“Il cucchiaino scomparso” di Sam Kean è un bellissimo libro di divulgazione scientifica. Il titolo si riferisce a un famoso scherzo in voga nel diciannovesimo secolo quando fu scoperto il Gallio, un metallo che si presenta in forma liquida già a 30°C. Il suo colore lo rende simile ai metalli usati per forgiare i cucchiaini da tè e per questo motivo, il Gallio metallico era usato per modellare gli oggetti anzidetti che scomparivano letteralmente quando usati come posate per servire il tè bollente. Il libro si può intendere come una storia della chimica vista attraverso lo sviluppo della tavola periodica. Ci sono tante notizie curiose, si parla di scienza in generale e si accenna al significato di “scienza patologica” come di quel ramo della scienza che si sviluppa per “bias” (ovvero deviazioni dal percorso scientifico oggettivo) generati nel momento in cui si smette di osservare i fatti e si piegano gli stessi al modello di cui lo scienziato di turno si è innamorato. Ecco, allora, il modello della fusione fredda di Pons e Flieschmann dimostratosi un errore; quello di Crookes che ha tentato di spiegare fenomeni inesistenti legati allo spiritismo; o l’invenzione di specie ittiche mostruose dal ritrovamento di strani fossili ricoperti di strati di manganese. Il libro è scritto bene e si legge velocemente, sebbene io abbia trovato degli errori o delle inesattezze, non so se dovute ad una traduzione sbagliata o alla leggerezza che il divulgatore si trova a dover usare per rendere semplici concetti che non lo sono. Esempi di errori e leggerezze sono nella spiegazione dell’effetto del Gadolinio usato come tracciante nella risonanza magnetica per immagini (anche questa parte tradotta, a mio parere, in modo un po’ approssimativo) o nella spiegazione di alcuni concetti di meccanica quantistica come la superconduttività. In definitiva si tratta di un ottimo libro per far capire che la chimica non è una materia difficile né per addetti ai lavori: si tratta semplicemente di un ramo delle conoscenze umane con il quale ci troviamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Tutto ciò che ci circonda è chimica e risponde a leggi ben precise la cui conoscenza ci consente di capire fenomeni altrimenti inspiegabili.

Pellegrino Conte

…non c’è un faro sul capo, né su alcuna delle isole, né in qualsiasi punto della costa italiana. Nella regione la tendenza da parte dei Somali è l’omicidio di tutti i guardiani del faro… Alonzo Barton Hepburn, Story of an outing (1913)

Ricostruito nel 1930 in forma di fascio littorio, pur così lontano dalla madrepatria è rimasto a duratura testimonianza di un periodo controverso della storia italiana. La storia del faro di Capo Guardafui, eretto in Somalia sull’estremo orientale del Corno d’Africa, inizia però molto tempo prima, nel 1869, quando fu aperto il Canale di Suez mettendo in comunicazione il mediterraneo con il Mar Rosso e creando una nuova, più breve via per le Indie. Da allora il “leone dormiente” di Capo Guardafui, o “promontorio degli aromi” come già lo chiamavano i romani che qui si rifornivano di incenso e mirra, divenne teatro di un’epopea salgariana fatta da pirati, sultani, imperatori, cartografi, poeti, trafficanti ed avventurieri di ogni genere. Tutto questo mentre nei palazzi della vecchia Europa si discuteva sulla necessità di un faro per mettere fine ai frequenti e tragici naufragi che gettavano piroscafi e marinai tra le mani dei pirati migiurtini. Ma soprattutto si discuteva su chi dovesse costruirlo e mantenerlo e alla fine, dopo oltre trent’anni di carteggi diplomatici, ad accollarsi oneri ed onori dell’impresa fu l’Italia che già dal 1880 possedeva nel Corno d’Africa territori in concessione dal sultano locale, premessa della futura Africa Orientale Italiana. Ma costruire un faro lì sarebbe stato tutt’altro che semplice: al di là delle difficoltà tecniche e logistiche, il segnale doveva essere costantemente protetto dall’ostilità dei migiurtini e dovette quindi essere “fortificato” e presidiato da una guarnigione militare a vigilare, come il Forte Bastiani sul Deserto dei Tartari, su un pericolo incombente ma che non avrebbe tardato a manifestarsi. Nonostante tutto il faro, difeso dai fucilieri àscari e dai cannoni delle navi della Regia Marina, resistette alla pressione delle continue guerriglie per la presa della postazione. A metterlo nuovamente in pericolo furono gli agenti atmosferici: il traliccio in ferro si andava «deteriorando di giorno in giorno» (come scrisse la Rivista Aeronautica nel 1929) e sarebbe stato presto necessario ricostruirlo, e questa volta si fece in pietra. Fu allora che assunse l’attuale aspetto di fascio littorio: in patria si vivevano gli anni del ventennio fascista, ed ogni opera era intesa anche in senso celebrativo. Sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, dopo il 1960 circa il faro cadde nell’oblio, fino a quando fu “riscoperto” nel 2013 dall’autore che sorvolava il capo a bordo di un elicottero della Marina Militare italiana durante una’operazione antipirateria…

