A B C D E F G H I J K L M N P Q R S T U V W X Y Z

pane in cassetta, pan bauletto, tipo di pane molto soffice, solitamente venduto già affettato ed utilizzato principalmente per preparazione di sandwich, toast e tramezzini.

L’enciclopedia tributaria del 1965 riporta pancarré come sininimo di pane a cassetta,[1] ma nell’uso corrente è utilizzato quasi esclusivamente per indicare quello di tipo industriale pre-affettato, la cui origine è statunitense e si deve all’americano di origine tedesca Otto Frederick Rohwedder, che nel 1917 inventò un sistema meccanizzato affettare il pane e nel 1928 mise in commercio il primo sliced bread (pane affettato). Il pancarrè industriale si distingue inoltre dal pane in cassetta di produzione artigianale o casereccia per la presenza di etanolo in funzione antimicotica.

Erroneamente ritenuto di origine francese, il termine pancarré, (anche pan carrè o pain carré) è in realtà uno pseudo-francesismo di origine piemontese piuttosto recente (1956), composto da pan(e) e dal francese carré “quadrato”, per la forma a parallelepipedo data dalla cottura in cassettina. È infatti del tutto sconosciuto in Francia o nei paesi francofoni, dove il pane in cassetta è chiamato invece pain de mie (pane di mollica), pain anglais (pane inglese) o pain brique (pane mattone, soprattutto in Belgio).

In inglese è noto invece semplicemente come sliced bread (pane affettato) o pullman bread perché utilizzato nelle cucine delle lussuose “carrozze pullman” della compagnia ferroviaria statunitense Pullman Company.


  1. [1]Calogero Vinci, Enciclopedia Tributaria, 1965. Vol. 1 Pag. 145.

Foto in alto: Gio Bartlett / Unsplash.

disordine, confusione, fracasso; litigio, discussione accesa (sin. finimondo, putiferio):

“Carlo è indegno di quel trono” E ai Comuni è subito pandemonio

Corriere della Sera, 31 ottobre 1987 (pag. 4)

Attestato dal XVIII secolo, il termine era utilizzato in passato anche nel senso (figurato) di «riunione di gente che si assembra a scopo malvagio» (Pianigiani). Deriva infatti dal latino moderno Pandæmonium, parola coniata dal poeta inglese John Milton (1608 — 1674) come nome per la immaginaria “capitale” dell’inferno, il palazzo dove si tiene il concilio dei demoni nel poema Paradise Lost (Paradiso Perduto) del 1674[1] Secondo la finzione del poema l’edificio fu progettato –giustamente– da un architetto, l’angelo ribelle Mulciber, altro nome con cui è conosciuto il dio romano Vulcano. In alcune edizioni inglesi è utilizzata la grafia Pandemonium.

And trumpet’s sound, throughout the host proclaim
A solemn council forthwith to be held755
At Pandemonium, the high capital
Of Satan and his peers. […]

al suono delle trombe, a tutto l’esercito danno
annunzio che è indetta una gran consulta, da tenersi755
subito in Pandemonio, dimora di Satana e
dei suoi ministri. […]


John Milton, Paradise Lost, Libro I, 1674 (traduzione di F. Giacomantonio[2])

John Milton compose il toponimo unendo la parola dæmonium (dal greco δαιμόνιον, daimónion) e il prefisso greco pan– (παν-) che significa “tutto”, “ogni”; con il significato quindi di “tutti i demoni”, poiché l’intera schiera infernale poteva esservi contenuta.

 Sopra: Pandemonium, stampa a colori di John Martin, 1841 (Museo del Louvre, Parigi).
Sotto: Satana presiede il concilio infernale, incisione di John Martin, 1824 (Victoria and Albert Museum).

