Sott al pont de ciff e ciaff, là ghe sta Bargniff-bargnaff! detto milanese

Le figure del folklore italiano non hanno nulla da invidiare a quelle irlandesi, sia per numero che per varietà e anche nella sola Lombardia ne abbiamo una discreta schiera. Se scarseggiano, pur non essendo del tutto assenti, elfi e folletti (si trova traccia solo di uno di essi, tal Piripicchio, protagonista di una leggenda ambientata ad Albosaggia, in provincia di Sondrio), abbondano invece esseri chimerici, fantasmi, diavolacci vari e streghe.

Questa breve e tutt’altro che esaustiva rassegna inizia proprio dal Bargniff: chi è costui? È un essere mitico che abita sotto i ponti, nelle acque limacciose di Po e Ticino, segnatamente tra Milanese e Pavese. Coloro che hanno avuto la sventura di avvistarlo, lo descrivono in genere come un enorme rospo dagli occhi di fuoco, oppure come un bue. Il Bargniff ha una sicura natura demoniaca ed è individuo dal quale guardarsi bene. Meglio non aggirarsi lungo acquitrini e corsi d’acqua durante la notte: potreste incontrarlo e lui vi proporrebbe uno dei suoi quasi insolubili indovinelli. Se non saprete rispondere, il Bargniff vi si scaglierà addosso e vi trascinerà nelle gelide acque notturne, annegandovi, mentre lui se la sghignazza furiosamente. È difficile, se non impossibile, risalire alle origini certe di questo come di tutti gli altri miti lombardi; sicuramente sono antichissimi e risalgono spesso a prima di Cristo. A volte sono proprio frutto di sincretismo tra paganesimo e religione cristiana. Il caso più eclatante è quello delle streghe, diffusissime in tutta la Lombardia, che hanno spesso un tratto distintivo: adorano la Grande Madre della Natura, divinità di origine chiaramente pagana — di cui sono le sacerdotesse — identificata poi dalla Chiesa, per comodità, in Satana. Il capitolo sulle streghe è molto ampio e sarà bene tornarci in maniera più specifica: qui basterà dire che tra XVI e XVII secolo la Santa Inquisizione ne individuò — condannandole al rogo — diverse decine solo nella nostra regione, alcune delle quali a Milano.

L’arco alpino lombardo abbonda di personaggi decisamente particolari, tutti tristemente famosi e tutti con abitudini notturne, ovviamente. Il Tettavach è uno strano rettile–chimera, un lungo e grosso serpente nero in grado di rubare il latte delle vacche e addirittura di introdursi nelle culle dei neonati con lo stesso scopo.

Tatzelwurm_1841

2 – Tatzelwurm, illustrazione del 1841 dal calendario “Alpenrosen”

Aldrov_tatzelwurm

3 – Una raffigurazione del Tatzelwurm a quattro zampe, ad opera del naturalista Ulisse Aldrovandi (1522 – 1605)

Suo parente stretto è il Tatzelwurm, un lucertolone con due o quattro zampe, la coda tozza e le stesse abitudini alimentari del suo consimile. Qualcuno sostiene che esista veramente e c’è anche una foto —fintissima— che lo ritrae, scattata nel 1934 da un tale Balkin. La Cavra Besula è invece un enorme caprone dagli occhi iniettati di sangue che si annuncia con un terrificante verso e rapisce, con intento di cibarsene, i pastori che hanno abbandonato il loro bivacco. In valle Camonica ogni anno si svolge la tradizionale cattura del Badalisc, un essere dalla grossa testa, ricoperto di pelle di capra con bocca enorme e, ancora una volta, immancabili occhi fiammeggianti. È evidente, nel nome, il richiamo al Basilisco, a riprova dell’antichità di questo mito. Sempre in Val Camonica, ma anche nelle Valli Bergamasche e in Valtellina si aggirano i Confinati, anime di persone morte insoddisfatte, che sono state mandate al confino tramite un esorcismo in vallate laterali ed inospitali, in modo tale da non poter nuocere ai vivi.

