hanno una mescolanza di due colori, per esempio blu-antirosso, che rappresenta la loro carica di colore. Ovviamente non si parla di colori nel senso che noi tutti attribuiamo al termine, in realtà si tratta di una caratteristica prettamente matematica di queste particelle che viene solo per semplicità indicata in questo modo.

Colori dei quark

4 – I “colori” dei quark e l’interazione tramite scambio di gluoni

Quarks

5 – Animazione dell’interazione tra quark

«Riesco a distinguere ancora il continuo pulsare dei Quark. Da questa distanza si può comprendere meglio come i Barioni (particelle formate da tre quark, come i protoni ed i neutroni) siano in realtà la risultanza dell’unione dei tre Quark che li compongono privi di un proprio perimetro definito»

Sì, come per gli addetti ai lavori è ben noto, la necessità di raffigurare in qualche modo gli elementi subatomici ad uso divulgativo e didattico ha comportato l’utilizzo di sfere, palline colorate e oggetti simili. In realtà i protoni e i neutroni sono più simile a delle vibranti amebe piuttosto che a oggetti sferici o comunque solidi.

«Ettore, riesci a distinguere i tipi di quark?»

«Ad occhio sono tutti uguali, purtroppo non v’è modo di riconoscerli»

Ci sono sei tipi di quark, denominati in maniera alquanto fantasiosa: Up, Down – Charm, Strange – Top e Bottom. Essi sono divisi in tre generazioni che variano per la massa crescente dalla prima alla terza. Fra di loro si distinguono per la caratteristica detta sapore che come per il colore non ha nulla dell’accezione “umana” del termine se non che occorreva un termine e questo fu scelto. In realtà il sapore è un numero quantico, ossia l’insieme delle proprietà che descrivono una data particella indicanti i valori delle grandezze fisiche/matematiche.

É ora di far rientrare il nostro coraggioso inviato

«Ettore, sei pronto? Iniziamo la procedura di rientro»

«Sono pronto base. È stato un viaggio emozionante»

«Non preoccuparti, sono sicuro che il pubblico -come me- non vede l’ora di farti ripetere una simile esperienza»

Un saluto a tutti voi, ci rivedremo presto per un altro emozionante viaggio dove “nessuno si è mai spinto prima”.

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Bibliografia

Immagini

  1. © Warpedgallerie, Fotolia
  2. [PD] Commons
  3. [PD] Commons
  4. [CC-BY-SA-3.0] Wikipedia
  5. Krismalac, [CC-BY-SA-3.0] Commons

La guerra delle Falkland (o delle Malvinas) è stata definita come l’ultima guerra fra nazioni cosiddette “occidentali”, ossia considerate, in maniera stereotipata, dell’insieme di stati industrializzati concettualmente contrapposti ai paesi arabi, ai paesi del terzo mondo e dell’area di influenza dell’allora esistente URRS. Fu anche la prima guerra combattuta secondo la dottrina della supremazia aerea, sia nella strategia combinata fra armi che nei presupposti tattici dell’eliminazione di obiettivi prefissati con attacchi dall’alto.

Port Stanley, 2 aprile 1982

2 – Port Stanley, 2 aprile 1982 : le truppe ed i cingolati LVPT del “Batallon de Vehiculos Anfibios”, fanteria meccanizzata della marina militare argentina, pattugliano Port Stanley subito dopo l’occupazione.

CaboBatista

3 – Port Stanley, 1982: il “cabo” Jacinto Eliseo Batista della marina argentina conduce alcuni Royal Marines di stanza alle Falkand catturati durante l’invasione.

Correva l’anno 1982 e il governo di Galtieri si ritrovava alle prese con una devastante crisi economica che aveva fiaccato l’intera Argentina e con le conseguenti sommosse popolari, animate anche dall’esasperazione per il pugno di ferro con il quale la giunta militare guidava il paese da anni. La necessità di arginare quella che si profilava come un’insurrezione devastante portò alla configurazione di un piano che avrebbe placato gli animi, puntando sullo spirito nazionalistico del popolo e rinsaldando contemporaneamente il vitale supporto dei vertici militari al governo: le isole Falkland (Malvinas in spagnolo), considerate territorio argentino sin dal XVIII ma parte dei territori oltremare del Regno Unito, sarebbero state occupate definitivamente, ponendo fine alla diatriba secolare. Galtieri contava nel ritorno di prestigio enorme, consapevole di quanto la questione fosse sentita dai suoi concittadini. Il 2 aprile le forze navali argentine sbarcarono la forza di occupazione che in breve prevalse sui 68 Royal Marines di stanza. La reazione britannica non si fece attendere.