Satana presiede il consiglio infernale, incisione di John Martin, 1824


  1. [1]È la seconda versione rivista del poema, la più comunemente utilizzata. La prima edizione fu del 1667.
  2. [2]Milton, John, Flavio Giacomantonio (a cura di –) Paradiso Perduto Newton Compton, 2016.
  • pandemonio” in Pianigiani, Ottorino Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana, 1907.
  • pandemonio” in Vocabolario on line, Treccani. Web.
  • pandemonio” in il Sabatini Coletti – Dizionario della lingua italiana, Corriere della Sera. Web.

detto anche panno lenci o semplicemente lenci; stoffa non tessuta costituita da feltro di lana di pecora cardata o pelo di capra mohair, più recentemente anche di fibre di poliestrere mediante procedimenti industriali. Commercializzato in svariati colori, è simile al feltro ma più morbido, leggero e sottile (massimo 1 — 1,5 mm, oltre è detto “feltro”). In quanto “non tessuto”, privo quindi di trama ed ordito, come il feltro non tende a sfilacciarsi al taglio e non necessita quindi di orli o cuciture di finitura.

Il nome pannolenci deriva dal composto di panno (pur non essendo il pannolenci tecnicamente un panno, essendo non tessuto) e “Lenci”, nome dell’azienda torinese che per prima produsse nel 1919 questo materiale, derivato dal perfezionamento del feltro Borsalino e destinato alla confezione di bambole. A sua volte il nome Lenci, registrato a Torino nello stesso anno come marchio di fabbrica, era sia acronimo del motto dell’azienda «LUDUS EST NOBIS CONSTANTER INDUSTRIA», sia il soprannome di Helen König (da Helenchen, dininutivo di Helen), artista autrice delle prime bambole Lenci e moglie del fondatore Enrico Scavini.
bambola Lenci al museo del giocattolo di Bad Lauterberg im Harz

Bambola Lenci, museo del giocattolo di Bad Lauterberg im Harz (2).



Immagini:

  1. foto copertina: _Alicja_/Pixabay
  2. bambola Lenci: foto Pierre Grandziel, ProMediaTeam Ltd. [CC BY-SA 3.0] Commons

museo delle cere, collezione di curiosità, →Wunderkammer; dal tedesco Panoptikum, a sua volta dalla forma latinizzata panopticon del greco pānoptikón, “che fa vedere tutto” (pan=tutto; optikon= osservare).

Le lettere e la cultura praghesi abbondano di manichini, di gójlemess, di marionette, di statue di cera, di figurine da panoptikum, di pupazzi imbottiti, di automi.

Angelo Maria Ripellino, Praga Magica (1973) Cap. 66.

L’immagine lasciataci dal romanzo di Bram Stoker e dal film di Bela Lugosi riaffonda in una fantasia un poco dandy, da panoptikum e museo delle cere.

“Povero Dracula che brutta carriera” in La Stampa, 30/10/1976, pag. 14

Quello di spingere le macchine verso un intelligenza artificiale è un sogno vecchio come lo sono tutti i golem e i robot, le creature che l’artificio umano ha costruito e nascosto nelle ombre del panoptikum di Praga e altrove…

“Cercate il computer tra questi poeti” in Tutto Libri, 20/10/1984, pag. 1

I musei delle cere furono sempre, in tutto o in parte, delle Wunderkammer. Sin dal XVIII secolo raccoglievano modelli anatomici in ceroplastica ad uso scientifico e didattico, che rappresentavano corpi dissezionati, parti anatomiche e infine numerose malformazioni e patologie: queste ultime divennero mirabilia, collezione di stranezze in grado di suscitare la curiosità morbosa dei visitatori. Anche quando nel XIX secolo si diffusero musei come luogo di divertimento, incentrati sulle riproduzioni in cera di personaggi famosi, questi mantennero spesso sezioni dedicate alle rarità biologiche da freak show (i “fenomeni da baraccone”) o ai più efferati criminali (la “Chamber of Horrors” del museo Tussauds a Londra, aperta nel 1802).

Foto in alto: statue di cera al museo Eden di Montreal, Canada, nel 1940.