Gatto_Mammone

4 – Rappresentazione artistica del “Gatto Mammone”

Il Gigat, tipico di Sondrio, è secondo alcuni una grossa capra, secondo altri un enorme e ferocissimo gatto. Sarebbe cioè parente stretto del “Gatto Mammone”, e come questo, di provata natura malefica. Ha l’abitudine di abitare i vicoli bui, piombando su animali ed esseri umani per cibarsene, provocando orrende mutilazioni. Affine del Gigat, ma di dimensioni inferiori, è la Gata Carogna, diffusa nelle province di Bergamo e Cremona. Si tratta appunto di una grossa gatta dal pelo fulvo e irsuto che attacca i bambini per impadronirsi della loro anima. È probabile, comunque, che l’origine di questi due miti stia, almeno in parte, in aggressioni da parte di linci o di gatti selvatici, quindi tranquillizzate i vostri pargoli. La Lombardia orientale è invece la tradizionale dimora dello Squasc. Si tratta di un essere piccolo, peloso, fulvo, simile ad uno scoiattolo senza coda ma con volto antropomorfo. È una creatura meno spaventosa delle precedenti, in quanto solo in parte malvagio: metà Uomo Nero, perché spaventa i bambini, metà folletto per via dei suoi tiri birboni, riservati di preferenza alle belle ragazze.

Drago_Tarantasio

5 – Drago Tarantasio

Nel Lodigiano troviamo due miti al prezzo di uno: un drago che terrorizzava gli abitanti delle rive di un lago che non esiste più! Si tratta del Tarantasio, che infestava acque del lago Gerundo. Si nutriva essenzialmente di bambini, aveva un fiato pestilenziale con cui ammorbava l’aria e causava la terribile febbre gialla. Coltivava inoltre il discutibile hobby di affondare barche dopo averle opportunamente fracassate. La sua scomparsa è in qualche modo legata al prosciugamento del lago stesso: per alcuni uccisione e bonifica sono da attribuirsi a San Cristoforo, per altri al Barbarossa, per altri ancora al capostipite dei Visconti che adottò poi il drago nel proprio stemma gentilizio. Di sicuro – oltre ad una frazione di Cassano d’Adda che si chiama Taranta — c’è solo che lo scultore Luigi Broggini si ispirò proprio al Tarantasio per creare il cane a sei zampe che divenne il celeberrimo logo dell’Eni, per non parlare di quello delle altrettanto famose reti TV Mediaset, dette appunto “del biscione”![1][2]

Milano-Stemma-Visconteo-S-Gottardo-in-Corte

6 – Stemma dei Visconti sul campanile di San Gottardo in Corte a Milano (l’antica cappella del palazzo dei Duchi): la figura araldica del “Biscione” deriverebbe dal basilisco o dal tarantasio. (foto:  © Giovanni Dall’Orto)

Un discorso a parte vale per il lupo, animale assolutamente reale, ma mitizzato per il terrore che incuteva nei tempi passati, al punto da alimentare fantasie e credenze. Nel XV secolo i comaschi pensavano che il lupo avesse una natura per cui «devora li cristiani», mentre nel corso del XVII secolo tra Varesotto, Bergamasco e Bresciano si contano svariate decine di aggressioni e di vittime dei lupi, al punto che da Milano si organizzò un esercito di 500 uomini armati di falci, tridenti e schioppi per cacciare la belva.

harlequin

7 – Arlecchino, come veniva rappresentato nella “commedia dell’arte” intorno al 1670 (Sands, 1860).

Non stupisce quindi che nelle tradizioni popolari il lupo sia sinonimo di ferocia, o addirittura incarni qualcosa di malefico come i gatti e i cani neri. Da qui a ritenere che alcuni uomini potessero trasformarsi in lupi mannari per divorare bambini il passo è breve. Addirittura un filosofo, Pietro Pomponazzi (1462 — 1525), originario di Mantova, nel suo “De Incantationibus” sosteneva che le passioni umane avessero il potere di alterare i lineamenti, dando così un avallo “scientifico” alle credenze popolari in materia di licantropia. Inutile dire che i malcapitati ritenuti lupi mannari finivano spesso sul rogo a far compagnia alle streghe.

