Veduta di Pavia dal confluente con il rotto del Gravellone, 1855-1859: dipinto di Francesco Trécourt

Le paludi urbane di Pavia sul finire del XVIII secolo: una proposta di bonifica

In Città, Storia di Andrea Panigada

Veduta di Pavia del 1751

Veduta di Pavia del 1751.

È noto che la città di Pavia deplora, e soffre nella calda stagione i più tristi effetti di un’aria insalubre; motivo per cui trovasi essa in tal tempo abbandonata dai più agiati Cittadini, ed il resto del Popolo vi languisce vittima di morbi, che direbbonsi contagiosi.Carlo Castelli
Così il Proposto (ovvero il prevosto) Carlo Castelli[1] iniziava il suo Piano ragionato sui mezzi più efficaci per liberare la Città di Pavia, e suoi dintorni dall’infezione dell’aria, che vi domina,[2] opera data alle stampe nel 1792 e indirizzata all’attenzione di Sua Eccellenza il Signor Conte Emmanuele di Kevenhuller Metsch.[3] Si trattava di un “disordine” cui molti avevano provato a porre rimedio, ma senza risultati significativi. Né si doveva credere che l’attuale insalubrità fosse caratteristica innata della città: il Petrarca infatti descriveva Pavia come caratterizzata da «saluberrimo aere».[4]

Il dotto prelato esponeva quindi innanzitutto l’origine del problema: a suo dire erano «le acque che stagnano nelle vicinanze di Pavia quelle, a cui devesi attribuire l’infezione dell’aria […]. L’esperienza e la Fisica insegna che le acque prive di moto, specialmente se a piccolo spazio circoscritte, se dotate di poca profondità, se aventi fondo limaccioso, qualora comprese siano da un dato calore, si corrompono, che nella loro corruzione si generano[5] delle infette esalazioni, per cui rendesi insalubre, e contagiosa l’aria circostante».

copertina di "Piano ragionato del proposto Carlo Castelli..."

Piano ragionato … sui mezzi più efficaci per liberare la città di Pavia e suoi dintorni dall’infezione dell’aria che vi domina (1792).


Di paludi all’epoca, effettivamente, ce n’erano ancora parecchie, ad esempio nei pressi di San Lanfranco. Secondo l’autore però non potevano essere queste le acque che ammorbavano Pavia, sia per la loro distanza dall’abitato,[6] sia per i boschi che vi si frapponevano contribuendo a depurarne l’aria, sia perché le loro esalazioni dovevano per forza giungere in città attraverso l’azione di venti da nord ed «è un fatto, su cui ormai convengono tutt’i moderni e più oculati Fisici, che le esalazioni dei terreni i più paludosi sono pressoché nulla infette, qualora ci sono recate dai venti settentrionali». Le acque che producevano l’infezione dell’aria della città erano invece quelle che stagnavano nelle immediate vicinanze della stessa, e cioè quelle che si trovavano fra le porte Calcinara e Borgoratto[7] e quelle comprese tra il Ticino e il Gravellone,[8] cioè alle spalle del Borgo.

pianta di Pavia di fine XVI secolo

In questa pianta di Pavia di fine XVI secolo sono indicate le porte: a sinistra ed in bosso a sinistra si vedono rispettivamente “Porta Borgetto” (anche di Borgoratto), che si trovava in corrispondenza dell’attuale monumento alla Minerva, e “Porta Calicinara” sul Ticino, ancora esistente.

Per quanto riguarda le prime, «tali Paludi ebbero, com’è noto, origine da una forte irruzione, che il fiume Ticino fece contro il Baluardo di Porta Calcinara. […] Ritornato il fiume al primiero suo corso […] un danno ne sopravvenne non minore, per essersi fatto quel sito ricettacolo di torbide acque, cagione delle più infette esalazioni. La Roggia Carona,[9] ch’è destinata a portare le fecce delle città nel Ticino, venendo a perdere per questa Laguna la forza necessaria al trasporto delle fecciole materie, accrebbe, è vero, coi suoi depositi l’altezza di quel Fondo, ma lo rese tutt’insieme di più trista qualità». Si trattava quindi, in questo caso, non solo di acqua stagnante, ma anche inquinata, soprattutto a causa delle sporcizie trasportatevi dalla Carona, per di più a ridosso di un quartiere assai popolato.

