Schloss Neuschwanstein

La notte del Cigno

In Racconti di Benedetta Melappioni

Ci incontriamo al Nationaltheatre, la sera della prima del Lohengrin che apre la stagione Lirica. Non poteva che essere quella l’opera che avrebbe accompagnato il nostro incontro. È quella che segna entrambe le nostre vite. Mi aspettavo di vederlo comparire durante uno dei tre atti. Scorgere l’ombra che si siede accanto a me ed inizia a parlarmi. Invece no, tanto che per un po’ provo l’amara sensazione di delusione bruciare nelle viscere. Sul finale del Lohengrin mi commuovo. Il cavaliere che se ne va lasciando Elsa esanime tra le braccia del ritrovato fratello, Gottfried. Le luci si riaccendono e gli applausi scroscianti investono il teatro. Io mi alzo dalla sedia, metto il soprabito ed esco. Da sopra la rampa di scale che mi appresto a scendere lo scorgo e per un attimo il cuore salta un battito. Mi sta aspettando. Bello, nell’alta uniforme con la quale è stato ritratto da Ferdinand von Piloty. Alza lo sguardo verso di me e ci fissiamo, per secondi che appaiono eterni. Sono ancora frastornata dall’esperienza musicale appena vissuta, perciò mi sento come se stessi per svenire esattamente come Elsa.
Ludwig II in alta uniforme ritratto da Ferdinand von Piloty, 1865

Ludwig II in alta uniforme ritratto da Ferdinand von Piloty, 1865.



Prendo un profondo respiro, pregando le gambe di non cedere sotto i fremiti violenti dell’emozione, mentre scendo i gradini. Sollevo un lembo della lunga gonna dell’elegante abito blu, onde evitare di inciampare. Siamo vicini, ora. Mi sovrasta con la sua figura esile, così reale e fisica. Credevo avrei visto un fantasma, ma se allungo la mano posso toccarlo e sentire carne e non ombra. Intorno, solo il silenzio. In una dimensione che non appartiene a nessuno se non a noi. «Eccovi qui, dunque. Infine, ci incontriamo» la voce è marcata, come i lineamenti del viso. Vorrei chiedere tante cose. Come sia possibile, a quale antica divinità l’editore di Lapůta, Silvio, si sia votato per permettere questo incontro (Chtulu, ovviamente: n.d. Silvio). Ma non ha senso farsi delle domande. Non ora. Non con lui qui.

«Siete come vi immaginavo» ammetto, non senza un certo imbarazzo che colora le guance di un pallido rosso. Lui sembra colpito, ma non replica. Mi fa cenno di incamminarci verso l’uscita e chiede: «Amate Wagner?»

«Molto.»

«Avevo sedici anni quando vidi il Lohengrin per la prima volta, proprio in questo teatro.»

«Fu bello?»

«Bellissimo!» esclama senza riuscire a contenersi «Me ne innamorai nel momento stesso in cui il primo archetto sfiorò le note del maestoso violino. Dio parlava attraverso Wagner. Parlava a me, per me» arriviamo alla porta mentre lo ascolto rapita.

Lohengrin di August Von Heckel

Lohengrin di August Von Heckel.



Ci guardiamo, prima di uscire. Ha gli occhi che brillano della stessa intensità del cielo di notte, tempestato di stelle. Occhi blu, che celano l’infinito della sua anima, come la volta cela l’universo. Varco il portale, pronta a chiedere ancora ma le parole e i pensieri si spengono come fiamma nella tempesta. Muoiono, strozzati dall’improvvisa e prepotente emozione. Non c’è la piazza, le strade, le macchine. Non ci sono viandanti che passeggiano nella fredda sera invernale. Ci sono alberi e statue quali silenziosi testimoni della nostra presenza. Rischiarati dalla pallida luce della luna abbiamo superato il confine definitivo della realtà.

Schloss Linderhof a Ettal, Baviera

Schloss Linderhof a Ettal, Baviera (foto D. Baschiera/Unsplash).

«Lindherof» sussurro, mentre i respiri accelerano e il cuore si lascia andare a veementi battiti. Formicolii corrono lungo la pelle. Piccole scariche elettriche che si dipanano come rami su tutto il corpo.

«Non vi era luogo migliore, per cominciare questa notte»

Mi guardo intorno, estasiata, mentre lui scende le scale e si avvicina alla grande fontana, regina del piazzale antistante il castello. Lo seguo.