Margareth Thatcher, primo ministro inglese conosciuta anche come “la lady di ferro” ordinò l’allestimento di una Task Force mista, unità navali, Royal Marines, Paracadutisti, Battaglioni della Guardia (Galles, Scozia e Brigata Gurkha[1]) e i reparti speciali SAS e SBS. L’elefantiaco sistema burocratico delle Nazioni Unite, pur avendo deciso per le sanzioni economiche e diplomatiche nei confronti dell’Argentina, non fu in grado di ottenere alcun risultato trovandosi con le spalle al muro a dover osservare gli eventi precipitare, limitandosi a negare un beneplacito all’azione militare. D’altra parte la guerra era considerata inevitabile dal governo britannico e auspicabile -contando sull’enorme distanza e i relativi problemi per gli Inglesi- dagli Argentini. Difficilmente, quindi, la si sarebbe potuta evitare.

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4 – Giugno 1982: la bandiera del Regno Unito viene issata sul ponte del cacciatorpediniere britannico
HMS “Cardiff” (D108), al largo di Port Stanley, al termine delle ostilità (foto: K.Griffiths)

Le operazioni militari iniziarono il 19 aprile. Gli Argentini dimostrarono un enorme capacità nella guerra aerea ma scarse abilità a terra. Numerose unità navali inglesi furono danneggiate, 5 unità navali addirittura affondate, dall’abilità dei piloti avversari. Man mano che il conflitto progrediva la Task Force inglese riuscì a ottenere il controllo del mare e del cielo, il 20 giugno anche Port Stanley, la capitale, fu riconquistata. Le perdite inglesi ammontarono a 255 morti e 776 feriti, gli Argentini ebbero 657 caduti e 1070 feriti.


Absent father – Letter from a Falklands veteran,  Harp and a Monkey (Harp and a monkey [Explicit], 2011)

Note:

  1. [1]La Brigata Gurkha (“Brigade of Gurkhas” in inglese) è una unità dell’Esercito britannico i cui componenti sono arruolati tra la popolazione nepalese.

Bibliografia:

Immagini:

  1. (alto a sinistra) TUBS [CC-BY-SA-3.0] – Commons;
  2. Armada de la República Argentina, 1982 [PD] – Commons;
  3. Gente, 1982 [PD] – Commons;
  4. Ken Griffiths, 1982 [CC-BY-SA-3.0] – Commons.

Definire incomprensibile una disciplina fisica può apparire paradossale, dato che tale scienza dovrebbe spiegare come funziona ogni cosa dell’universo. Eppure la quantistica, pur avendo avuto innumerevoli riprove di solidità teorica e altrettante applicazioni pratiche, rimane ancora un mistero profondo per l’umanità. Nulla, dei principi fondamentali di questa disciplina, può essere infatti descritto nei termini della “fisica classica” o “Newtoniana”.

Facciamo un esempio: in un campetto di calcio uno dei nostri amici pone il pallone a terra e sfida il resto della squadra a indovinare il punto esatto dove essa si fermerà dopo averla calciata; la cosa non è semplice da fare ad occhio nudo, non avendo modo di calcolare tutte le variabili fisiche implicate nell’azione. Se l’esperimento venisse effettuato in laboratorio, calcolando attrito del terreno, dell’aria, forza del calcio e altre variabili si arriverebbe a poter stabilire l’esatto punto di arresto. Se il nostro amico, che da adesso in poi chiameremo Ettore per comodità (e tributo al fisico Majorana), rimpicciolisse al punto da poter tirare un calcio ad un elettrone nessun laboratorio potrebbe affermare, a priori, dove questo si andrebbe a fermare. La particella potrebbe benissimo comparire alle spalle dell’ignaro calciatore, o sparire dalla sua vista per sempre. Esistono solo delle probabilità, più o meno esatte, per descrivere il moto sub-atomico e tutte indifferenti ai calcoli circa la forza, il moto, l’arco del calcio di Ettore. L’esempio è ovviamente un gioco mentale, l’elettrone non è calciabile e nemmeno si “fermerebbe” nel senso comune del termine ma pone i presupposti per introdurre la questione principale: la fisica quantistica descrive fenomeni che non hanno corrispondenza con il “reale” percepito da noi uomini quotidianamente. Nulla è, in alcun modo, descrivibile se non attraverso l’uso di esempi che saranno, nella migliore delle ipotesi, semplici proiezioni mentali di esseri abituati al tridimensionale che l’evoluzione ha portato a percepire velocità limitate e uno spettro elettromagnetico minuscolo.