In conclusione merita una citazione un diavoletto assolutamente insospettabile: Arlecchino. Dietro la popolare maschera c’è infatti un retaggio molto complesso; i suoi natali sono indiscutibilmente bergamaschi, ma il suo nome pare provenga da quello del diavolo francese Harlequin (alias Herlequin, alias Hellequin), capo addirittura di una propria squadra di demoni. Secondo altri, invece, il nome deriva da Erlenkönig, un folletto della mitologia scandinava. In ogni caso, Arlecchino è strettamente legato ad aspetti demoniaci facilmente riconducibili — ancora una volta — a culti antichissimi.

Note

  1. [1]NdR: il simbolo araldico del “biscione”, presente negli stemmi di Milano e della famiglia Visconti, trae le sue origini dalla figura del “basilisco” (v. “L’araldica della Regione Lombardia, op. cit.) o da quella del “tarantasio”(v. “Racconti del Gerundo“, op. cit.)
  2. [2]Fayer–Signorelli (op. cit.)

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. © Paolo Ardiani, ponte medievale in Val Brembana, Fotolia.com (#52939581)
  2. dal calendario Alpenrosen, 1841 [PD] Commons
  3. Ulisse Aldrovandi (naturalista, 1522 – 1605), [PD] Commons
  4. Jonnyrotten, 2009 [PD] Commons
  5. Ulisse Aldrovandi (naturalista, 1522 – 1605), [PD] Commons
  6. © Giovanni Dall’Orto, 2008, Commons
  7. da Sands, Maurice Masques et bouffons (Comedie Italienne). Paris: Michel Levy Freres, 1860 [PD] Commons.

green-santa

Babbo Natale o Santa Claus, al secolo (se così si può dire) San Nicola di Bari, è il personaggio più noto ed universalmente riconosciuto del folclore natalizio occidentale: sincretismo di figure analoghe diffuse in diverse culture, a partire dal XIX secolo ha infatti travalicato il significato religioso della tradizione cristiana cui è legato per affermarsi in quasi tutto il mondo come simbolo laico del Natale consumistico. Nel corso dei secoli è stato rappresentato in diverse fogge e versioni, ma l’immagine odierna che più si è affermata su tutte le altre è quella di un panciuto signore dalla folta barba canuta e dall’inconfondibile vestito rosso orlato di pelo bianco. Sull’origine di questo abbigliamento è nata una leggenda dal profumo complottista: Babbo Natale sarebbe stato in origine vestito di verde, ma l’attuale livrea bianca e rossa sarebbe stata “lanciata” dalla Coca–Cola Company nel ventesimo secolo per promuovere la propria bevanda, il cui logo ha guardacaso gli stessi colori. Non solo: prima di pubblicizzare la bevanda sarebbe stato alto, magro e dall’aspetto di un vescovo o di un “elfo”, insomma totalmente diverso.[1][2] Morale: la multinazionale è così potente da influenzare l’immaginario popolare. Quanto c’è di vero in questa storia?

La leggenda fa riferimento ad una lunga serie di storiche illustrazioni pubblicate negli Stati Uniti a partire dagli anni’30, che ritraevano un allegro Santa Claus in compagnia della celebre bevanda. Ma non fu questa l’origine della moderna personificazione dello spirito natalizio: per scoprirla, ne racconteremo la storia a ritroso, proprio a partire da quelle illustrazioni. Il pittore ed illustratore Haddon Sundblom (1899-1976), che già aveva prodotto alcune pin-up per la Coca–Cola a partire dagli anni’20, realizzò il primo Santa Claus nel 1931 per l’agenzia pubblicitaria D’Arcy di St.Louis (Missouri) cui era affidata la campagna pubblicitaria utilizzando come “modello” il suo amico Lou Prentice, venditore in pensione. La Coca–Cola Company dovette apprezzare il risultato, tanto che il sodalizio tra Sundblom e la compagnia sarebbe proseguito fino al 1964;[3][4] Phil Mooney, direttore degli archivi ufficiali della compagnia dal 1977[5] disse in proposito, in occasione del 75° anniversario del Babbo Natale di Sundblom:

1 – Il primo “Babbo Natale” di Haddon Sundblom per la Coca–Cola (1931).


