La maledizione di San Siro

In Città, Superstizioni e credenze di Silvio DellʼAcqua

Pavia (Lombardy, Italy): the castle of Visconti at evening

1 – Il Castello Sforzesco a Pavia (Depositphotos)

 Siamo vittime della maledizione di San Siro. Secondo la leggenda, infatti, i pavesi non riusciranno mai a mantenere intatto quello che hanno costruito con sacrifici. E il crollo della Torre civica ne è l’esempio lampante.[1]Carlo Mo, scultore pavese
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2 – Sacra Famiglia e san Siro da Pavia, opera di Bernardino Campi, 1569. Milano, San Marco.

Forse non c’è bisogno di tirare in ballo maledizioni, o forse —come si dice— le profezie si autoavverano, nel senso che chi ne è “colpito” farà di tutto per adeguarvisi. Sta di fatto se consideriamo tutto ciò che Pavia ha perduto nel corso degli ultimi tre secoli (occasioni comprese), la maledizione del patrono sembra essere andata davvero a segno. Già nel XIX secolo l’anonimo autore dell’Almanacco dilettevole per l’anno bisestile 1832[2] (→Pavia, 1832) sostiene che la città «presenti pochissimi avanzi dell’antica sua grandezza»: se già allora Pavia aveva perso gran parte delle sue meraviglie, possiamo immaginare quanto dovesse essere magnifica un tempo e quanto poco sia rimasto ormai oggi. E rabbrividire pensando a quanto di questo passo potrebbe restare domani. Il nostro anonimo ottocentesco rimpiangeva la demolizione, avvenuta tra il 1715 ed il 1716, della “Torre del Pizzo in Giù”: un edificio unico, una torre capovolta con la base più stretta della cima che nessun’altra città poteva vantare. Sembra che le autorità cittadine, allora forse ancora un poco più savie rispetto ai secoli successivi, si fossero opposte con forza a tale decisione del nuovo proprietario, il quale voleva rinnovare il palazzo e —preferendo forse uno stile più minimalista— liberarsi a tutti i costi del pesante ammennicolo. Oltre a quella capovolta, Pavia poteva vantare moltissime torri gentilizie, che le fruttarono l’appellativo di “città delle cento torri”: in realtà erano circa settantotto, delle quali però ne sopravvivono poco più di trenta, per lo più mozzate ed incorporate in altri edifici. Intatte, ne restano appena sei.[3][4] Alla fine dell’Ottocento venne progressivamente abbattuta la poderosa cinta muraria spagnola del XVI secolo[5] di cui oggi restano solo tracce. Anche la chiesa longobarda di Santa Maria in Pertica (VII secolo) e quella romanica di S.Giovanni in Borgo furono rase al suolo agli inizi del XIX secolo.

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3 – Cripta di S.Eusebio

Non va però meglio nemmeno nel ventesimo secolo: nel 1923 infatti fu demolita anche la chiesa di S.Eusebio[6] del XVIII secolo (ricostruzione di una precedente cattedrale longobarda del VII secolo d.C.) per far posto all’attuale Palazzo delle Poste: come se ciò non bastasse, la preziosa cripta longobarda sottostante risalente all’epoca di Re Rotari, i cui capitelli rappresentano uno straordinario esempio dell’incontro tra l’arte classica e quella longobarda, venne interrata e dimenticata. Sarà riportata alla luce soltanto tra il 1967 ed il 1968 grazie alle pressioni esercitate dal Mons. Mascherpa ed altri cittadini interessati a salvaguardare il patrimonio culturale della città. Ciò nonostante si riuscì di nuovo a fare un danno, ricoprendo la cripta —seppure con la lodevole intenzione di salvaguardarla— con una tettoia di calcestruzzo armato che poco si addice alla suggestiva piazza Leonardo da Vinci, dove si trovano ben tre delle sei torri gentilizie sopravvissute ed altri importanti edifici come l’antica sede dell’ospedale S.Matteo.

4 – Il “Ponte Coperto” medioevale, costruito nel 1351 e demolito nel 1948. Dal “almanacco dilettevole” del 1832.