Quella raccontata da Alberto Alpozzi è una storia avventurosa, dalle atmosfere magiche di Corto Maltese, dal profumo di cardamomo, balsami esotici e polvere da sparo; una storia nella quale si intrecciano personaggi inaspettati (Giuseppe Verdi, Theodore Roosevelt, Graf von Zeppelin, Gustave Eiffel, solo per citarne alcuni). Ma è anche uno scorcio sulla vita delle colonie italiane in Africa orientale, un mondo créolo quasi dimenticato, fatto di Italia ed italiani inseriti in un luogo magico e tanto distante dalla terra cui siamo abituati, ma allo stesso tempo, in qualche modo, inaspettatamente “familiare”.

Silvio Dell’Acqua

L’immaginario esotico e romantico della cosiddetta “epoca d’oro della pirateria”, quella tra il XVI ed il XVII secolo, l’epoca dei galeoni e dei tesori sepolti, ha finito per staccarsi dalla realtà storica fino a vivere di vita propria in un mondo parallelo dove i pirati diventano addirittura “i buoni”, assunti a simbolo di anarchia e ribellione all’autorità oppressiva e bigotta. Ma chi erano davvero? Come vivevano, come si organizzavano, come si vestivano, perché hanno spopolato per i Caraibi in quel periodo e tanto rapidamente sono decaduti. Seppellivano davvero i tesori? Come erano fatte le navi pirata? A rispondere a queste domande è lo storico David Cordingly, uno dei massimi esperti mondiali di storia della pirateria, in un saggio piacevole ed avvincente che fa luce su una realtà misconosciuta fatta invece di uomini duri e brutali, violenza, confusione, tribunali, ma ciò nonostante non meno pittoresca. Senza tralasciare l’aspetto culturale, ovvero come sono nati e si sono evoluti gli stereotipi ed i falsi miti che ritroviamo oggi nella finzione narrativa. Per continuare ad apprezzare quest’ultima, ma conoscendone anche i fondamenti storici.

Silvio Dell’Acqua

«Una sensazionale inchiesta sulla base top-secret infrange per la prima volta il muro del silenzio»

The New York Times

«Con il ritmo di una spy story, il racconto di un mistero nascosto nel cuore dell’America»

La Repubblica

Nel Nevada c’è una grande territorio off-limits sotto il diretto controllo federale, chiamato “Nevada Test and Training Range” o “Nellis Air Force Range”, che si estende per ben dodicimila km² (quasi quanto l’intero stato balcanico del Montenegro). Qui si effettuavano i testi delle armi nucleari durante la guerra fredda e vi operavano svariate agenzie governative e contractor privati del dipartimento della difesa. All’interno di questa immensa zona militare si trova uno spazio ancora più celato e protetto, circondato da montagne: la cosiddetta Area 51, il «luogo più discusso e concupito da ricercatori, curiosi, fan del cospirazionismo e cronisti». Cosa si facesse qui dentro è rimasto coperto dal totale segreto per anni e non è dato di sapere cosa si faccia oggi, o anche in tempi recenti. Tanto mistero non poteva che scatenare la fantasia dei sostenitori delle teorie del complotto e alimentare leggende su alieni, astronavi e ogni genere di leggende e speculazioni. Il libro della Jacobsen è forse il primo a tentare di far luce su questo sancta-sanctorum della segretezza, ricostruendone la storia sulla base di documenti ed interviste a persone che a vario titolo vi hanno lavorato (piloti, scienziati, ingegneri e agenti in pensione), al di là delle speculazioni sul genere «I want to believe» tipiche degli appassionati di UFO e cospirazioni. Un’indagine giornalistica di piacevole lettura, ma l’autrice sembra lasciarsi prendere un po’ la mano da “Dreamland” negli ultimi due capitoli con la ricostruzione del famoso “incidente di Roswell”, altra icona del folkore ufologico, ed alcuni eventi connessi. La tesi proposta è abbastanza inverosimile, «sfida il buonsenso» come afferma lo storico Dwayne Allen Day, facendo affidamento su una “fonte anonima” anziché sulla ricca documentazione che caratterizza il resto del libro. Secondo la ricostruzione della Jacobsen l’apparecchio caduto a Roswell sarebbe stato di fabbricazione sovietica basato su tecnologie naziste (tesi, quella del disco volante nazista, ormai passata di moda anche tra gli “ufofili”): un capitolo che l’esperto di storia dell’aeronautica David Myhra, autore di numerosi testi sull’argomento, definisce «pura fantascienza». Un libro sicuramente intrigante, ma –come si dice– da “prendere con le pinze”.