Rappresentazione di un "corpo nero" come oggetto fisico: una cavità nera con un piccolo foro [CC-BY-SA-3.0]

2 – Rappresentazione di un “corpo nero” come oggetto fisico: una cavità nera con un piccolo foro.

Il primo principio che sconvolse le menti e gli animi degli scienziati è quello che diede anche il nome alla materia: il quanto. Nel 1900 ogni componente della realtà sembrava essere collocato nel giusto spazio, con leggi e proprietà ben descrivibili finché Max Planck non si trovò a ragionare su un problema che attanagliava le società elettriche di tutto il mondo: «Qual è il miglior materiale per la preparazione di luminarie?» Per rispondere a tale quesito, e per far risparmiare quanto più possibile per i materiali illuminanti, Planck, così come molti altri suoi colleghi prima e contemporaneamente a lui, aveva iniziato a lavorare sul Corpo Nero, un oggetto ideale capace di assorbire completamente la luce e che scaldandosi generava energia e oscillazioni in perfetto equilibrio termodinamico. La classificazione di queste oscillazioni costrinse Planck a quello che lui stesso considerò “un atto di profonda disperazione”. In sostanza si accorse che, contrariamente a quanto fino a quel momento quasi tutti i fisici del mondo ritenevano assodato, l’energia non “fluiva” continua come acqua da un rubinetto, nei processi, ma l’unico modo per poterla determinare era considerarla distribuita in “pacchetti indivisibili”, che lui tra lo stupito e lo sconvolto, denominò quanti (dal latino quantum, quantità). Viene da chiedersi il perché di tanto sconvolgimento, in fondo, detto così sembra che io stia affermando che l’acqua di questo ipotetico rubinetto stia uscendo a spruzzi invece che uniforme, una cosa che può tranquillamente capitare senza che nessuno ne rimanga sorpreso. La questione è leggermente più complessa, nel mondo delle energie. Proviamo con un esempio: Ettore sta attraversando la porta, è un bel ragazzo alto e vestito di jeans e maglietta; siamo tutti d’accordo sulla sua “indivisibilità”, giusto? Ok, se voi foste stati Planck, quella notte del 1900, avreste visto Ettore entrare nella stanza… Un pezzo alla volta ma comunque integro nella sua umanità! Immaginiamo, con molta fantasia, la bocca di Ettore salutare, fluttuante, prima di essere raggiunta dal volto, mentre avanza verso di noi. In pratica pacchetti di Ettore che si muovono senza che esso ne abbia a subire le conseguenze di questa apparente mutilazione.

Disintegrazione della persistenza della memoria

3 – “Disintegrazione della persistenza della memoria” di Salvador Dalí (1952-54). L’artista, impressionato dalle nuove frontiere della scienza, (note) reinterpretò la propria celebre opera del 1931 “La persistenza della memoria” scomponendo parte della scena in “pacchetti”. (fair use)

Max Planck nel 1933

4 – Max Planck nel 1933 (Commons)

La risoluzione della distribuzione elettromagnetica dell’energia di cui Planck si stava occupando gli fece stabilire una costante, h (pari a 6,626×10 -34Js), come approssimazione minima, ma inviolabile, delle caratteristiche del mondo microscopico. In pratica la costante di Planck rese energia, impulso e momento angolare (ossia i parametri di definizione delle particelle subatomiche) quantità multiple (riprendendo Ettore a pezzi di poco prima: bocca, mani, piedi ecc. in sequenza) e mai valori finiti (Ettore intero come un qualsiasi essere umano). Non c’è quindi un fluire costante di energia elettromagnetica definito ma una quantità di pacchetti indivisibili che lo compongono. Agli inizi del ‘900 si era certi dell’esistenza dell’atomo, ora era stata aperta la via per la scoperta e la classificazione dei suoi elementi costitutivi. Le particelle componenti gli atomi e il mondo dell’invisibile erano state dotate di un “vestito” attraverso il quale mostrarsi al mondo. La sensazionale scoperta scosse l’universo della fisica fin nelle sue fondamenta e il periodo che seguì i trent’anni successivi alla nascita della quantistica, fu uno dei più incredibili da un punto di vista scientifico. Menti passate alla storia si ritrovarono a dibattere, studiare, confrontarsi e scontrarsi in un clima di grande fermento e di stimoli altissimi. Einstein, Bohr, Lorentz, de Broglie, Planck, Rutherford, Heisenberg, Schrodinger, per citare qualche nome, personalità che fanno rizzare i peli sulle braccia solo a nominarle, tutti impegnati a cercare di capire l’incredibile mondo degli atomi. In pratica, “trovate” le particelle ora si era in grado di descriverne le azioni e se aver scoperto i quanti ebbe dell’incredibile, quelli che divennero i principi della meccanica quantistica lasciano ancora oggi sbalorditi.