 The Coca–Cola Santa embodies the holiday spirit and has helped shape the image of Santa Claus around the world. It’s amazing that what started out as a simple advertising concept has become the cornerstone of our Company’s holiday campaigns for the past 75 years.»[6] 

Il Santa Claus della Coca–Cola impersona lo spirito festivo ed ha contribuito a sagomare l’immagine di Santa Claus nel mondo. È fantastico che ciò che iniziò come una semplice concept pubblicitario sia diventato il cardine della campagne natalizie della nostra compagnia per i successivi 75 anni. 


Nessuno mette in dubbio che il Babbo Natale della Coca–Cola, in particolare quello  di Sundblom, abbia fornito un modello di riferimento per i successivi illustratori, contribuendo a consolidare e uniformare l’immagine del personaggio. Resta però il fatto che l’immagine del Babbo Natale rosso, bianco e panciuto a cui si ispirò l’artista esisteva già, ed era anche diffusa. Quattro anni prima della celebre campagna natalizia della Coca–Cola, un orda di Santa Claus identici a quelli disegnati da Sundblom invadeva i grandi magazzini di New York, come racconta un articolo del New York Times del 1927:

 A standardized Santa Claus appears to New York Children. Height, weight, stature are almost exactly standardized, as are the red garments, the hood and the white whiskers. The pack full of toys, ruddy cheeks and nose, bsuhy eyebrows and a jolly, paunchy effect are also inevitable parts of the requisite make-up.»[7]

Uno standardizzato Santa Claus appare ai bambini di New York. Altezza, peso, statura sono quasi esattamente standardizzate, così come gli abiti rossi, il cappello e le basette bianche. Il pacco pieno di regali, le guance rubiconde  ed il naso, le sopracciglia folte ed un effetto panciuto come tocco finale sono parti inevitabili del make-up richiesto.


2 – Copertina del “Saturday Evening Post” del 1923, disegnata da Leyendecker

Quando era nato questo costume così affermato? Cercando tra le pubblicazioni dell’epoca scopriamo che Babbo Natale sfoggiava un vestito di rosso orlato di bianco già in due copertine del Saturday Evening Post datate 26 dicembre 1927 (vedi) e 1923 dell’illustratore J.C. Leyendecker (1874 – 1951), mentre l’artista Newell Convers Wyeth (1882-1945) aveva dipinto nel 1925 un furtivo Santa Claus rosso con gli orli bianchi (vedi). Proseguendo, ritroviamo il nostro Santa un’altra copertina del Saturday Evening Post del 2 dicembre 1922, del 17 dicembre 1921 ed ancora del 1920, realizzate questa volta dall’illustratore Norman Rockwell (1894 – 1978). L’immagine del Babbo Natale “moderno” era quindi già diffusa ed utilizzata da almeno dieci anni.

Tuttavia Coca–Cola Company sostiene di aver già utilizzato la figura di Santa Claus nelle inserzioni su alcune riviste statunitensi[8] per promuovere la bevanda nel periodo invernale, a partire da un anno non meglio precisato dei ’20, prima dei celebri manifesti di Sundblom. Il che potrebbe retrodatare fino ad un decennio la collaborazione tra il personaggio e la bevanda più famosa al mondo. Colpo di scena? Non proprio. Infatti Babbo Natale era già stato raffigurato nella foggia attuale nell’inserzione pubblicata sul magazine americano San Francisco Examiner il 19 dicembre 1915 per un’altro importante produttore di bevande, la White Rock Waters.[9] L’immagine testimonia che l’aspetto generale del personaggio è già quello attuale, con gli stivali e gli orli di pelo bianco, ma è monocromatica: bisognerà attendere il 1923 per vedere sulla rivista “Life” un’immagine a colori del Santa Claus della White Rock e scoprire che è indiscutibilmente rosso (immagine sotto, a destra). Così, le due società (ed i rispettivi fan) si contendono tuttora il ruolo di “creatore” dell’odierna raffigurazione.[10]

Inserzioni pubblicitarie della White Rock Waters, 1915 - 1923

Inserzioni pubblicitarie della White Rock Waters. A sinistra: (3) 1915, sul  San Francisco Examiner. A destra (4): 1923, su Life (The White Rock Collectors Association).