«Venivo in queste zone a caccia con mio padre. Non che mi piacesse cacciare, ma era una valida scusa per passare del tempo con lui. Mi sono spesso chiesto cosa avrebbe pensato, nel vedere questo castello»

«Forse gli sarebbe piaciuto»



«No», scuote il capo con forza «Mi avrebbe rimproverato. Come tutti gli altri. Sarebbe stato solo uno spreco di denaro e di energie, per un vezzo evitabile. Nessuno vedeva quello che vedevo io in questi luoghi»

«Nessuno tranne Wagner…»

«Lui capiva quello che intendevo quando parlavo di cavalieri e mondi ideali, romantici, lontani da quella realtà che mi trovato costretto a vivere ogni giorno. Imprigionato in un mondo che non era mio e dal quale potevo evadere solo attraverso la sua musica» la voce sembra crinarsi, in preda a quella malinconia che gli vela lo sguardo. «E i maligni riuscirono a speculare e a lordare il nostro rapporto con pettegolezzi di bassa lega e supposizioni. Magari era vero, alla fine, che lui mi era vicino solo per ripagare i debiti e avere soldi e protezione…»

«Credo che non abbia importanza quale sia la verità. L’unica cosa che conta era il vostro affetto sincero e i vostri pensieri. Che sia la storia poi a dire se avevate ragione voi o loro»

Si volta, abbozzando un sorriso che addolcisce per un breve istanti i tratti algidi del viso. Mi siedo sul bordo della fontana, lasciando ondeggiare le dita sull’acqua increspata dal lieve vento. Guardo il mio riflesso, con la grande luna dietro che rischiara di irreale candore la mia figura. Un getto altissimo si solleva dalla statua della dorata donna distesa, al centro esatto. Mi alzo di scatto, fissando lo sguardo sulle gocce simili ad avorio purissimo che spumano verso il cielo. È meraviglioso.

Ludwig II di Baviera

Ludwig II di Baviera, c.a 1874.



«Tremate, avete freddo?» chiede, mentre stringo le braccia sul cardigan nero che copre le spalle altrimenti lasciate nude dall’abito.

«No» indietreggio, senza smettere di guardare la fontana.

«È paura?»

«Emozione»

«Avevo la vostra stessa espressione, quando andai al teatro quella lontana sera di febbraio.»

Sorrido.

«Perché proprio lui, tra tutti gli eroi?»

Ci pensa un po’, sospira.
«Non appartiene a quel mondo. Prova a farne parte solo per amore della sua Elsa, ma la sua anima è troppo profonda e pura per la realtà. E infatti deve fare i conti con la sua grandezza ed incapacità di vivere tra mortali che non meritano tale onore.»

«Come te.»

«Mi chiamavano il re delle favole, ma la mia vita fu tutto meno che una bella storia. Ho vissuto di illusioni, sperando in cuor mio di essere come lui, come il cavaliere del cigno. Non so se ci sono riuscito davvero.»

«Se l’illusione vi ha fatto star bene, non ha senso disilludersi ora.»

Mi porge il braccio, e lo stringo, fremendo al tocco del tessuto del loden e della carne che cela sotto di esso. Si scioglie il dubbio sulla sua realtà. Ne ho la conferma. La stringo tra le mani.

Gli occhi trasudano tristezza, ma non perdono neanche per un istante la bellezza che deve averli sempre contraddistinti.

«Vivete anche voi di sogni?» iniziamo a camminare e mi scruta, come se volesse leggermi l’anima.

Sorrido: «Si, credo che ne condividiamo più di quanto possiamo immaginare. Ma non ho mai avuto un luogo come questo, che mi aiutasse a renderli seppur flebilmente, reali» mi fermo per ammirare l’ingresso del castello.

«Meicost Ettal» sussurra.

«Il nomignolo che gli avevate dato?»

«Si» annuisce, come a dar man forte alla parola «È l’anagramma della frase “L’etat se moi” di Luigi XIV. Non avrei mai potuto essere assoluto come lui, ma i miei castelli mi permettevano di vivere in quell’ideale, almeno un poco» stringe un poco il braccio, come a farmi vicina. «Conoscete gli altri?» mi chiede, senza distogliere lo sguardo, carico d’amore, come sarebbe quello di un padre che osserva il proprio figlio di marmo e pietra.

«Si, li conosco tutti»

«Ne avete uno che preferite?»

Ci penso, anche se è facile. «Neuschwanstein» il ventre formicola, come se mi vergognassi della banalità della risposta. Chiunque avrebbe detto quello.

«Perché?»