È poi la volta dell’antico Ponte Coperto del XIV secolo, uno dei simboli della città, il quale ospitava una chiesetta al centro ed integrava sull’ingresso settentrionale una delle porte cittadine. Danneggiato gravemente dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale, al termine della guerra si aprì un dibattito sull’opportunità di ripararlo oppure sostituirlo con un nuovo ponte. La scelta ovviamente cadde sulla demolizione: questa volta fu il Ministero dei Lavori Pubblici a prendere questa decisione, il quale però non trovò particolare opposizione da parte dell’amministrazione cittadina. L’antico manufatto fu fatto saltare con la dinamite nel 1948 ed al suo posto tra il 1949 ed il 1951 venne eretto l’attuale ponte, solo lontanamente simile al preesistente e non più “in asse” con Strada Nuova, il corso principale della città.[7] Dell’antico ponte restano solo alcune rovine che affiorano appena dall’acqua del Ticino ed un accurato modello ligneo dei primi del ‘900 che si trova in uno dei saloni del palazzo comunale, abbandonato alla mercé di chiunque passi. Nulla ricorda le sfortunate “Officine tecniche Nazionali in Pavia, Ing. Einstein, Garrone e C.”[8] fondate nel 1894 e messe in liquidazione dopo un paio di anni per difficoltà economiche. Uno dei due proprietari era Hermann Einstein, padre del celebre fisico Albert Einstein che, allora sedicenne, trascorse le proprie vacanze a Pavia mentre frequentava il liceo a Monaco. Un altro storico stabilimento, quello della “Società Viscosa” è tutt’ora abbandonato da decenni (a parte un tentativo di riqualificazione di una piccola parte) e le architetture industriali dell’opificio, pur classificate tra i beni culturali,[9] versano in stato di totale degrado.

Rovine della Torre Civica di Pavia, crollata nel 1989 (foto P.Zavattarelli/Commons CC-BY-SA-3.0)

5 – Rovine della Torre Civica di Pavia, crollata nel 1989.

Nel 1989 crollò la Torre Civica del XI secolo, uno dei simboli della città, la cui mancanza è una ferita ancora aperta nel centro storico. Il crollo causò 4 vittime e 15 feriti e danneggiò gravemente anche il Duomo, tanto che si temette un successivo crollo della cupola che fortunatamente non avvenne. Le cause precise sono tutt’ora sconosciute ma furono in molti a ritenere che una manutenzione appropriata non avrebbe certo guastato alla staticità del monumento. Mentre si discuteva di cosa farne, le macerie furono ammucchiate con le ruspe in una spianata vicino al Ticino ed oggi alcuni frammenti sopravvivono nei Musei Civici.

6 – Le chiuse a Pavia, ormai in stato di totale degrado.

Un altro aspetto caratteristico della città era il Naviglio Pavese, parte del sistema dei Navigli di Milano: un importantissima opera idraulica che aveva la funzione di collegare Milano con i laghi Maggiore e di Como, il fiume Ticino ed infine, attraverso quest’ultimo ed il fiume Po, al mare. Oltre che una rete navigabile, fu anche un sistema di irrigazione che consentì rendere coltivabili vastissime aree. Un’opera insomma che ha cambiato il panorama agricolo e commerciale della Lombardia, e che Pavia ha pensato bene di ignorare. Nel 1601 iniziarono i lavori per una via d’acqua diretta che collegasse Milano con il Ticino, ma i lavori vengono sospesi già nel 1610 per svariati motivi, politici e militari, tra cui l’ostilità di Pavia per il progetto. Ci volle Napoleone, che ordinò perentoriamente che il Naviglio fosse “reso navigabile”: i lavori ripresero ed il canale fu ultimato nel 1819. Fu realizzata una darsena all’altezza di viale Bligny e poi una spettacolare serie di chiuse che consentivano di superare il dislivello con il Ticino. Il complesso del Borgo Calvenzano, dai caratteristici edifici porticati, era una sorta di “stazione” lungo la via d’acqua: qui si trovavano magazzini, officine per l’assistenza delle barche, una locanda “con stallazzo”, artigiani, uffici doganali, quasi un centro autonomo. Al traffico merci si affiancò quello dei passeggeri, anche attraverso piroscafi a vapore di cui resta qualche rara testimonianza fotografica e documentale. Dalla metà del XX secolo il traffico iniziò inesorabilmente e declinare, fino all’epilogo: se l’abbandono dei navigli come sistema di navigazione può essere imputato a diversi fattori, tra cui la smania del trasporto su gomma, l’amministrazione comunale fece la propria parte. Già nel 1933 infatti il piano regolatore cittadino ne caldeggiava la chiusura perché il corso d’acqua ostacolava l’espansione dell’abitato. Tuttavia, il Comune optò allora per una morte lenta del complesso, dimenticandosi della sua esistenza e condannandolo ad uno stato di degrado che perdura tutt’oggi. Le splendide chiuse in ferro sono divorate dalla ruggine e completamente inutilizzabili, le garitte del “guardiano idraulico” sono completamente abbandonate al vandalismo ed alla vegetazione spontanea che cresce all’interno, gli spazi verdi sono totalmente privi della più elementare manutenzione, l’acqua è putrida, tutto questo sulla soglia del centro cittadino. Il problema del degrado affligge un po’ tutto il Naviglio Pavese, ma sembra che nella città che gli dà nome lo faccia con particolare accanimento. Eppure, oltre ad essere un indubbia attrattiva dal punto di vista dell’archeologia industriale, la rete dei navigli avrebbe anche potuto offrire la possibilità di una navigazione turistica delle acque interne che altrove viene giustamente valorizzata: in Francia, ad esempio, sul Canal du Midi o Canale de Bourgogne, o in Irlanda. Invece, nulla.