Porta Calcinara a Pavia

Porta Calcinara a Pavia (Commons).

Carona in corso Strada Nuova

La roggia Carona in Strada Nuova, primi ‘900: in inverno veniva deviata in superficie e fatta scorrere lungo la via, per spazzare la neve accumulatasi.


Siccome l’origine di questa palude era da ricercarsi nell’erosione del fondale, la soluzione più semplice era «rimettere le cose nel primiero loro stato», cioè innalzare il fondo per evitare il ristagno di acqua. Il lavoro si sarebbe del resto potuto fare con poca spesa, utilizzando in primo luogo dei rottami ammassati presso le mura in occasione di demolizioni, i quali, fatti rotolare giù, potevano formare il primo strato. Inoltre, poco prima del ponte, si trovava un’isola formata da terra riportata dal fiume stesso,[10] che, trasportata per mezzo di barche, sarebbe stata utilissima per completare l’opera. A questo punto si sarebbe dovuto convenientemente mettere a coltura il terreno riguadagnato, anche servendosi dell’opera di privati, i quali, «perché il fiume non usurpi di nuovo, o renda infruttuoso il Fondo, sapran bene rimediare sul momento, e porre rimedio alle prime corrosioni con quelle difese […] che efficaci sono, adoperate in tempo opportuno.»

pianta di Pavia del 1786

In questa pianta di Pavia del 1786 si vede, in basso (appena a monte del ponte e del Borgo) l’ “isola boschiva” formata dai due rami del Ticino che si ricongiungono poco prima del ponte.

Problema ben più grave rappresentava invece «l’isola compresa fra l’Alveo del Ticino, ed il suo ramo minore detto il Gravellone, quella è appunto che contiene il più ampio Teatro delle acque stagnanti a danno della città di Pavia. Uno sguardo, che diasi a quest’Isola nei Mesi Estivi, non incontra che Paludi, Lanche e Fossi, ricettacoli di oziose acque putrefatte. Il graveolento odore, che esalano, il torpore da cui il capo resta oppresso, e la difficile respirazione che provasi, fornisce una prova sperimentale, siccome dell’infezione dell’aria, che vi regna, così della causa, che la produce». L’area era caratterizzata da un livello del terreno più basso rispetto all’alveo dei due fiumi, e per di più ricco di irregolarità. Tuttavia, l’area interessata era troppo vasta e troppo diverse le motivazioni del fenomeno per farne una trattazione unitaria: «essendo detta Isola bipartita dalla strada, che dal Ponte Ticino porta al Gravellone, distinguo primieramente le acque, che stagnano nella parte dell’Isola posta alla destra di questa strada da quelle, che trovansi nella parte dell’isola posta alla sinistra della strada medesima: partitamente poi esamino quelle acque, che stagnano all’intorno del Borgo di S. Antonio[11]».

Pianta di Pavia del 1792

In questa pianta della Regia città di Pavia con suo borgo del 1792 si vede in basso il Borgo di S. Antonio (attuale Borgo Ticino). All’epoca era un’isola, «bipartita dalla strada, che dal Ponte Ticino porta al Gravellone», in quanto delimitata a nord dal Ticino e tutt’intorno dal ramo detto appunto Gravellone. L’abitato del Borgo era inoltre circondato dai bastioni realizzati tra il 1685 e il 1725.