«È il più bello» rispondo, staccandomi dalla stretta e avvicinandomi al parapetto vicino le scale. Stringo le braccia, in un istintivo moto di protezione. Come a voler celare i miei reali pensieri.

Schloss Neuschwanstein

Schloss Neuschwanstein.

«Non può essere solo per questo. Quando guardiamo un quadro di immane bellezza, l’apparenza ci tocca solo in superficie. Ma quello che ci provoca dentro, lo smossamento di sensazioni, sono ben più profonde. Ci portano a ben altri pensieri» i lapislazzuli negli occhi sono fissi su di me e non riesco a sostenerli. Chino lo sguardo, riflettendo. Corruccio le labbra, prima di tornare a guardarlo, rispondendo, sinceramente: «Era la tua fortezza» lascio fluire le parole, come un fiume «Lontano da tutto, inaccessibile. È lì, come un’aquila lontana che osserva la miseria del mondo, senza doversi avvicinare. Senza dover essere da essa lordata. E…» faccio una pausa «E ho sempre cercato di immaginarti lassù, mentre ti muovevi tra quelle stanze, ti affacciavi da una delle grandi finestre e scrutavi l’infinito che si apriva dinnanzi a te. Ho sempre provato tristezza, al pensiero che tu venissi strappato proprio da lì… venivi riportato con violenza alla realtà, rapito da quel luogo che avrebbe dovuto proteggerti.»

Ci guardiamo. Non so per quanto. Il vento accarezza i capelli, facendo fremere il collo. L’intensità del suo sguardo è più eloquente di qualsiasi parola, ma temo di aver osato troppo. Riportare la mente a quella notte. Quando il suo mondo iniziò a crollare sotto il peso della crudeltà umana. E dell’incomprensione che l’aveva sempre accompagnato. Vorrei dire qualcosa, spezzare la pesantezza di quel silenzio. Ma lo fa lui, dopo essersi schiarito la voce: «Ora capisco, perché sei qui.»

«Io no, non lo so» scuoto il capo, con un filo di voce.

«Perché dev’esserci una grande sintonia, per poter comprendere un dolore senza averlo vissuto.»

«Temevo di aver parlato troppo.»

«No. Solo un’altra persona della mia vita, avrebbe potuto dire le medesime parole con la stessa intensità.»

Abbozzo un sorriso. Credo di aver capito.

«Mon couzin, Sissi» c’è dolcezza nel modo di pronunciare il nome.

«L’amavate?» chiedo diretta, senza troppi giri di parole.

Ci pensa, sospira. «Non di quell’amore di cui sono fatti gli uomini. Non era carnale o passionale, quel che provavo per lei. Era eterno e puro.» allunga la mano, la prendo avvicinandomi nuovamente. Riprendiamo a camminare, mentre racconta: «Era la mia anima gemella. Eravamo molto simili, nell’aspetto e nei sentimenti. Teneramente ci scrivevamo delle lettere dandoci dei soprannomi: io ero l’aquila della montagna e lei il gabbiano. Aveva sempre avuto un debole per il mare.» sospira «Non sarei potuto sopravvivere alla sua morte.»

«L’avresti voluta sposare?»

La domanda sembra coglierlo alla sprovvista. Vedo che riflette sulla risposta: «Lei mi avrebbe capito. Era così bella…» china il capo «Provò a farmi sposare sua sorella, la piccola Sophie. Graziosa, ma che nulla aveva dell’impetuosità di lei. Provai a scendere a patti con me stesso e ad accettare. Ma quale uomo avrebbe condannato quel tenero fiore ad una vita accanto a me…»
«Per questo l’hai lasciata poco prima delle nozze.»
«Non fu codardia. Fu un atto di coraggio.»
«Tu cercavi Elsa.»

«La chiamavo così, nell’ultimo periodo. Per darmi la forza di amarla. Ma Sophie non meritava quella sofferenza.»

fidanzamento di Ludwig II e Sofia di Baviera

Fidanzamento di Ludwig II e della principessina Sophie di Baviera, 1867.

«Nessuno dovrebbe rimanere solo, a combattere le proprie battaglie» commento, mentre ci incamminiamo su di un sentiero di terra battuta.

«È il destino di tutti, la solitudine. Lohengrin rimane solo alla fine di tutto.»

Non so come rispondere. Scende il silenzio, mentre ci addentriamo nel boschetto adiacente a Lindherof. Camminiamo, con i passi che fanno rumore sulla strada sterrata. Allunga il passo: «Vieni.»