7 – Lo spettacolare colpo d’occhio delle chiuse, da una incisione del 1832.

Pavia, oltre che dai ben noti Naviglio e Navigliaccio, era bagnata dalle “Carone”:[10] una rete di canali che entravano in città ed irrigavano ortaglie, alimentavano mulini (alcuni dei quali ipogei), permettevano la follatura dei panni. In via dei Mulini (tra il corso Cavour e via Bernardino da Feltre) c’erano almeno venti ruote idrauliche e salti d’acqua. Uno di questi rami passava sotto la centralissima Strada Nuova (allora Corso Vittorio Emanuele) sfruttando una esistente cloaca di epoca romana ed occasionalmente l’acqua veniva fatta uscire e scorrere al centro della strada, che aveva a tale scopo una sezione concava, per rinfrescare d’estate e spazzare la neve d’inverno. In tali occasioni il Corso principale diventava un piccolo canale e passerelle in ferro venivano predisposte per poter attraversare la strada: una particolarità che —per quanto ne sappia— non si ritrova in nessun’altra città d’Italia. Tutto questo è oggi scomparso, sepolto, interrato, tombinato: né i mulini, né le opere idrauliche, della Carona non si conserva neppure la memoria.

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8 – Corso Vittorio Emanuele (oggi C.so Strada Nuova) quando era un canale.

Pavia era una città interessante anche dal punto di vista dei trasporti: oltre al sopraccitato naviglio, nella prima metà del XX secolo disponeva infatti di un proprio aeroporto (un idroscalo per la precisione), due tranvie a vapore del 1880 ed un tranvia elettrica urbana dei primi del ‘900. Dal 1949 fu introdotto un tipo di trasporto silenzioso e per l’epoca innovativo: il filobus.[11] Che fine hanno fatto? Prendiamo l’idroscalo: inaugurato nel 1926, fu uno dei primi quattro aeroporti civili italiani e scalo della prima linea aerea regolare per il trasporto di passeggeri in Italia, operata dagli idrovolanti della SISA (Società Italiana Servizi Aerei). Gli altri tre scali furono Trieste, Venezia e Torino. Inoltre, quello di Pavia è uno degli unici due idroscali su piloni presenti in Italia (l’altro è quello di Torino) ed era considerato l’aeroporto di Milano, tanto per dare un’idea della sua importanza. Eppure, cessato il traffico aereo, l’edificio è stato completamente abbandonato dalle amministrazioni locali e, nonostante occasionali promesse di recupero in periodo di campagna elettorale, ora giace in uno stato di degrado tale da lasciare poche speranze.

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9 – L’Idroscalo di Pavia, ormai in uno stato di fatiscenza difficilmente recuperabile.