Venendo alle prime, andava rilevato che il corso del Ticino si era modificato diverse volte negli anni, ora occupando nuovi terreni, ora lasciandone liberi altri prima coperti dalle acque.[12] In occasione di piene importanti avveniva che le acque, in ragione della loro forza, invadendo un’area già bassa e accidentata, contribuissero a creare nuovi rialzi e avvallamenti, e che non potessero poi ritirarsi completamente, lasciando acquitrini sui quali poi prosperavano la flora e la fauna tipiche delle zone palustri, con ulteriore peggioramento della qualità dell’aria. A sinistra della strada la situazione era anche più grave, perché si trattava di una zona ancor più depressa, tanto da essere inondata ad ogni minimo innalzamento delle acque del Ticino o del Gravellone. Come conseguenza di ciò, i proprietari non si curavano affatto di questi terreni, non potendo coltivarli. In verità erano stati aperti, in tempi diversi, alcuni canali e colatori con l’intento di far defluire le acque, ma essi erano ormai del tutto inutilizzabili a questo scopo, perché alcuni dei proprietari, nella speranza di trarre almeno un minimo vantaggio, avevano piantato delle “gabbe”,[13] utilizzando poi i canali per il trasporto della legna ottenuta, finendo quindi otturarli in gran parte con residui vegetali. Altri avevano munito i loro fondi di piccoli argini, con il pretesto di impedire le inondazioni, ma in realtà per poter catturare i pesci che restavano imprigionati negli avvallamenti del terreno quando l’acqua si ritirava, peggiorando in tal modo la situazione. Infine, le paludi adiacenti a Borgo Ticino erano le più perniciose per la salute pubblica, perché immediatamente a ridosso di una zona abitata, ed erano originate dai lavori di fortificazione avvenuti negli anni 1685 e 1725. Per costruire dei bastioni a protezione dell’abitato, si era recuperata la terra necessaria scavando delle fosse, a loro volta utilizzabili a fini difensivi, ma queste ultime, sia per le piene del Ticino, sia soprattutto per la difficoltà di far defluire l’acqua proprio a causa delle opere di difesa innalzate, e per incuria, si erano trasformate col tempo in fetidi acquitrini.

Veduta di Pavia dal confluente con il rotto del Gravellone, 1855-1859: dipinto di Francesco Trécourt

Veduta di Pavia dal confluente con il rotto del Gravellone, 1855-1859; dipinto di Francesco Trécourt (fondazione Cariplo),

Distinte dunque, e diverse son le cagioni delle Paludi esistenti nel circondario di quest’Isola. Provengono le prime dalla indole, e violenza del Fiume. Le seconde dalla natura del sito; e delle ultime n’è cagione l’opera e l’indolenza degli uomini. […] Diverse essendo le immediate cagioni del male, v’ha d’uopo a rimoverle un diverso rimedio.Carlo Castelli

Si trattava in effetti di un problema molto sentito dalla popolazione, tanto che il “volgo” proponeva diversi rimedi apparentemente di buon senso, tutti però confutati dal Castelli. I più ritenevano che la soluzione migliore fosse cingere tutto il perimetro della zona interessata con un alto e robusto argine, in modo da impedire l’ingresso delle acque e quindi il loro ristagno. Si trattava però di una soluzione impraticabile per diversi motivi, ad iniziare della spesa spropositata. Ma anche tralasciando questo aspetto, il rimedio non sarebbe stato sicuro, perché il fiume poteva essere assai impetuoso, e la sua direzione imprevedibile, senza contare che il materiale naturalmente a disposizione per l’opera (per lo più sabbia e ghiaia minuta) non avrebbe avuto la forza necessaria per reggere il peso dell’acqua. Inoltre, soprattutto nella zona del Gravellone, il livello del terreno era troppo basso, e l’acqua del fiume vi si insinuava «per travenazione», non solo dando origine a vere e proprie sorgive, ma impregnando il suolo anche laddove la terra pingue e argillosa sembrava ostacolarla efficacemente, rendendo quindi concreto il pericolo che l’aumento della pressione in caso di piene creasse dei fontanazzi. Infine, l’argine a nulla sarebbe valso contro la pioggia, che non potendo essere assorbita dal terreno già zuppo, né defluire a causa dell’argine stesso, avrebbe contribuito in tal modo ad alimentare ulteriormente gli acquitrini.