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5 – Rappresentazione del dualismo onda-particella

L’introduzione ai principi specifici necessita della rinuncia a qualsiasi tentativo ontologico di comprensione. Sono dei dogmi scientifici su cui soffermarsi cercando una logica è improduttivo. Osserviamo subito il primo aspetto sconcertante: il paradossale rapporto dualistico onda-corpuscolo che contraddistingue le particelle. Gli esperimenti dimostrano che esse sono sia onda di energia che corpo puntiforme dotato di massa. Ettore versione particella in questo momento sarebbe un ologramma a cui si potrebbe stringere la mano, sentendone bene la stretta. Ossia un’immagine (la parte “energia” dell’esempio) ma anche un corpo solido. L’osservazione sperimentale però permette di rilevare solo una delle due forme alla volta, fenomeno questo chiamato Principio di Complementarietà sviluppato da Niels Bohr (1885-1962) e che afferma, in breve, che interagire con le particelle pone fine al loro stato mostrando, all’occasione uno e uno soltanto dei due aspetti.

Werner Heisenberg e Niels Bohr (Fermilab, U.S. Department of Energy)

6 – Werner Heisenberg e Niels Bohr (Fermilab)

Questo ci introduce al secondo principio fondamentale, quello di Indeterminazione di Heisenberg: essendo l’interazione sperimentale in laboratorio “invasiva” la precisione dei valori osservati non sarà mai infinita ma tenderà a diminuire proporzionalmente in uno dei risultati rispetto agli altri: in pratica se volessimo calcolare la posizione di una particella perderemmo informazioni sulla sua quantità di moto e viceversa. Il mondo subatomico ci è precluso nella sua interezza. Torniamo a utilizzare Ettore: gli chiederemo di camminare sopra un asse di legno, poi, bendatici gli occhi andiamo a fare qualche rilevamento: per sapere dove si trova esattamente al tempo X possiamo solo toccarlo, essendo bendati, facendo ciò, però, modificheremo la sua velocità (dovrà rallentare per non cadere giù dall’asse mentre con le mani lo tastiamo) e quindi avremo come dato certo solo la sua posizione. Al contrario se volessimo sapere la sua velocità saremmo costretti a percepire lo spostamento d’aria o il rumore sequenziale dei suoi passi riuscendo a compiere calcoli esatti, con un po’ di attenzione ma trovandoci tra le mani solo una serie di probabili posizioni in cui Ettore si trovava nello spazio di tempo ΔX in cui abbiamo rilevato matematicamente la sua velocità. Con le particelle funziona esattamente così. L’ultimo fenomeno che non possiamo tralasciare è l’entanglement (intreccio) che afferma che lo stato quantico di due sistemi è indissolubilmente legato allo stato di ciascun singolo sistema indipendentemente dalla distanza che intercorre fra essi, e qualunque valore osservabile uno dei due manifesterà l’altro sarà uguale ed opposto. Con un esempio cercherò di essere più chiaro: Ettore e Enrico (il suo corrispondente entangled per questo esempio, in onore di Fermi) sono legati nell’ipotetico sistema denominato “campo da calcio”, in cui essi sono collocati uno per porta e un muro di tre metri a centro campo impedisce loro di guardarsi e parlarsi. Qualunque movimento Ettore compirà, Enrico contemporaneamente lo imiterà in senso opposto, senza nessun tipo di comunicazione diretta (voce, vista, aiuto esterno) e c’è di più: la grandezza del campo da calcio potrebbe aumentare fino alle dimensioni di una galassia senza alcuna influenza sul fenomeno, purché restino validi i parametri del sistema “campo da calcio” a cui li abbiamo associati. Einstein ne fu così raccapricciato che dal momento in cui ne venne a conoscenza tentò di confutarne l’esistenza introducendo il concetto di variabili nascoste, ossia spiegazioni che al momento sfuggivano ai ricercatori costringendoli ad ammettere gli sconcertanti teoremi della meccanica quantistica, (famoso è l’esperimento mentale chiamato EPR dai nomi dei fisici Einstein, Podolski e Rosen). Non riuscirà nell’intento, venendo smentito nella teoria da Bell, negli anni ’60 e dalle prove sperimentali negli ultimi anni del XX secolo. Ad oggi l’entanglement è stato dimostrato in diverse occasioni ed è alla base dei futuri computer quantistici.