Non va meglio con le ferrovie. Da piazza Petrarca partivano due tranvie a vapore che collegavano Pavia rispettivamente con S.Angelo Lodigiano e Milano: era il famoso Gamba de Lègn, nomignolo che richiamava l’andatura lenta e traballante dell’automotrice a vapore. La linea per S. Angelo correva sulla strada per Lodi, l’attuale SS 235, e fu chiusa nel 1934. La linea Pavia–Milano fu chiusa invece nel 1936 con il proposito di sostituirla con una linea più moderna,[12] che però non si concretizzò mai.

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10 – Milano, primi del ’900: la tranvia Milano-Pavia (Civico Archivio Fotografico, Milano).

Nel 1954 si decise di smantellare anche la tranvia cittadina: certo, forse il tram a binario singolo non era più sufficiente a sostenere il crescente traffico di passeggeri, ma quest’anno avrebbe compiuto un secolo. In molte città europee le tranvie sono invece un elemento caratteristico del paesaggio urbano; a Lisbona alcune di esse (), che hanno tra l’altro la stessa età del defunto tram pavese, sono state dichiarate monumento nazionale mentre alcune vetture storiche di Milano sono finite a San Francisco. Alla fine toccò anche al filobus: nel 1968, quando la rete filoviaria necessitava dei primi lavori di ammodernamento (cosa normale dopo quasi vent’anni di servizio) si decise frettolosamente[11] di smantellare di nuovo tutto e sostituire i silenziosi filobus con i rumorosi autobus che tutt’ora arrancano faticosamente nel centro storico: ancora oggi, nel dialetto pavese, molti anziani dicono filobus per indicare l’autobus.

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11 – Le linee ferrotramviarie di Pavia: in rosso il tram urbano, in blu le linee interurbane a vapore

La “maledizione di San Siro” si manifestò anche sottoforma di grossolane gaffe. Quando negli anni ’30 fu affidata allo scultore Francesco Messina (1900-1995) la statua della Minerva, che si trova nell’omonima piazza vicino alla già demolita —avevate dubbi?— Porta Cavour (parte della cinta muraria spagnola), questo realizzò una statua che rispettava i canoni della raffigurazione classica ellenistica: una fiera Minerva impugnante una lancia con la punta in alto, dal naso greco e dal seno nudo. Quest’ultimo dettaglio fu però giudicato troppo osé dal Consiglio comunale, il quale dopo una lunga discussione chiese allo scultore di coprirla. L’artista con rammarico si adeguò e la versione definitiva della statua portava un assurdo bavarino che ne appesantiva inutilmente l’estetica. Ma la beffa non era finita: oltre alla discutibile e bigotta imposizione lo scultore dovette sopportare anche di vedere montata la statua con la lancia al contrario. Così rimane tutt’ora, e Pavia ha forse l’unica statua della minerva con la lancia in basso, in segno di resa di fronte a tanta superficialità. Si racconta che Messina non volle nemmeno presenziare all’inaugurazione; fu però poi incaricato di realizzare l’attuale statua del Regisole (1937). La scultura originale infatti era stata distrutta nel 1796 dai giacobini pavesi (che vi vedevano un simbolo monarchico) e nel 1809 l’amministrazione comunale aveva pensato bene di vendere i pezzi superstiti per finanziare alcune opere pubbliche.

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12 – La statua della Minerva, con il seno artificiosamente coperto e la lancia al contrario.

Dopo la guerra si verificò un vero e proprio scempio del centro storico avvenuto sotto l’egida della Soprintendenza per i Beni Culturali della Lombardia: nel ’56 fu concesso ad una società privata di sventrare Piazza Grande, la piazza principale della città (oggi Piazza della Vittoria), per realizzare il mercato ipogeo con le vistose scalinate definite dall’arch. Ignazio Stabile «ingombranti gabbioni».[13] Pochi anni più tardi venne pesantemente rimaneggiato un edificio trecentesco tra via Bussolaro, via Cavour e via Beccaria per realizzare la nuova sede della Banca Commerciale Italiana, e la facciata lato Corso Cavour fu demolita per far posto agli attuali portici, nonostante le proteste della sezione pavese dell’Associazione Italia Nostra.[13] Nel 1949 il nuovo piano regolatore mise in previsione la demolizione dello storico isolato del Demetrio, uno degli edifici più centrali della città, posto sull’incrocio tra Strada Nuova e Corso Cavour e prospiciente piazza della Vittoria (ex Piazza Grande).[13] Anche qui, nulla valsero decenni di lotta da parte di Italia Nostra per impedire lo scellerato progetto, che venne portato a termine degli anni’70. Poi fu la volta dell’edificio sul capo nord di Piazza della Vittoria, un elegante edificio nobile con evidenze della sua origine medievale, demolito quasi di nascosto dall’interno per fare posto alla nuova sede della Banca Popolare di Novara (ora l’edificio è sede di un’altro istituto di credito). Italia Nostra si appellò persino al Ministero nel tentativo di salvare almeno la facciata, ma il Comune si affrettò ad intervenire in favore dell’intervento garantendo sulla legittimità dello stesso.