Altri, al contrario, proponevano non già di impedire l’accesso alle acque, ma anzi di sfruttare le piene per colmare i dislivelli per il tramite del deposito di materiali portati dallo stesso fiume. Anche questo ripiego però era da scartare, perché le acque del Ticino non sono sufficientemente torbide. La conferma di ciò veniva dal fatto che, nonostante il fiume esondasse nella zona da circa un secolo, non si era verificato alcun sensibile rialzamento dei terreni. Inoltre, anche nel caso in cui si fosse potuto avere qualche deposito consistente, sarebbero serviti secoli prima di giungere allo scopo. Altri ancora consigliavano di livellare i terreni interessati, togliendo terra dalle zone più alte per colmare gli avvallamenti più profondi, ma ciò era infattibile, perché l’area era troppo depressa, e, per di più, i pochi fondi leggermente rialzati erano terreni coltivi tanto preziosi quanto rari, la qual cosa avrebbe certo causato l’opposizione dei proprietari, soprattutto perché, appena al di sotto dei pochi palmi di terra fertile, si trovava solo ghiaia.

Il ponte medievale sul Ticino a Pavia, dipinto di Riccardo Pellegrini (1900 circa)

Il ponte medievale sul Ticino a Pavia, dipinto di Riccardo Pellegrini: 1900 circa (Fondazione Cariplo).

V’era anche chi riteneva la soluzione migliore aprire un canale derivatore a monte del “Ponte Ticino” per tenere in movimento l’acqua delle paludi, impedendone la putrefazione in estate. Ciò non solo avrebbe comportato la perdita di quei terreni, perennemente inondati, ma avrebbe soprattutto minacciato di deviare stabilmente l’intero corso del fiume, eventualità che «sì fatale riuscirebbe» da dover essere evitata con la massima cura.[14] Esisteva poi lo «specioso progetto» di impedire il debordamento del Ticino «mediante un rettifilo del suo cavo», nella speranza di aumentare la velocità delle acque grazie ad una via più breve, ipotesi di cui l’autore dimostra l’insussistenza, giacché la velocità dei fiumi dipende soprattutto dalla loro foce. Se lo sbocco fosse libero, e il Ticino si gettasse in Po tramite una cascata, l’idea avrebbe anche potuto avere qualche fondamento, ma la loro confluenza avviene pressoché allo stesso livello, tanto che si poteva ben osservare che spesso, durante le piene, erano le acque del Po ad introdursi in Ticino.

Da ultimo, l’autore fa cenno ad «un altro più grande disegno» da lui stesso concepito, cioè dare al Ticino uno sbocco più basso, onde fornire alle acque una maggiore pendenza. In seguito ad uno studio di fattibilità più approfondito, il Castelli aveva però abbandonato l’idea, sia per la propensione del Po «di cambiar direzione, e di otturare con le sue deposizioni le bocche de minori Fiumi influenti», sia per il pericolo che la maggiore declività del Ticino ne avrebbe, soprattutto in tempi di magra, messo a repentaglio la navigabilità.[14]

Ma qual sarà mai il provvedimento per me adottato a riparo di sì grave disordine?Carlo Castelli