Quasi corriamo, mentre una piccola grotta fa capolino nella semioscurità della notte. Superiamo la barriera di ferro che delimita l’area. Istintivamente mi prende la mano, per guidarmi all’interno. Tira dritto, come un gufo in grado di vedere anche nel più tetro nero. Conosce la strada così bene da non incespicare sulle rocce che ci circondano, mentre io mi sforzo di non trattenerlo, nella paura di cadere.

Grotta di Venere a Linderhof

Grotta di Venere al Linderhof.

Una luce rossa dapprima distante si fa sempre più vicina mano a mano che camminiamo, e ci avvolge nel momento in cui lasciamo il corridoio di pietra alle nostre spalle trovandoci nella grande sala principale della grotta. C’è uno specchio sulla destra. Mi guardo, ma lui non riflette la propria immagine. Mi ricordo che è lì, ma non lì. E la consapevolezza è un pugno dritto nello stomaco. Distolgo lo sguardo.

«La Grotta di Venere» esclama «Il regalo che mi feci per il mio trentaduesimo compleanno»

È bellissima. La guardo, mentre giochi di luci la colorano sfumandola dal rosso, al blu, al giallo. «Sembra vera, non trovi?» chiede estasiato da ciò che lui stesso è riuscito a fare. Annuisco. «E invece è artificiale» spiega «Persino le stalattiti che vedi pendere dal soffitto, sono state create appositamente per renderla il più reale possibile.»

«L’affresco invece rappresenta il Tannhäuser, vero?» chiedo.

«Si» prende un profondo respiro «Questo era il mio posto preferito. Venivo qui, mi mettevo sulla barca e ascoltavo la musica di Wagner. Avrei potuto passarci giornate intere, senza rendermi conto dell’alternarsi del giorno e della notte.»

Si avvicina alla sporgenza che separa la roccia dall’acqua, sopra la quale è posata la barca a forma di conchiglia. Allunga la gamba, poi l’altra. Sale su di essa facendomi cenno di raggiungerlo. Tende le mani e mi aiuta. Salirci fa effetto. Lo sento fin nelle viscere, mentre mi stringe. Così vicini, così lontani. Per un attimo i nostri sguardi si intrecciano e si perdono l’uno nell’altra. Il suo cielo, nell’ambra dei miei.

Parte una musica. L’Overture del Tannhäuser. Sospiro. «È a lui che è dedicata questa grotta, spero tu non abbia nulla in contrario se per un po’ ci accompagneranno le note del Maestro.»

Scuoto il capo, senza rispondere. Nessuna parola potrebbe esprimere quel che provo, quell’insieme intenso di sensazioni incomprensibili. Ci sciogliamo dalla stretta, lui si siede sulla barca, si stende, come faceva in quel tempo ormai così lontano. E lo imito, allungandomi accanto a lui. «Ho preso ispirazione dal Lohengrin per la barca.»

«Forse in un’altra vita lo sei stato davvero.»

«Il nostro epilogo fu senz’altro simile. Lui costretto a tornare al proprio mondo attraverso le acque dello Shelda e io, che trovavo la mia fine nelle fredde acque dello Starnberg.»

«Cos’è accaduto quella notte?» domando. Sembra divertito. Gli occhi sorridono nonostante la bocca rimanga seria.

«Se te lo dicessi perderei il più grande mistero della mia esistenza.»

Lo guardo, prima di vederlo socchiudere gli occhi trascinato dalla musica. Scende il silenzio, violini e ottoni risuonano tra le pareti e mentre le luci continuano ad intervallarsi. Delle leggere onde increspano la superficie dell’acqua, facendo muovere delicatamente la conchiglia. Un movimento soporifero. Neanche mi accorgo della testa che si appoggia sulla sua spalla e gli occhi si chiudono, con le palpebre pesanti che sembrano farsi di duro marmo. È un vento improvviso che mi sveglia. Apro gli occhi trovando l’immensità del cielo stellato a sovrastarmi. Mi tiro su, guardandomi intorno. Un lago, dei cigni. Siamo usciti dalla grotta. Lui è lì, mi guarda, abbozzando un sorriso. «Dove siamo?»

«Lo scoprirai a breve.»

Un cigno più intraprendente degli altri si avvicina, sporgendo il collo verso di me. Allungo la mano per accarezzarlo, lasciando che le dita scivolino sulle bianche piume. Sorrido. Una leggera nebbia vela la realtà tutt’attorno. Il paesaggio montano Bavarese è un sogno visto di notte. Sembra di trovarsi in un’antica leggenda.