Silvio Dell’Acqua

La capacità dei pavesi di dimenticare la propria storia trova qui un’ulteriore e puntuale conferma.

La zuppa alla pavese è un piatto povero tradizionale, che la leggenda vuole nato all’indomani della battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. Di questa zuppa presente sui menu di rinomati ristoranti da Parigi a New York, a Pavia quasi non si trova traccia, come non si trova traccia della battaglia che pure fu forse l’evento più storicamente importante della storia cittadina, entrambe -zuppa e battaglia- puntualmente ignorate dai pavesi quanto dagli enti preposti alla cultura. Questo libretto, che tenta di sopperire a tale lacuna, è davvero un piatto completo: esso infatti fornisce un quadro storico della battaglia cui la tradizione lega la nascita della ricetta, quindi analizza approfonditamente quest’ultima e -al di là della leggenda- ricerca gli ingredienti probabilmente disponibili in quel contesto, “ripulendola” da tutte le aggiunte e modifiche postume operate dai vari ristoranti, chef e ricettari nel corso sei secoli, riportandola ad un’ipotesi di “ricetta originale”. Questa zuppa viene così codificata in un disciplinare, la “regola della zuppa alla pavese” formulata dal Sodalizio dei Cavalieri della Zuppa alla Pavese e e dell’Alborella, che (pur prevedendo le inevitabili varianti di un “piatto povero”, dove per definizione ci finiva di tutto) se rispettata ci permette di gustare la storica zuppa nella forma più simile a quella che dovette deliziare il re Francesco I nel XVI secolo. Ma il libro non si limita a questo, che già sarebbe un meritevole lavoro, e continua con una panoramica delle varianti apocrife che, come accennavo prima, vengono proposte dai ricettari o dai ristoranti di tutto il mondo. Non poteva mancare poi un capitolo di poesie dedicate alla misconosciuta specialità ed infine un po’ di ricordi, aneddoti che legano alla zuppa ad estimatori del calibro di Gianni Brera e Mario Soldati. Infine, una bella serie di tavole artistiche sulla leggenda ed una nutrita bibliografia. Storia, cucina, cultura: tutti gli ingredienti, insomma, di un piatto semplice ma sostanzioso.

Silvio Dell’Acqua

Edizione in soli 300 esemplari numerati, non disponibile online. Contattare l’editore oppure il negozio LaFeltrinelli di Pavia. Riproduzione della copertina per gentile concessione dell’editore.

 

Sbalordita, commossa ed esaltata… l’umanità smise di pensare ai problemi di ogni giorno e levò lo sguardo, o il pensiero, verso gli spazi infiniti. Una nuova era è cominciata

La settimana Incom illustrata, 1957

La “corsa allo spazio” è quel capitolo della storia del Novencento in cui l’impulso maggiore alla ricerca ed allo sviluppo tecnologico in campo aerospaziale (e non solo) fu dato dalla contrapposizione propagandistica tra gli Stati Uniti d’America e il “blocco sovietico” e dalla malcelata ricerca, da entrambe le parti, della superiorità militare anche nello spazio. Fu l’aspetto scientifico della “guerra fredda”, la gara ad arrivare sempre più in alto e sempre più lontano, a fare cose sempre più ardite e meravigliose. L’autore, fisico e storico della scienza, non ci racconta solo la storia meramente “tecnica” dell’esplorazione spaziale, ma la collega al contesto storico-politico e (cosa molto interessante) con un’occhio di riguardo all’impatto sulla cultura popolare nei due blocchi e nel paese in bilico tra di essi, che quella tensione la viveva continuamente: l’Italia. Qui infatti, come recita la quarta di copertina «i formidabili satelliti sovietici scalzano Sophia Loren dalle copertine dei rotocalchi di costume, i cosmonauti irrompono nelle pagine dei fotoromanzi e Topolino viene messo in soffitta per far posto a razzi e astronavi. Inizia una storia nella storia, ripercorsa con le parole e le immagini di un tempo che è stato…»