Per quanto atteneva agli acquitrini a destra della strada, si sarebbe dovuto iniziare dando sistematicità agli “arginelli” già costruiti dai proprietari dei terreni, riparandoli e livellandoli laddove necessario, e costruendone di nuovi, in modo da impedire l’ingresso di altra acqua in caso di piene di lieve e media entità. Le “bassure” poste al di sotto del livello del Ticino e del Gravellone sarebbero poi state spurgate, per abbassarne il fondo fino a raggiungere la ghiaia, indice di comunicazione con l’aves (cioè la falda acquifera). Queste sarebbero poi state messe in comunicazione con gli stagni vicini posti ad un livello più alto tramite dei canali di scolo, in modo da divenire dei bacini di raccolta. In sostanza, meno specchi d’acqua ma di maggiore capacità: l’accresciuta quantità di liquido e il costante ricambio garantito dalla comunicazione diretta con la falda ne avrebbero impedito l’eccessivo riscaldamento e quindi l’imputridimento. Ovviamente l’indispensabile manutenzione di tutto il sistema avrebbe avuto un costo, ma enormemente inferiore di quello necessario per scavare dei canali direttamente comunicanti con il fiume.

Le paludi a sinistra della strada, come si è detto, erano caratterizzate da un fondo più basso, sommerso ad ogni minimo innalzamento del livello del Ticino e del Gravellone. Nell’attuale situazione di incuria ciò rappresentava indubbiamente uno svantaggio, ma questa continua comunicazione con le acque fluviali rendeva la zona atta ad impiantarvi una marcita.[15] Per fare ciò era innanzitutto necessario lo scavo di un colatore[7] posto nel punto più basso della zona; la terra così recuperata sarebbe stata utilizzata per il livellamento dell’area. Lo scorrere dell’acqua nella marcita, lento ma costante, ne avrebbe impedito la fermentazione.

Pavia, Borgo Basso - case in riva al Ticino

Le case del Borgo Basso sul Ticino (Commons / CC BY-SA 4.0).

Misure più radicali richiedevano le paludi nei pressi del Borgo, in quanto la zona era abitata. La terra dei bastioni che — come detto — le avevano prodotte avrebbe potuto essere utilizzata per colmarle, tanto più che quelle fortificazioni erano ormai considerate inutili dallo stesso governo. Ma perché non pensare a risolvere contemporaneamente anche il problema delle piene, che tanto frequentemente affliggevano i borghigiani? Si lasciassero i bastioni dov’erano, anzi li si completasse ove mancanti, in modo da poter fare da argine, se non ai nemici, almeno all’acqua del Ticino! Per fungere efficacemente allo scopo, li si sarebbe dovuti abbassare ad un altezza pari al piano della strada che andava verso il Gravellone, giacché sarebbe stata inutile una maggiore altezza delle sponde se il livello dell’acqua fosse salito a sufficienza da entrare comunque per quella via. La terra così ottenuta si sarebbe utilizzata per creare un piano inclinato, risolvendo così il problema degli acquitrini posti sulla destra del Borgo. Quelli sulla sinistra, però erano troppo estesi e la terra recuperata non sarebbe stata sufficiente. Era però possibile restringere la cerchia degli argini al solo abitato, realizzando così un notevole avanzo di materiale di riporto, di nuovo utilizzabile per l’interramento dei restanti stagni all’interno della cerchia. Restava il problema degli acquitrini rimasti al di fuori. «Gli estremi mali ricercano estremi rimedj»: mancando la terra per riempirli, si attendesse un periodo di siccità per asportare non solo i canneti e le erbe palustri, ma la terra stessa, scavando fino a trovare la ghiaia, in modo da convertire l’intera area in una darsena, confinante con le ultime case del Borgo e utilissima per il ricovero, la costruzione e la riparazione delle imbarcazioni, nonché per il carico e scarico delle mercanzie.

Ovviamente al Prevosto Castelli non sfuggiva l’aspetto economico delle sue proposte, che riconosceva non di poco conto. Tuttavia, posta la premessa che il problema aveva soluzioni tanto limitate quanto necessarie, aveva ragionato su come contenere il più possibile i costi. Innanzitutto non prevedeva la costruzione di opere in muratura: tutto si riduceva allo spostamento di terra e allo scavo di canali, per realizzare i quali si sarebbe potuto far ricorso alle macchine allora esistenti, in modo da ridurre l’utilizzo di manodopera. Inoltre i canali sarebbero stati utilizzabili anche per il trasporto di materiale e persone tramite barche, già in corso di esecuzione dei lavori, riducendone la durata. Infine, per la manovalanza si sarebbe fatto ricorso in primo luogo «ai Forzati e Condannati», che ovviamente non sarebbero stati pagati, e quindi ai mendicanti, «obbligando così i poveri a prestarsi giusta le lor forze al servizio di quest’Opera».[16]