La barca tocca la sponda, si incaglia sul terreno. Scende lui, scendo io. Un brivido mi attraversa la schiena.

C’è una carrozza ad attenderci. Un piccolo uomo ammantato di grigio ci aspetta, tenendo le briglie dei cavalli. «Maestà» saluta con un inchino «Vi attendevo prima.»

«Siamo qui ora» risponde con freddezza. Quella che deve aver caratterizzato ogni sua interazione sociale al di fuori di quelle volute e sentite. Si siede sul retro e lo seguo, abbozzando un sorriso all’autista che si accomoda al proprio posto. Partiamo, inoltrandoci nella bella foresta. «Ho sempre amato uscire di notte e andare a cavallo con il favore delle tenebre» dice passandomi un lembo della pesante coperta che usiamo per ripararci dall’aria gelida «Quando iniziai ad essere troppo stanco per cavalcare, iniziai ad uscire in carrozza. Emozioni diverse, ma comunque molto forti.»

Le capisco. Se sono intense anche solo la metà di quelle che provo io, fanno vibrare l’anima fin nelle corde più profonde.

Attraversiamo un borgo silenzioso. Una sensazione di déjà vu mi pervade. Come se conoscessi quel luogo. Un pensiero inizia a delinearsi nella mente. Se solo mi fossi voltata verso destra, a scorgere il piccolo castello dalle pareti gialle, avrei compreso prima. Prendiamo una strada asfaltata delimitata dagli alti tigli e andiamo in salita. Lui mi osserva, lo percepisco con la coda dell’occhio e capisco perché poco dopo. Neushwanstein.

La luce della luna riflette sulla bianca parete che pare brillare d’argento. Etereo e perfetto si delinea in tutta la sua possenza il castello. Per un attimo gli occhi mi si bagnano di lacrime, che temo di non riuscire a trattenere. È lui. La carrozza si ferma proprio davanti l’ingresso e scendo, continuando a fissarlo con la bocca spalancata in un’espressione di muta e completa sorpresa mista contemplazione. Varchiamo il portale, senza dirci niente. Nessun fiato può rovinare quell’istante di perfetta sincronia, ove sia il tempo che il luogo si incontrano nel momento ideale. Entriamo. Camminiamo lungo il corridoio e per un attimo mi fermo per affacciarmi da una delle finestra laterali; inizia a piovere.

«La pioggia rende tutto più bello» dico continuando a guardare il telo di gocce scendere sempre più copiose a bagnare il mondo antistante a noi.

«È il tempo delle anime malinconiche.»

La sala dei cantori al Neuschwanstein.

La sala dei cantori al Neuschwanstein.

Lo guardo. Anime come noi, vorrei dire ma lo tengo per me. Riprendiamo a camminare e saliamo. Quattro piani. So dove mi sta portando. La testa gira prepotentemente. La sala dei cantori si palesa.

«Il monumento a tutto ciò che amavo. Ideali cavallereschi di leggende ormai andate ma non per questo perdute» commenta quando entriamo.

«Pareti tappezzate delle opere Wagneriane» come dubitarne.

«E il soffitto a cassettoni dedicato ai segni zodiacali che scandiscono l’anno» alza lo sguardo per indicare.

«Così grande, così vuota» commento «Nessun ricevimento è mai avvenuto qui?»

«Non era atta a contenere banchetti o balli. Era nata col solo scopo di ricordarmi quali fossero le cose importanti e chi le incarnava» risponde serio «Lohengrin, Parsifal. Loro sono eroi che andrebbero mistificati e idolatrati, non i vuoti simulacri che passeggiano per la mortale terra portando con loro effimere chimere.»

Parsifal alla corte di Amfortas nella fortezza del Santo Graal: dipinto murale nella Sala dei cantori, August Spiess, 1883/84.

Tutti coloro che detestano il proprio presente si rifugiano nel passato. Lo faceva lui, nell’ottocento, lo faccio io oggi. È una maledizione che si ripercuoterà sempre nei cuori di chi brama antichi fasti e vede nel futuro solo un nebuloso essere.

«Ti sei mai pentito, del modo in cui hai condotto la tua vita?»

«Ho cercato di seguire il cuore. Sempre.»

«E dove ti ha portato?»