Piazza Vittoria a Pavia

13 – Piazza della Vittoria a Pavia: il palazzo che chiude il lato settentrionale è degli anni’60. E si vede, purtroppo.

Come se non bastassero le demolizioni, negli anni’50 fu autorizzata la costruzione del palazzo “Alfa”, detto anche “palazzo di vetro”, un grattacielo di undici piani proprio sulla riva del Ticino. La concessione edilizia inspiegabilmente derogava al piano regolatore sulla destinazione residenziale, altezza massima consentita e fascia di rispetto latistante il fiume (per la quale era prevista un ulteriore riduzione del limite di altezza). Ne scaturì una feroce polemica che portò all’intervento del Ministero dei Lavori Pubblici, ma la cui unica conseguenza fu una sanzione a carico del costruttore, che poté così sanare l’abuso e completare l’opera.[13]

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14 – Il contestato “palazzo Alfa”, a ridosso della riva del fiume (Geobia/Commons CC-BY-SA 3.0)

Ma forse il più inspiegabile atto di autolesionismo cittadino doveva ancora arrivare: tra il 1966 ed il 1968 l’architetto finlandese Alvar Aalto, una delle figure più importanti nell’architettura del XX secolo e ricordato (assieme nientemeno che a van der Rohe, Gropius, Wright e Le Corbusier) come maestro del Movimento Moderno, progettò un intero quartiere per Pavia. Sarebbe stato una delle poche opere in Italia firmate da Aalto, ma il progetto viene osteggiato ed accantonato, come scrive l’architetto Vittorio Prina, «a causa di motivi politici ed economici — velati da giustificazioni pseudo ambientaliste e sociali — e dell’assenza di lungimiranza e coraggio nel riconoscere e accettare una proposta innovativa nella quale è sottesa una reale attenzione al contesto».[14] Pavia spreò anche quest’occasione e l’area dove sarebbe sorto il quartiere “aaltiano” è ora un disordinato assembramento di edifici disomogenei. Ne naque una feroce polemica che coinvolge la stampa locale e che causò addirittura una scissione interna alla sezione pavese di Italia Nostra ma, scrive ancora Prina, «il quadro complessivo restituisce una pochezza esemplare.»[14]

Se da una parte va considerato che all’epoca la sensibilità verso il patrimonio storico ed ambientale era cosa riservata ad una ristretta cerchia di acculturati, c’è però da dire che anche in tempi recenti Pavia non perse l’occasione di distinguersi. Ad esempio nel 2008, quando poteva essere inclusa tra i patrimoni dell’Unesco insieme agli itinerari longobardi ma ne fu esclusa perché al sopralluogo dei tecnici ministeriali i monumenti cittadini risultarono in condizioni «imbarazzanti»,[15] non tutelati e non fruibili al pubblico: una autentica figuraccia. Nel 2010, per fare posto ad una lussuosa palazzina residenziale in pieno centro, fu demolito l’edificio dei primi del ‘900 che ospitava lo storico complesso del caffè–ristorante, cinema e teatro Kursaal, uno dei più importanti ritrovi culturali cittadini nel corso del XX secolo e sul cui palco si avvicendarono numerosi nomi importanti della prosa e dell’avanspettacolo tra cui l’attrice e cantante Nella Regini (una delle figure più note dell’operetta italiana degli anni venti). Non andiamo oltre, perché gli avvenimenti odierni potrebbero soffrire di “recentismo”, ovvero essere giudicati alla luce di valutazioni politiche che non è nostra intenzione affrontare. Ma gli esempi di come questa “maledizione di San Siro” si sia manifestata ad ogni occasione potrebbero essere ancora molti. E molte restano le domande: ad esempio, come nel 2013 Pavia sia finita sul New York Times come la città con il primato non proprio lusinghiero del maggior numero di slot machines pro–capite,[16] o al 66° posto su 107 —in discesa rispetto al 2012 ed ultima tra le città settentrionali— nella classifica della qualità della vita de Il Sole 24 Ore.[17] Devono averla fatta proprio grossa, i pavesi, al loro Santo Patrono.