Tutto ciò considerato, la spesa preventivata per tutti gli interventi proposti era stimata in 207 000 lire austriache.[17] «Se tale spesa sembrasse nelle attuali circostanze alquanto gravosa», si considerasse che i lavori potevano essere eseguiti in tempi diversi, cominciando dalle paludi vicino a Porta Calcinara, affare di piccola entità. In secondo luogo, la spesa non doveva necessariamente gravare interamente sul governo della Lombardia Austriaca: «la Provincia, la Camera, i pubblici Spedali, i Luoghi Pii, la Navigazione, l’Agricoltura, il Commercio, la Pescagione potendo sentir vantaggio delle disegnate provvidenze, parmi, che possan chiamarsi a parte delle spese per le medesime richieste». Per di più, avvalendosi «della gente più bisognosa e del più basso popolo» si sarebbero spesi dei soldi in cambio di lavoro a vantaggio della pubblica utilità anziché in sovvenzioni «alla oziosa mendicità». Ultimo ma non ultimo, si sarebbero garantiti l’onore e la salute «di una Città delle più ragguardevoli dello Stato».

Note

  1. [1]«Professore emerito di fisica e socio di svariate accademie»
  2. [2]op. cit.
  3. [3]Ciambellano di S.M., Consigl. Int. Att. di Stato, e Primo Consultore presso il R. Governo della Lombardia Austriaca.
  4. [4]Rerum senilium libri, lettera a Boccaccio del 17 dicembre 1365, in cui questi viene invitato dal Petrarca a raggiungerlo presso Pavia. Il Petrarca fu effettivamente ospite di Galeazzo II Visconti diverse volte, tra il 1363 e il 1369.
  5. [5]L’autore sembra dare credito alla cosiddetta teoria della generazione spontanea: si riteneva in sostanza che gli esseri viventi più semplici, come i vermi e gli insetti, potessero nascere spontaneamente dal fango o da carcasse in putrefazione. Tale credenza venne confutata definitivamente solo nel 1864 da Louis Pasteur.
  6. [6]Ovviamente dobbiamo pensare ad una Pavia molto più ristretta di quella attuale e limitata, grossomodo, al recinto delle Mura spagnole.
  7. [7]Porta Calcinara è ancora esistente e la si può ammirare, per quanto per nulla valorizzata, nei pressi dell’omonima via. Era indicata con questo nome perché dedicata soprattutto allo scarico della calce. Porta di Borgoratto si trovava alla fine dell’attuale Corso Cavour (zona Minerva) e venne abbattuta negli Anni Venti del secolo scorso.
  8. [8]All’epoca era a tutti gli effetti un ramo del Ticino. Venne canalizzato nel corso dell’Ottocento, divenendo un colatore, e scorre tutt’ora a sud di Pavia. Si tratta peraltro di un corso d’acqua importante dal punto di vista della Storia pavese e non solo: fu infatti il confine tra la Lombardia austriaca e il Regno di Sardegna fino al 1859. Varcandolo, il 29 marzo 1848 Carlo Alberto diede inizio alla Prima guerra di indipendenza.
  9. [9]Altro corso d’acqua molto caro ai pavesi, nasceva da un fontanile nei pressi di Zibido San Giacomo. Il ramo principale, la Carona Magistrale, entrava in città da Mirabello, dividendosi poi in vari rami. La Carona di Strada Nuova, quella di cui parla l’autore, staccatasi da un ulteriore ramo (la Carona dei Mulini), arrivava nell’area dell’attuale Porta Milano, portandosi poi all’imbocco di strada Nuova, che era ed è tuttora percorsa nel suo sottosuolo da una cloaca fognaria di epoca romana. In condizioni metereologiche normali la roggia era incanalata in tale cloaca per tenerne pulito il fondale, ma in inverno, in occasione di nevicate sulla città, veniva deviata in superficie e fatta scorrere lungo la via, per spazzare la neve accumulatasi.