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Solvay_conference_1927

7 – I “padri” della meccanica quantisitca: foto di gruppo dei 29 scienziati partecipanti alla V Conferenza di Solvay del 1927 presso l’Institut International de Physique Solvay in Leopold Park. Fu la più alta concentrazione di premi Nobel in un singolo luogo mai verificatasi.
In prima fila (dal basso) da sinistra: Irving Langmuir (Nobel per la chimica 1932), Max Planck (Nobel per la fisica 1918), Marie Skłodowska-Curie (Nobel per la fisica 1903 e per la chimica 1911), Hendrik Antoon Lorentz (Nobel per la fisica 1902), Albert Einstein (Nobel per la fisica 1921), Paul Langevin, Charles-Eugène Guye, Charles Thomson Rees Wilson (Nobel per la fisica 1927), Owen Willans Richardson (Nobel per la fisica 1928).
In seconda fila da sinistra: Peter Debye (Nobel per la chimica 1936), Martin Knudsen, William Lawrence Bragg (Nobel per la fisica 1915), Hans Kramers, Paul A.M. Dirac (Nobel per la fisica 1933), Arthur Compton (Nobel per la fisica nel 1927), Louis de Broglie (Nobel per la fisica (1929), Max Born (Nobel per la fisica 1954), Niels Bohr (Nobel per la fisica 1922).
In terza fila (in alto) da sinistra: Auguste Piccard, Émile Henriot, Paul Ehrenfest, Edouard Herzen, Théophile de Donder, Erwin Schrödinger (Nobel per la fisica 1933), Jules-Émile Verschaffelt, Wolfgang Pauli (Nobel per la fisica 1945), Werner Heisenberg (Nobel per la fisica 1932), Ralph H. Fowler, Léon Brillouin.

Note:

Bibliografia e fonti:

  • Kumar, Manjit. Quantum: da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà. Milano: Mondadori, 2010.
  • Rossetti, Cesare. Rudimenti di meccanica quantistica. Torino: Levrotto & Bella, 2011.

Immagini

  1. rappresentazione artistica © Silvio Dell’Acqua
  2. Brews ohare, 2012 [CC-BY-SA-3.0] Commons
  3. Salvador Dalí, 1952-1954. Fair use via Wikipaintings
  4. [PD] Smitshonian Library
  5. Maschen, [PD] Commons
  6. [PD] Fermilab
  7. 1927 [PD] Commons

Astronauta!

Yuri Gagarin

Questa è una delle risposte più frequenti dei bambini quando viene loro chiesto «cosa vuoi fare da grande?» Il desiderio di andare oltre, di approdare in luoghi inesplorati – benché si sia ancora troppo giovani per avere cognizione anche di quelli esplorati…- l’incanto di portare il proprio corpo in luogo accessibile solo all’immaginazione: questo riassume la risposta di quei bambini. Poi, crescendo, quest’ambizione viene nella maggior parte dei casi soffocata da una realtà dove altri piaceri più a portata di mano e altri futuri più verosimili costituiscono un catalogo meno impegnativo tra cui scegliere quale sarà lo sfondo della propria esistenza.