«Ad essere un enigma. Per me e per gli altri» sorride soddisfatto citando una delle sue frasi più famose. Supera il cordolo rosso messo per evitare che i turisti camminino sul pavimento di legno. Faccio lo stesso, potendo così avvicinarmi agli affreschi che riempono le pareti. Una melodia sinuosa dapprima lenta poi mano a mano più forte increspa il silenzio. Mi volto verso di lui che mi tende una mano:
«Nessuno ha mai ballato qui. Ma vorrei che per una volta fossero i corpi ad esprimere ciò che le parole non riescono nella loro interezza.» Ci penso per un istante. Il cuore trema. Prendo la mano lasciando che sia l’istinto a guidarmi. E balliamo, sulle note del preludio del Tristano e Isotta. Quando ci fermiamo sento parole che muoiono in gola, che non avrò mai la forza di dire. Ma lui sembra percepirle, una ad una. Con quegli occhi grandi e indagatori che vedono oltre la realtà delle cose. Anche della mia. Rimaniamo immobili, con le mani destre congiunte, la sua sinistra sul mio fianco e la mia sulla sua spalla.

«Finirà.»

«Lo so» sento un velo umido appannare la vista

«Siamo due anime che hanno la fortuna di toccarsi, ma non quella di viversi» dice prendendo entra le mani tra le sue. Le stringe. Il freddo improvviso fa formicolare la pelle.

«Non è un caso se io e te siamo ora qui, al di là del tempo e dello spazio dei nostri confini reali» esclama con fermezza «C’è molto di me in te, e c’è molto di te in me. È l’unica cosa che so con certezza di questa notte. È l’unica cosa che ha reso possibile tutto questo.»

«Un solo attimo di beatitudine.»

Sorride. «A volte le cose più belle hanno la durata di un battito d’ali di farfalla. Rimangono eterne perché non vissute.»

Lohengrin ed Elsa.

Lohengrin ed Elsa, scena dal Lohengrin di Wagner da The Victrola book of the opera, 1917.

«Come Lohengrin ed Elsa.»

Ci guardiamo. Ancora una volta, con la medesima intensità. Uno sguardo simile nel quale specchiarsi. Forse ha ragione. Siamo anime che possono solo sfiorarsi, nella durata di una breve notte. Senza avere la possibilità di viversi. Siamo talmente vicini che riesco a sentire il freddo fiato del suo respiro sul viso. E come se fossimo in una delle opere tanto amate, ci concediamo il lusso di un bacio. Un unico bacio, per un unica notte. La sensazione che pervade il corpo nel mentre è potentissima. Come se il mondo intero si fosse fermato. Non c’eravamo che noi due, con le labbra strette nell’unico abbraccio che la realtà avrebbe mai concesso loro di avere.



Quando ci stacchiamo ho la testa che pulsa. E il cuore che batte con veemenza nel petto come fosse un pugno che picchia su di una porta.

«Volevo sapere che sapore avrebbe avuto» dice, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

«E che sapore aveva?» chiedo con un filo di voce.

«Di una vita che non vivremo mai. E che forse non avremmo vissuto, al di fuori di questa notte» riflette «Non ero capace di amare una donna, come avrei dovuto.»

«Non ha importanza» sorrido tristemente «Le illusioni servono a questo. A darci la possibilità di vivere per un attimo al di fuori della realtà».

«E non è un male».

«A volte no».

«Se l’illusione ti ha fatto star bene, non ha senso disilludersi ora».

Annuisco. Le mie parole hanno ancora più senso ora, che vengono usate contro di me.

In silenzio, torniamo alla carrozza e infine alle sponde del lago. Il sole sta sorgendo dalle acque e il cielo si sta schiarendo dei pallidi colori dell’alba.

Mi aiuta a salire sulla barca, ma non fa cenno di seguirmi. Mi bacia dolcemente la fronte: «Stavolta è Elsa a dover abbandonare Lohengrin.»

Annuisco, senza riuscire a dire niente.

La barca inizia lentamente a fendere la superficie immobile dell’acqua. Ci guardiamo, per l’ultima volta.

La notte finisce.

Fu creato forse allo scopo di rimanere vicino al tuo cuore sia pure per un attimo?Ivan S. Turgenev.
L'autore

Benedetta Melappioni

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Classe 1994, cresce a libri e videogiochi. Archeologia, Lego®, spazio, softair, modellismo, Star Wars™ sono solo alcune delle passioni che la rendono una gran brutta persona. È solita rintanarsi nel mondo immaginario che ha creato e che forse un giorno uscirà dalle pagine word che gelosamente lo custodiscono; nel frattempo quando non è in giro, beve una birra al pub locale assieme a Murray, il suo amico scheletro Playmobil®.