Silvio Dell’Acqua

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1969, i giornali annunciano l’allunaggio dell’Apollo 11 (R. Godefroy/CommonsCC-BY-SA 3.0)

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Sbarco dell’Apollo 11 sula Luna trasmesso in televisione, in una foto dell’epoca (Emir Shabashvili, Commons)

Il 9 maggio 1936, dopo l’invasione italiana dell’Etiopia, Mussolini proclama l’Impero Italiano nel Corno d’Africa: nasce l’Africa Orientale Italiana. Sospendiamo per un attimo i giudizi politici e storiografici sul fascismo e sul colonialismo in Africa. Immaginiamo di visitare quei territori: è Italia, ma è in Africa. Troveremmo cartelli ed insegne in italiano, potremmo parlare in italiano con le persone del posto, potremmo comprare sigarette italiane dal tabaccaio e viaggiare su strade statali e treni italiani. Ma tutto questo in Africa, tra gli splendidi litorali del Mar Rosso, i paesaggi aridi e desolati del Corno, la savana, l’entroterra montuoso e lussureggiante dell’Etiopia, pittoreschi mercati, dromedari, villaggi di capanne e cittadine dalle architetture razionaliste. Immaginiamo di trovare una rigorosa guida turistica che ci consenta di rivivere quel mondo così surreale. All’epoca non c’erano le Lonely Planet, ma le guide del Touring Club Italiano (che allora si chiamava CTI, Consociazione Turistica Italiana) sì: ce n’era una, molto corposa, proprio sull’Africa Orientale Italiana, pubblicata nel 1938. E la potete leggere gratis in ebook (oppure stamparvela) grazie a Petites Ondes. Se non è “geografia insolita” questa…

Silvio Dell’Acqua

Strada_Asmara-Barentu-Sebderat_ponte_sul_Barca

Strada statale italiana SS n°5 (Asmara-Barentù-Sebderat): il ponte sul Barca, in Eritrea (1939)


Grazie a Petites Ondes per avere digitalizzato il libro ed averlo condiviso in rete, nonché ad Alberto Alpozzi per averlo “scovato”.

Per fare scienza, quale che essa sia, oltre alla pura logica ci vuole qualcos’altro.

Jules-Henri Poicaré identificava nell’intuizione quel qualcosa in più che gli scienziati devono avere per elaborare le loro teorie. Nel suo L’Avventura dell’Universo, Timothy Ferris spiega che questo “qualcosa” in realtà è il senso estetico. Sembra quasi un controsenso identificare nel senso estetico quel quid necessario affinché si possa formulare un’ipotesi o una teoria di grande impatto scientifico. Il senso estetico presuppone una definizione oggettiva del concetto di “bello” che è, invece, soggettivo. Tuttavia, il senso estetico degli scienziati è legato alla “simmetria”. Questa è connessa, in ambito matematico (quindi, al linguaggio che si usa nella scienza), alla invarianza (cioè valore costante) delle entità misurabili quando esse sono soggette a delle trasformazioni (ovvero dei cambiamenti). In conclusione, secondo Timothy Ferris, ciò che lega lo sviluppo delle conoscenze attraverso i secoli, da Aristotele a Rubbia, è il senso estetico. Secondo il primo, l’Universo è descrivibile attraverso un modello di sfere celesti che, oltre alla logica del tempo, contiene anche il senso estetico tipico della filosofia Aristotelica. Il secondo, invece, ha contribuito ad elaborare un modello di universo sulla base delle leggi di simmetria che sono il fulcro dell’estetica scientifica attuale. Allora come oggi, lo sviluppo delle conoscenze umane si basa sulla logica, sulla semplicità ed eleganza delle formulazioni matematiche e sulle osservazioni sperimentali. Il libro di Timothy Ferris è una storia della scienza la cui lettura fornisce in modo semplice ed immediato tutte le informazioni in merito a come si è sviluppato il pensiero scientifico moderno. È un libro da consigliare a tutte le età per una comprensione completa delle interazioni tra le diverse branche della fisica.