Immagine in alto: foto di Conrad Poirier, 1940 [PD] Commons .

donna particolarmente impegnata in una causa sociale o politica, per antomasia dallo pseudonimo “Pasionaria” con cui dal 1918 la rivoluzionaria spagnola “Dolores” Ibárruri Gómez (1895 — 1989) firmava i propri articoli per El minero vizcaíno, giornale dei minatori della provincia basca di Vizcaya. A “Dolores” (vero nome Isidora) Ibárruri Gómez è attribuito tra l’altro il celebre slogan «¡No pasarán!» (Non passeranno!) innalzato durante la Guerra Civile Spagnola. Esule nell’Unione Sovietica dal 1939, tornò in Spagna nel 1977 dopo la caduta del franchismo e fu eletta deputato. Pasionaria, in spagnolo, deriva da pasión (passione) ed è un nome volgare della passiflora o flor de la pasión, fiore della passione; probabilmente un gioco di parole volto ad evocare il concetto di passione, nel senso di ardore, partecipazione profonda ad una causa. Il termine pasionaria divenne quindi antonomastico per indicare una donna rivoluzionaria, fervente comunista e/o che dimostra (appunto) grande passione per un particolare ideale politico o sociale:

«In politica era una pasionaria, coerente con tutto il resto di lei. Veniva da una famiglia socialista e ha terrorizzato la mia infanzia cantandomi Bandiera rossa e l‘Inno dei lavoratori.»

Mimma Mondadori, in Una tipografia in paradiso, 1985.

Il soprannome “Pasionaria” fu attribuito in Italia a svariate figure femminili, quali:

  • Carlotta Guareschi (1943 — 2015), figlia dello scrittore e giornalista Giovannino Guareschi (fondatore della rivista Candido e creatore della celebre saga di “Don Camillo e Peppone“, cfr.  Guareschi, op. cit.).
  • Ines Boffardi, politica italiana, deputato democristiano dal 1960 al 1983, soprannominata dal presidente Pertini “pasionaria bianca”: l’aggettivo bianco era diffuso nel ‘900 per indicare movimenti sociali e politici di ispirazione cattolica (cfr. Castoldi — Salvi pag. 45 op. cit.).
  • Leonilde Iotti (1920 – 1999) detta “Nilde”, deputata dell’assemblea costituente nel 1975 e presidente della Camera dei Deputati dal 1979 al 1992, prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato.
  • Rosi Bindi, politica italiana, negli anni ’90 soprannominata anch’ella “pasionaria bianca” in riferimento alla provenienza democristiana e all’estrazione cattolica (cfr. Castoldi — Salvi pag. 285 op. cit.).
  • Mara Malavenda, sindacalista e politica italiana, deputato alla Camera dal 1996 nelle liste di Rifondazione Comunista, soprannominata dalla stampa “la Pasionaria dei Cobas” per essersi legata in parlamento (Corriere della Sera, 5 nov. 1998, pag. 5).

Bibliografia e fonti:

immagine: “Dolores” Ibárruri Gómez nel 1936, foto dello scrittore russo Mikhail Koltsov (Commons).

in toponomastica, denominazione urbanistica generica che indica breve un passaggio tra due piazze. Unico caso di strada così denominata è “passo di piazza Antonio Fonda Saviano” a Trieste, che collega la famosa piazza Unità d’Italia con piazza Giuseppe Verdi.



Foto: courtesy of prof. Bizzaro ©.

profumo di pioggia, caratteristico profumo emanato dalla pioggia sulla terra asciutta. Deriva dall’inglese petrichor, a sua volta dal greco pétrā (πέτρᾱ ) “macigno”, “pietra” e ichṓr, (ἰχώρ ) “icore”, “linfa”, nel senso di sangue degli dèi. Il termine petrichor fu coniato nei primi anni’60 dal biochimico e mineralogista australiano Richard Grenfell Thomas, al tempo impiegato in un progetto di ricerca presso CSIRO (ente australiano per la ricerca scientifica). Il primo articolo a descrivere scientificamente il fenomeno e ad utilizzare il termine petrichor fu scritto dallo stesso Thomas insieme alla collega chimica Isabel Joy Bear e pubblicato su Nature nel 1964 (“Nature of Argillaceous Odour” in Nature, vol. 201, n. 4923, marzo 1964, pp. 993–995).