5 – Illustrazione da Santa Claus and All About It di E. Boyd Smith (Stokes, 1908)

Tuttavia nessuna delle due aziende può davvero rivendicare la paternità del colore: Babbo Natale era già rosso. Continuando la nostra storia a ritroso, scopriamo ad esempio che già nel 1908 Elder Boy Smith (1860-1943), noto illustratore ed autore di libri per ragazzi,[11] realizzò le immagini (pubblicate anche come cartoline postali) per il libro intitolato Santa Claus and All About Him (Stokes, 1908), nelle quali compariva un Babbo Natale dal vestito rosso orlato di bianco, con gli stivali, la barba bianca e il tipico cappello lungo, proprio come lo conosciamo oggi.

Anche la rivista per bambini St. Nicholas pubblicò in copertina raffigurazioni di Babbo Natale rosso almeno sin dal 1905. Questo sarebbe sufficiente a chiarire la questione, ma a questo punto vogliamo fare un passo avanti (o meglio, indietro) e scoprire la vera origine del cappotto rosso. Seguendo le tracce degli stivali nella neve, arriviamo all’illustratore di origine bavarese Thomas Nast (1840-1902), noto come “il padre del fumetto americano”. Tra il 1863 ed il 1886 Nast realizzò 33 incisioni natalizie per la rivista politica Harper’s Weekly di New York [12] attingendo all’immaginario della tradizione germanica (era nato a Landau in der Pfalz) ed ispirandosi al famoso poema datato addirittura 1822 A Visit From St. Nicholas (noto anche come Twas the Night Before Christmas) di Clement Clark Moore (1779-1863),[12] che descrive un St. Nicholas con la slitta e le renne che scende dal camino, definendo per la prima volta le caratteristiche del Babbo Natale “laico”. Il poema di Moore tacque però sul colore, lasciando questo aspetto in sospeso.

6 – Thomas Nast: “Santa Claus and His Work”, Harper’s Weekly 25 dicembre 1866

Una grande tavola di Nast intitolata Santa Claus and His Works fu pubblicata da Harper’s Weekly il 25 dicembre 1866: un grande polittico su due pagine, composto da numerose vignette in cui Babbo Natale viene raffigurato affaccendato in varie mansioni riguardanti la preparazione dei doni. Barbuto e panciuto, aveva già l’aspetto che conosciamo oggi, ma la tavola era ancora monocromatica e per vedere la tinta si dovette attendere tre anni: una nuova versione a colori di Santa Claus and His Works fece da illustrazione all’omonimo poema[13] scritto da George P. Webster e pubblicato da McLoughlin Brothers (New York) nel 1869.

Thomas Nast: Santa Claus and His Works (McLoughlin, 1869).

7 – da Thomas Nast: Santa Claus and His Works (McLoughlin, 1869).

Babbo Natale era già rosso 23 anni prima che
la Coca–Cola Company fosse anche solo fondata.

Il vestito somiglia più ad calzamaglia rossiccia, ma sembra essere questa la prima raffigurazione “laica” di Babbo Natale in rosso: mancano ben 23 anni alla fondazione della Coca–Cola Company, la quale del resto ammette che le prime illustrazioni pubblicitarie degli anni ’20 sarebbero ispirate al Babbo Natale di Nast[8] e Sundblom avrebbe fatto riferimento al poema di Moore per la campagna natalizia della bevanda.[8] Già nel 1843 l’illustratore londinese John Leech aveva disegnato una sorta di giovane Babbo Natale in verde[14] per la prima edizione del famoso Canto di Natale (A Christmas Carol) di Charles Dickens pubblicata da Chapman & Hall, ma non si trattava di Santa Claus quanto invece del “Fantasma del Natale Presente”. Babbo Natale fu raffigurato occasionalmente in diversi colori, come nelle cartoline illustrate dalla pittrice svedese Jenny Nyström arrivate però solo molto tempo dopo Nast, nel XX secolo, che raffigurano tra le altre cose un minuto Babbo Natale con indosso una casacca verde ma anche di altri colori (ad esempio azzurro). Non si può quindi affermare che il Babbo Natale fosse in origine verde, ma nemmeno che sia nato dalla matita di un unico “padre”: se possiamo attribuire a Moore la prima descrizione letteraria e a Nast la prima raffigurazione “moderna”, l’attuale immagine della personificazione dello spirito natalizio si è plasmata negli anni grazie anche ai numerosi celebri illustratori (anche pubblicitari, certo) che ne hanno dato ciascuno la propria versione, oltre ad una non trascurabile componente di origine popolare.