Tuttavia ci sono dei bambini che rimangono stregati da quel primigenio impulso al punto da impiegare tutte le loro energie per mantenere la promessa fatta allo spazio di, un giorno, andare lassù ad incontrarlo. Uno di questi bambini nacque il 9 marzo del 1934 nel villaggio di Klushina, in Russia. Un figlio dell’umanità che il 12 aprile del 1961 realizzò per primo il sogno di quei bambini, bucando l’atmosfera e perdendosi in quello spazio dal quale poté ammirare la Terra da un’angolazione diversa e “impersonale”. Dovette essere come per un globulo rosso uscire dal corpo in cui lavora e guardare il “padrone” mentre continua la sua regolare attività. Un punto di vista nuovo, unico, speciale. Un punto di vista che probabilmente costringeva a riconsiderare tutte le nozioni assimilate sino ad allora. Vedere ridotto ad un anonimo pallino blu quello che aveva sempre percepito emotivamente (quindi  non razionalmente) come il centro dell’universo deve aver creato uno stato d’animo nuovo; e quella terra, quasi offesa dall’essere considerata  un soldato di plotone anziché il Capo di Stato Maggiore non la prese bene e se la legò al dito per vendicarsi 7 anni più tardi. Probabilmente, mentre gironzolava lassù nell’ignoto, egli si sarà domandato se per caso non stesse vivendo un sogno e, per qualche secondo, si sarà risposto pure di sì, tanto quello spettacolo doveva essere meraviglioso e inconsueto per pupille umane. Inviare uomini in orbita e oltre, però, non è solo sogni e poesie. Le missioni spaziali comportano costi elevatissimi che solo poche nazioni sono in grado di permettersi, e la pionieristica corsa verso lo spazio fu guidata, in gran parte, da esigenze politiche che rischiano di svilire la grandiosità dell’impresa da un punto di vista dell’umanità che vi è dentro. L’Unione Sovietica, contrapposta agli Stati Uniti durante la guerra fredda, fu la prima nazione a riuscire ad inviare un razzo vettore con equipaggio umano fuori dall’atmosfera terrestre.

Maquette della Vostock-1 al Museo dell’Aria e dello Spazio “Le Bourget” (Parigi). [Commons]

La missione spaziale che consacrò Gagarin alla storia si componeva di tre fasi, essenzialmente: il lancio, il percorso orbitale e il rientro. Ogniuna di esse era distinta dalle altre per le problematiche cui si doveva far fronte e il risultato finale può ben definirsi come la perfetta coniugazionedi tre differenti “sotto missioni”. L’astro-velivolo utilizzato era composto di tre stadi e si basava su un missile R-7 “Semërka”, un arma sviluppata con capacità intecontinentali riconvertita per l’occasione. La sezione principale era la navicella Vostok 1, dentro la quale il cosmonauta avrebbe compiuto il viaggio. Essa era divisa in due sezioni: la SA, Spuskaemyjj Apparat (Спускаемый Aппарат – veicolo di discesa), era di forma sferica, con un diametro di 2,30 m e un volume di 1,6m³, concepita per il passeggero e conteneva il seggiolino eiettabile e la strumentazione di bordo. La SA era collocata nella parte superiore della PO, Priborvyj Otstek (Приборного Oтсека – sezione strumentale), di forma conica, che costituiva il motore per la navigazione orbitale e il successivo rientro.

Vettore R-7 utilizzato nel programma “Vostok” [Commons]