Il profumo è generato dalla diffusione nell’aria da un composto organico presente nel terreno, la geosmina (il cui nome significa appunto “odore di terra”) dal caratteristico sentore di terra, fungo e muffa, e da un’essenza trasudata da alcune piante durante periodi di siccità e assorbito dall’argilla presente nel terreno e nelle roccie. I composti vengono espulsi in forma di aerosol per effetto dell’impatto delle gocce, dando origine al petricore.

Il “profumo di pioggia”, genericamente definito argillaceous odor o the smell of rain, era noto da molto prima che fosse coniato il termine petrichor: un articolo intitolato Sur l’Odeur propre de la Terre (“sull’odore proprio della terra”) fu presentato già nel 1891 dai professori Berthelot e M. André alla conferenza della Académie des Sciences francese e pubblicato nella rivista dell’accademia, Comptes Rendus (“resoconti”, al volume 112). Nello stesso anno il lavoro fu citato in Chemical News e in un articolo su Scientific American intitolato “The Odor of the Soil after a Shower” e scritto da T.L. Phipson, il quale citava il lavoro di Berthelot e M. André affermando di essersi occupato dell’odore misterioso già «da più di venticinque anni». In India l’aroma era già noto come “odore della terra” o matti ka attar e utilizzato in profumeria. In italiano continua ad essere comune l’espressione profumo di pioggia, anch’essa precedente a petricore («Dalla terra viene un forte profumo di pioggia. L’aria più fresca si agita e fa muovere le cime delle papaie.» 1938, Circoli rivista di poesia, pag. 70.).


Foto: Eutah Mizushima/Unsplash

dal francese pied-de-poule (attestato dal 1936 [1]) che significa “zampa di gallina” è un tipo di tessuto a navetta e (per estensione) il nome del motivo geometrico ottenuto dalla filatura che ricorda piccole zampe di gallina (da cui il nome). Il motivo è formato dall’intreccio di quattro fili chiari e quattro scuri (o comunque colori contrastanti), intrecciati a navetta in saia tipo batavia (2.2). Il motivo vive ormai di vita propria rispetto al tessuto da cui nasce, essendo anche riprodotto a stampa su qualsiasi materiale (ad esempio su carta da parati).
intreccio del pied-de-poule

Intreccio del pied-de-poule


Storia

Il tessuto nacque nel XIX secolo in Scozia, era noto come houndstooth (dente di cane) o sheperd’s check (quadrettato del pastore): realizzato in origine su panno di lana intrecciata ed utilizzato per l’abbigliamento dei pastori, il suo uso si estese gradualmente fino a diventare agli inizi del ‘900 simbolo di eleganza presso le classi benestanti. Divenuto negli anni 1930 un tessuto alla moda per l’alta società (risale a questo periodo il nome francese), simbolo di stile e raffinatezza, venne anzi consacrato dopo la seconda guerra mondiale da Christian Dior, che rilanciò nel dopoguerra la moda parigina ridandole rilievo e prestigio internazionale. Dior scelse il motivo a pied-de-poule per il packaging del profumo “Miss Dior”, forse la sua fragranza più celebre, e di nuovo nel 1956 per il profumo “Diorissimo”.
Bottiglia di colonia Diorissimo di Christiane Dior.

Bottiglia di colonia Diorissimo di Christiane Dior.


Negli anni ’60 arrivò la optical-art, la cui attenzione si rivolge alle illusioni ottiche ai contrasti bianco-nero, e il pied-de-poule sembrava ideale per questa nuova tendenza. Nel frattempo il disegno, in origine solo rigorosamente bianco e nero, viene declinato anche in altri colori come il marrone, il grigio o il blu. Agli inizi degli anni ’90, mentre il grunge lanciava il tartan, ci fu una nuova ondata di pied-de-poule nelle produzioni di Chanel, Louis Vuitton, Emporio Armani e Moschino. In seguito verrà periodicamente riproposto, sia come revival di mode passate sia rivisitato con colori fancy e accostamenti fantasiosi.

Varianti

  • doppio pied-de-poule: realizzato in tre colori e di dimensioni maggiori, realizzato con batavia da 6.
  • pied-de-cocq (piede di gallo): stesso molto simile al pied-de-poule, ma con disegni più grandi.

  1. [1]Merriam-Webster