L’ultimo Babbo Natale di “Sunny”

8 – Playboy, dicembre 1972

Haddon “Sunny” Sundblom fu maestro di molti dei migliori illustratori americani del secondo dopoguerra: il cosiddetto Sundblom Circle” includeva ad esempio Gil Elvgren e Al Buell, noti per le pin up o Joyce Ballantyne, autore della celebre “Coppertone girl“, Al Moore (automobili) e Thornton Utz tanto per citarne alcuni.[4] Lo stesso Sundblom, oltre a a firmare per 33 anni le campagne natalizie ed alcune pin-up per la Coca–Cola, fu illustratore per molti marchi come Colgate e Palmolive. L’ultima opera gli fu commissionata nel 1972 da Art Paul, direttore artistico della rivista Playboy, che voleva per l’edizione natalizia di quell’anno una reinterpretazione sexy dei celebri Babbo Natale di Sundblom.[4] Il risultato fu questa splendida copertina, chiara allusione ai suoi trascorsi pubblicitari con la Coca–Cola, ed in particolare al primo Babbo Natale del 1931. Nonostante l’apparente dimestichezza col soggetto, questo fu l’unico lavoro di “Sunny” per Playboy.

Note

  1. [1]Nicola Lagioia contro Babbo Natale e la Coca Cola.Perle Complottiste. Stupidario dei cospirazionisti e dei sostenitori delle verità alternative, 14 Lug. 2012. Web. 28-11-2012.
  2. [2]Perché il vestito di Babbo Natale è rosso? – Sapere.it.” Sapere.it. Garzanti, Web. 28-11-2012.
  3. [3]Stéphane Pincas e Marc Loiseau. History of advertising. Colonia, Taschen, 2008. ISBN 978-3-8365-0212-2.
  4. [4]Peng, Leif. “Sunny’s Last Santa.” Today’s Inspiration. 10 Dic. 2010. Web. 1 Dic. 2012.
  5. [5]Heritage – Phil Mooney.” Coca–Cola Journey Homepage. The Coca–Cola Company, 1 Gen. 2012. Web. 28 Nov. 2012.
  6. [6](PDF) “COCA–COLA’S MODERN-DAY IMAGE OF SANTA CLAUS TURNS 75 THIS HOLIDAY SEASON.” (2006): n. pag. The Coca–Cola Company. Web. 29 Nov. 2012.
  7. [7]snopes.com, vedi
  8. [8]Coke Lore: Coca–Cola and the History of the Modern-Day Santa Claus.” Coca–Cola Journey. The Coca–Cola Company, Web. 30-11-2012.
  9. [9]Does Santa Claus still drink White Rock®?” WhiteRocking. The White Rock Collectors Association, Web. 30-11-2012.
  10. [10]Coca–Cola’s Santa Claus: Not The Real Thing! BevNET.com, 18 Dic. 2006. Web. 30-11-2012.
  11. [11]About E. Boyd Smith.” Brooklyn Public Library. Web. 29 Nov. 2012.
  12. [12]Kennedy, Robert C. “Santa Claus and His Works.” HarpWeek. Web. 30 Nov. 2012.
  13. [13]Qui il testo completo: “Santa Claus And His Works.” The Hymns and Carols of Christmas. n.d. Web. 21-11-2013.
  14. [14]Cfr. Commons.

Bibliografia e fonti

Immagini

  1. © 1931 The Coca–Cola Company, fair use
  2. © 1923 The Saturday Evening Post, fair use
  3. San Francisco Examiner, 1923 [PD] (The White Rock Collectors Association)
  4. © 1923 White Rock Products Corporation, fair use (The White Rock Collectors Association)
  5. E.Boyd Smith (Stokes, 1908). [PD]
  6. Thomas Nast [PD]
  7.  Thomas Nast [PD] Commons
  8. © 1972 Playboy, fair use