La navicella Vostok, inglobata nello scudo a forma di proiettile che si sarebbe staccato nella fase immediatamente successiva all’uscita dall’atmosfera terrestre, era collocata in cima al razzo R7, per una lunghezza totale di 40 metri. Il sistema “Signal” era utilizzato per la trasmissione di semplice telemetria (aggiornamento continuo della posizione). Un secondo mezzo, chiamato Tral-P1, avrebbe fornito ausilio per la telemetria. Per le comunicazioni vocali a due vie si utilizzò il sistema “Zarya” (alba) operante nelle bande a onde corte VHF (30-300 Mhz). Infine c’era il sistema “Rubin” (rubino) che forniva misure sulla traiettoria durante il volo. Nelle fasi dell’atterraggio c’erano a disposizione: il sistema “Peleng” (condotta) costituito da un radiofaro sulle onde corte per determinare la posizione durante e dopo il rientro, il sistema “Raduga” (arcobaleno) per le radiocomunicazioni. Undici antenne sporgevano dal modulo strumentale. Di queste, tre erano del sistema Signal, quattro erano del sistema Zarya, due erano per la telemetria e due per ricevere i comandi via radio. Analizziamo ora, in maniera generale, le tre fasi della missione spaziale. Il lancio avveniva con il posizionamento verticale del vettore. Ogni corpo dotato di massa esercita un’attrazione gravitazionale con propagazione pressoché infinita e con intensità decrescente allontanandosi dal suo centro. Per permettere a un’astronave di vincere l’attrazione terrestre occorrerà una spinta sufficiente a raggiungere a raggiungere, con accelerazione costante, gli 11 km/s. Tale velocità è detta “di fuga”, ossia la velocità alla quale l’energia cinetica di un corpo è pari al modulo dell’energia potenziale gravitazionale. Il sistema utilizzato per decenni era quello di dotare le navicelle vere e proprie di razzi di spinta e enormi serbatoi di propellente che si sarebbero poi sganciati, una volta esaurito il loro compito nella fase ascensionale. Il percorso orbitale costituiva la parte meno pericolosa ma sicuramente più emozionante dell’intero processo. Separato il secondo stadio del vettore, circa 5 minuti dopo il lancio, il motore supplementare RD-0190 si accese a accelerò, deviando la navicella lungo l’orbita prestabilita (65° rispetto all’equatore, altitudine variabile fra i 170 e i 320  km), la carenatura esterna che conteneva i moduli SA e PO si staccò. Gagarin era ora il primo uomo a sorvolare la superficie terrestre dallo spazio. L’intero percorso durò 108 minuti. La fase di rientro prima dell’accensione dei retro-razzi, la navicella doveva essere correttamente orientata. Questo avvenne usando tre comandi che accendevano piccoli ugelli di gas compresso: il sistema a retro-razzo TDU funzionò con successo.

Yuri Gagarin [archivi NASA]

Di seguito all’accensione del motore a reazione, l’ampia sezione strumentale si doveva separare dall’apparato di discesa sferico. La capsula doveva staccarsi 10 secondi dopo l’accensione completa del retrorazzo ma questo non successe per motivi sconosciuti. La separazione fra SA e PO avvenne approssimativamente dieci minuti dopo il previsto. Il meccanismo di separazione, composto da quattro strisce di metallo collegate insieme, divise i due moduli in tempo, però i due compartimenti rimasero collegati da alcuni cavi. Il più pesante apparato di discesa (SA) rimase sotto la più leggera sezione strumentale (PO). Fu il momento più pericoloso, che con ogni probabilità sarebbe stato fatale, dell’intero viaggio. Attraversati gli strati più alti dell’atmosfera, a circa 7000 metri da terra, l’astronauta fu espulso dal SA e ridiscese con un ampio paracadute personale. Sano e salvo. In seguito, come pure gli Stati Uniti fecero, si stabilì di dotare l’intero modulo “cabina” di paracadute e di evitare il lancio dell’equipaggio.

L’impresa di Gagarin resta una delle più memorabili nella storia dell’umanità e come tale ha ispirato numerosi artisti. Uno di questi è Claudio Baglioni che nel 1976 compose una canzone su quest’uomo straordinario: Gagarin. Oltre al testo che ci proietta nel cuore del bambino Yuri, ci sono anche i suoni: dopo l’incipit strumentale, una melodia quasi mistica evoca uno stato d’animo di apprensione e curiosità in mezzo a tanto buio.

da: Creativity Papers n°7 Maggio – Giugno 2012: 27-30. web. Per gentile concessione degli autori.

Parole dallo spazio

Il primo comunicato radio ufficiale al mondo fatto dallo speaker radiofonico Yuri B. Levitan:

La prima nave-satellite con un umano a bordo è stata lanciata in un’orbita intorno alla Terra dall’Unione Svietica. Il pilota-cosmonauta dell’astronave satellite Vostok è il cittadino dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Maggiore dell’Aeronautica Youri Alekseyevich Gagarin. 

Dialogo tra il Centro di Controllo e Vostock-1:

Centro Controllo: «il tuo polso è 64, la respirazione 24. Tutto sta andando normalmente.»
Gagarin: «Ricevuto. Questo significa che il mio cuore sta battendo»
C.C: «Yuri, non ti stai mica annoiando lì?»
Gagarin: «Se ci fosse un po’ di musica, starei un po’ meglio».
C.C: «Un minuto.»
Gagarin: «Datemi delle canzoni d’amore».
C.C: «T più 100. Come ti senti?».
Gagarin: «Io mi sento bene. Come state voi?».

Gagarin: «Vedo le nuvole […] È meraviglioso. Che bello! Come mi sentite?».
C.C: «Noi ti sentiamo bene, continua il volo».

Gli autori:

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