  10. [10]Il corso del Ticino era diverso rispetto ad oggi, e diviso, a monte del Borgo, in due rami che si riunivano poco prima del ponte, tra i quali si trovava appunto l’ “isola boschiva” di cui parla il Castelli.
  11. [11]Cioè l’attuale Borgo Ticino. Gli antoniani, chiamati anche “cavalieri del fuoco sacro”,  erano un ordine di canonici ospedalieri. Si dedicavano alle cure degli ammalati di ergotismo (il “Fuoco di San Antonio”, termine che oggi si riferisce invece ad una particolare forma di Herpes Zoster). A Pavia si trovavano presso la zona al di fuori di Porta San Vito, oggi Porta Milano. Nel 1360 furono “sfrattati” da Galeazzo II per la costruzione del Castello Visconteo e si trasferirono in Borgo Ticino, dove costruirono una chiesa con ospedale per il ricovero dei pellegrini.
  12. [12]Le acque del fiume erano all’epoca assai meno “obbligate” nel loro defluire e più libere di sfogare.
  13. [13]Cioè piante di salice bianco, un albero deciduo presente in tutte le regioni d’Italia, che cresce presso i laghetti e nelle zone umide, su suoli da argillosi a fangosi periodicamente inondati. Il legno non marcisce presto in terreni saturi di acqua; i rami giovani, soprattutto di piante capitozzate, sono utilizzati come vimini per la costruzione di ceste, sedie, ecc. Il termine potrebbe però anche riferirsi, genericamente, a qualsiasi pianta venga capitozzata.
  14. [14]Pavia era una città fluviale e la stabilità del Ticino come via d’acqua era fondamentale per la sua economia. Peraltro, l’autore sostiene che il fiume, non molti anni prima, aveva minacciato di fare esattamente quanto paventato, comportando per la città «cure, e spese gravissime».
  15. [15]La marcita è una tecnica colturale caratteristica della Pianura Padana; essa consiste nell’utilizzo dell’irrigazione a gravità anche nella stagione invernale. L’acqua viene mantenuta in continuo movimento dalla conformazione dolcemente declinante del terreno, impedendo in questo modo che il suolo ghiacci; lo sviluppo della vegetazione prosegue così anche durante l’inverno rendendo possibile effettuare annualmente almeno sette tagli di foraggio (ma spesso anche nove), contro i 4-5 ottenuti dalla coltivazione del migliore prato stabile. Il nome di marcita deriva dall’antica consuetudine di lasciare l’ultimo taglio invernale a “marcire” nel prato irriguo.
  16. [16]«Si avrebbe da ciò il modo di liberare la Città dalla mendicità oziosa, o di sottrarla dal peso del suo mantenimento, qualora i poveri per iscansare il lavoro si appigliassero alla fuga».
  17. [17]È impossibile calcolare con precisione l’entità della spesa attualizzata, ma si può provare a rendere l’idea. In Lombardia la sostituzione della lira austriaca con la lira italiana avvenne in contemporanea con l’occupazione sabauda del 1858, con il cambio 1 lira austriaca = 0,86 lire italiane. Si otterrebbero così 178.020 lire italiane. Secondo l’Istat, tale cifra nel 1861 equivaleva a circa 858 000 euro del 2014. Applicando in maniera arbitraria un tasso di inflazione medio dell’1% per il periodo che va dal 1792 (anno della pubblicazione dello studio del Castelli) fino al 1861, si otterrebbe un totale, probabilmente sottostimato, di circa 1 450 000 euro.

Bibliografia e fonti

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Andrea Panigada