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15 – Pavia di notte, vista dal Borgo. Nonostante tutto, è comunque bella (Depositphotos).

Note

  1. [1]in Spatola, Giuseppe. “Noi pavesi, vittime della maledizione lanciata da San Siro” Corriere della Sera [Milano] 14 Mar. 2004: 51. Archivio storico del Corriere della Sera (.it). Web. 8 Sept. 2013.
  2. [2]Anonimo (accreditato come “P. F. P.”) La Torre del Pizzo in Giù: almanacco dilettevole per l’anno bisestile 1832. Contenente una breve descrizione delle cose che meritano di essere osservate del forestiere nella R. città di Pavia e suoi dintorni. Pavia: Fusi e Comp., 1832.
  3. [3]Torri medievaliVisita Pavia. Web. 8-9-2013
  4. [4]Torri Medievali” Italia nell’Arte Medievale. Web. 8-9-2013
  5. [5]Mura spagnole di Pavia” Lombardia beni culturali
  6. [6]Cripta di S.EusebioMusei Civici di Pavia. Web. 8-9-2013
  7. [7]Che il ponte non sia più allineato non è solo un dettaglio: ciò toglie completamente il “colpo d’occhio” che si doveva avere dal ponte verso Strada Nuova, e viceversa. Lo stesso dicasi per via dei Mille, dal lato del Borgo.
  8. [8]Einstein a PaviaCamera di Commercio di Pavia. Web. 8-9-2013
  9. [9]Snia Viscosa — ComplessoBeni Culturali Lombardia. Web. 8-9-2013
  10. [10]Albertini, M. Roggia Carona Magistrale
  11. [11]Guastoni, C. “Dal tram a cavallo all’autobus a metano.” Socrate al Caffè n°73 Gen. 2013: 2-7
  12. [12]Come previsto dal piano regolatore di Milano del 1934.
  13. [13]Garza, Francesco “Il ruolo di Italia Nostra a Pavia (1959-1970)Comune di Pavia.
  14. [14]Prina, Vittorio. Alvar Aalto. Progetto di complesso residenziale a Pavia: “Onde anomale” lungo il fiume: spazio, architettura, territorio e innovazione (Arti visive, architettura e urbanistica). Gangemi, 2012.
  15. [15]Mayda, Filiberto. “Unesco, il ministero boccia il Comune.” La Provincia Pavese [Pavia] 11 Gen. 2008
  16. [16]Povoledo, Elisabetta. “Many feel gambling deals Italy losing hand.” New York Times 27 Dec. 2013: pag. 4.
  17. [17]Qualità della Vita 2013. Il Sole 24 Ore.

Immagini

  1. © clodio/Depositphotos.
  2. Bernardino Campi, 1569 Commons.
  3. 1985, [PD] Wikipedia.
  4. anonimo, da “Almanacco Dilettevole per l’anno 1832“.
  5. P. Zavattarelli [CC-BY-SA 3.0]  Commons.
  6. © Silvio Dell’Acqua/Laputa, 24-2-2014.
  7. anonimo, da “Almanacco Dilettevole per l’anno 1832“.
  8. sconosciuto [PD].
  9. 3-2011, [PD] Commons.
  10. Inizio XX secolo [PD] Civico Archivio fotografico Milano/Wikipedia.
  11. Friedrichstrasse/Open Street Maps [CC-BY-SA 3.0] Commons.
  12. © Silvio Dell’Acqua/Laputa 5-2014 [CC-BY-SA 3.0].
  13. © Silvio Dell’Acqua/Laputa 5-2014 [CC-BY-SA 3.0].
  14. Geobia [CC-BY-SA 3.0] Commons.
  15. © Albo73/Depositphotos.
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Silvio DellʼAcqua

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Fondatore, editore e webmaster di Lapůta. Cultore di storia della Croce Rossa Internazionale. Appassionato di ricci.